Per cui io vi dico: noi vogliamo innanzi tutto rispettare i diritti in- .violabili e sacrosanti della persona, diritti che in altri stati sono sanciti da norme ben diverse e che consentono anche l'autodifesa, e, in modo particolare, avvalerci di tutte le norme, di tutti i presidi posti dalla nostra procedura per poter contrastare, sul piano della dialettica processuale, quegli elementi che hanno portato alla prima sentenza di condanna appellata. [... ] Io mi richiamo alle richieste fatte dal presidente e confido che l'intelligenza dei magistrati e dei giurati che compongono questa corte voglia dare il massimo risalto alla funzione dell'avvocatura.» Replicano gli avvocati delle parti civili (presidenza del consiglio e De Cataldo) i quali si mostrano sorpresi di questi interventi inusitati. Il richiamo netto e «ingenuo» ai principi elementari di svolgimento del processo da parte di loro colleghi (peraltro non sospettabili, neanche lontanamente, di simpatie politiche verso gli imputati) spezza l'andamento ormai scontato di questi incidenti in questi processi. Le reazioni sono disordinate e non sempre composte. Uno degli avvocati di parte civilesi si stupisce che sia ancora sollevata la questione della difesa: «il problema sembrava definitivamente superato». Ma, vien da pensare, in che modo? Con il superamento tout-court di una difesa degna di questo nome? Interviene poi il procuratore generale che, dopo aver preso le difese della legge sui pentiti, conclude nel modo che segue: «Dicevo che il termine minimo è quello di tre giorni, che prevede il codice. Se vogliamo considerare il processo come particolarmente impegnativo, maxiprocesso (è superfluo ricordare che maxiprocesso non è un'invenzione della magistratura, ma, se mai, un'invenzione della criminalità moderna con la quale abbiamo a che fare), vogliamo considerare il processo di particolare impegno e difficoltà e, se è consentito in questa materia un suggerimento al p. m., il presidente potrà andare oltre di qualche giorno ... » A questo punto un imputato, che non aveva prima revocato il suo difensore di fiducia, provvede alla revoca dichiarando di voler avere uno di quei difensori d'ufficio «perché almeno con loro posso discutere la mia storia». La corte si riunisce in camera di consiglio. Alla fine il presidente legge l'ordinanza: «P. - Sentiti i patroni di p.c. [parte civile] e il p.g. [procuratore generale], rilevato: - che l'imputato Azzolini Lauro ha revocato la nomina dei difensori di fiducia; -che i difensori oggi nominati d'ufficio: Barbetta, De Stasio, Viscardi, Poletti hanno chiesto la concessione di un congruo termine a difesa, indicando la durata in giorni sessanta; ritenuto: -che occorre nominare all'imputato Azzolini un difensore d'ufficio; - che in relazione, per un verso alla mole degli atti processuali, alla complessità delle questioni trattate, alla necessità di approfondita valutazione delle posizioni processuali dei singoli, per altro verso, in relazione alla fase in cui il processo pende (fase d'appello), al numero degli imputati per i quali ciascuno dei legali summenzionati è stato nominato difensore d'ufficio, ai motivi d'appello per ciascuno degli imputati già redatti da altri difensori, alla sistematica della decisione impugnata che attraverso scritti individuali, indici particolareggiati allegati, consente di effettuare in maniera rapida ogni necessario riferimento per ciascuno degli imputati e le parti della sentenza che lo riguardano, così come anche per ciascuno degli imputati e le parti di atti processuali che pur lo riguardano, appare congruo e tale da soddisfare le legittime esigenze dei difensori nominati d'ufficio il termine di giorni otto, ex articolo 130 C.3° Cod. Pr. Per questi motivi nomina l'avv. Viscardi difensore d'ufficio di Azzolini Lauro; concede ai difensori oggi nominati d'ufficio il termine a difesa di giorni otto; rinvia per la prosecuzione all'udienza del 17.10.85, ore 9». L'udienza del 17 è puramente interlocutoria. All'udienza successiva del 21 ottobre 1985: «Chiede quindi la parola l'avvocato Barbetta, e gli viene concessa. Avv. Barbetta - Il collegio di difesa mi ha incaricato di fare alla corte la seguente dichiarazione, che leggo: «Prendiamo atto dell'ordinanza della corte e ribadiamo l'impossibilità di qualsiasi difesa nei termini impostici. Il diritto di difesa, definito inviolabile dall'articolo 24 della costituzione, viene in questo modo, di fatto, vanificato essendo evidente che non ha nulla a che vedere con il vero diritto di difesa l'imposizione, in simulacro meramente formale, di un difensore, cioè, del quale si pretende la presenza fisica ma al quale non si concede la materiale possibilità di difendere davvero. Questo difensore, perciò, non può garantire nessuno, e soprattutto non serve a salvare lo stato di diritto da intollerabili violazioni costituzionali. Tuttavia, non riteniamo di abbandonare quest'aula, come esigerebbe il termine assegnatoci per lo studio di decine di volumi di atti processuali (alla magistratura sono occorsi sei mesi solo per la stesura della sentenza), e restiamo unicamente per eccepire la nullità del processo per violazione dei diritti della difesa. Ci riserviamo ogni ulteriore iniziativa processuale ed extra processuale, nelle sedi più opportune. P. - La corte prende atto di quanto sopra e ordina procedersi ... » Il breve incidente è terminato. La minaccia di eccepire la nullità del processo rimane fino ad ora una dichiarazione onorevole. Forse porterà ad un ricorso alla CQrte europea dei diritti dell'uomo. La corte riesce a pronunciare la sua sentenza nel termine che si era dato, il 30 novembre. Nulla sembra essere accaduto. Resta una impennata di orgoglio dell'avvocatura milanese che, pur con una certa retorica, rivendica il proprio legittimo ruolo di parte non simbolica nel processo e rompe quell'andamento confuso al quale spesso si assiste, con la corte che ha come preoccupazione principale quella di non smentire l'istruttoria e l'accusa, l'accusa che fa la difesa dell'imputato pentito e il difensore che collabora... (con chi?). Con questo intervento di Amedeo Santosuosso Alfabeta intende avviare una riflessione sulla funzione ed il ruolo della difesa nel contesto dell'evoluzione del nostro sistema giuridico e delle trasformazioni del processo penale. Sono previsti altri contributi anche in forma di intervista. PAGINEDIPAGINEDIPAGINEDIPAGINEDIPAGINEDIPAGINEDIPAGINEDIPAG 3. Dal classico all'antico. Presentando, nel 1981, una raccolta di contributi in gran parte legati alla sua scuola, Mario Vegetti scriveva: «C'era una volta il classico. Archivio delle forme belle, infanzia felice dell'umanità, archeologia implicante una teleologia, territorio della nostalgia per l'intellettuale europeo (in quanto tempo della trasparenza e dell'efficacia perdute) (aut aut, fascicolo speciale dedicato a «Nuove antichità», n. 184-185, p. 1). «L'eclissi del 'classico' - continuava Vegetti (che aveva da poco pubblicato il suo libro più pungente, Il coltello e lo stilo, edizioni Il Saggiatore) - non ha lasciato propriamente un vuoto, bensì un territorio che da luminoso si è fatto opaco: dove si supponeva l'identico si è scoperto il diverso, e gli specialisti hanno davanti un oggetto nuovo, l'antico, non più riducibile all'enticlopedia aristotelica del sapere, o alla filosofia, regina di tale costruzione, ma che presenta piuttosto un intreccio di saperi, alti e bassi, forme forti attraversate da forme deboli o interstiziali, come la parola teatrale o i vari percorsi dell'immaginario o le figure del rituale e del sacro; piuttosto l'attenzione deve ora rivolgersi - proponeva Vegetti con un programma prossimo a quello per esempio di un Vernant o di un Detienne, e abbastanza esplicitamente sensibile al metodo di Foucault - proprio agli interstizi che fendono l'enciclopedia, alle «zone grigie dei saperi». A distanza di alcuni anni, possiamo valutare la bontà di questo progetto con l'occhio a due volumi collettivi usciti da Boringhieri, Oralità Scrittura Spettacolo e Il sapere degli antichi, che costituiscono la prima tranche di un'opera in quattro volumi intitolata Introduzione alle Modidi pensare culture antiche e curata dallo stesso Vegetti: quest'opera è propriamente un tentativo di ridisegnare la mappa dei saperi antichi, descrivendo oggetti e contenuti, anche nelle loro intersezioni, con particolare attenzione ai modi, alle figure, agli elementi istituzionali della comunicazione culturale. Così, nel volume più recente (Il sapere degli antichi) si parla di linguaggio e discorso, testo e letteratura, figura e numero, ·materia e moto, cielo e terra, macchina e artificio, architetto e città, anima e corpo, medico e malattia, animali e piante, i barbari, mantica, magia e astrologia, gli dei e il dio. I testi, pur ricchi di bibliografia analitica, sono volutamente semplici: scritti da specialisti (tra cui W. Laszl e G. Lloyd, e, fra gli italiani, A. La Penna, G. Cambiano, D. Del Corno, G. Donini) sono rivolti a un pubblico più ampio, anche di non specialisti. Insomma, il progetto ha preso piede con l'intendimento di caratterizzare a largo raggio gli studi sull'antico nella nostra scena culturale. «C'era una volta il classico». È questo epitaffio che colpisce perché pone ancora problemi. Lasciamo da parte il dibattito tra gli specialisti: guardiamo alla risonanza che questo déplacement dal classico all'antico può avere sul modo di pensare filosofico in generale. L'invito è a prendere distanza (in realtà una doppia distanza: dalla classicità e, all'interno della stessa cultura antica, dai modi di coscienza che gli antichi stessi avevano di sé): in breve, a disinvestire il «classico» del suo alone di super-oggetto che ha pesato sul pensiero occidentale come mito della positività perduta (Hegel). L'antico è la laicizzazione del classico: ne perde l'aura e guadagna così in novità. Tornando ad essere un oggetto tra Pier Aldo Rovatti gli altri (e Vegetti si spinge a dire: un sapere «buono da pensare» così come erano «buoni da pensare» i barbari per i greci), l'antico può reclamare la propria diversità e specificità, fuori dai modelli precostituiti, può mostrare altri spessori e altri limiti, parlarci dal suo luogo storicamente autonomo, e dunque finalmente parlare. L'acquisto di conoscenza è indubbio: comprimendo il pregiudizio, la scena (vuota o solo abitata da idee luminose da elaborare come lutto) si popola, il tessuto delle forme di vita comincia a distinguersi proprio grazie alla sua opacità, i sentieri interni (spesso interrotti) prendono rilievo, la scena dei saperi minori (ma viventi) ridà vita (e dunque incertezza, mescolanza, sfumature) a quella aurea della filosofia (spesso cadavericamente unitaria, identica a se stessa). Ma ci si può anche chiedere: è davvero possibile cancellare il classico e trasformare l'antico in un sapere «buono da pensare»? Si tratta solo di un pregiudizio che la nostra coscienza illuministica deve e può sciogliere senza residui? Qualcuno ha protestato: ma allora la filosofia scompare e si rischia di passare da un estremo all'altro. Non credo però che il punto sia questo: la filosofia, anche se non figura più nemmeno come capitolo di questa Introduzione, infatti non scompare, anzi si allarga e si dissemina: di Platone e di Aristotele si continua a parlare, ma non più solo nel chiuso del cerchio autore-dottrina, bensì come crocevia, luogo di intersezione di una molteplicità di pratiche, non esclusivamente filosofiche. Del resto, proprio Vegetti, studiando la medicina antica (Ippocrate e Galeno), ha indicato molto chiaramente come si possa, da qui, alimentare l'intero edificio della fiPAG E losofia antica. Ho l'impressione che il problema sia più complicato. Dopo Hegel e il mito della bella positività è venuta la stagione di Nietzsche: una lacerazione si è introdotta attraverso la visione del dionisiaco, e la Grecia ha preso ad essere il luogo della tragicità, una nascita meno luminosa dietro cui altri scenari di oscurità si sono cominciati ad intravvedere. Poi sono arrivati Husserl e Heidegger (tralasciamo Cassirer e tutti gli altri): il primo ha di nuovo cercato un'origine, il secondo vi ha visto un luogo, destinato a restare in gran parte ignoto, in cui la vicenda più importante - quella dell'essere - si era già giocata nel bene e nel male. Ma possiamo dimenticare Freud? E se poi ci guardiamo attorno,.nel nostro oggi privo di punte filosofiche, ci accorgiamo che il desiderio di risalire ali'antico e di far parlare i greci (e i latini) sui nostri problemi non è affatto declinante; così Parmenide, o gli stoici, o Lucrezio, o Gorgia, o Galeno, in una varietà di modi (in cui si scavano certo anche differenze nette), continuano ad affollare come fantasmi eccellenti il nostro dibattere: non più e non solo «autorità» da ascoltare, ma neppure semplicemente oggetti buoni da pensare. Miche! Serres, per esempio, è uno dei moltissimi pensatori (tra cui, in ultimo, lo stesso Foucault) che hanno guardato in tal modo all'antico. Ho menzionato Serres perché nel suo libro Rame ci fornisce forse una buona pista: la Roma di Livio è per lui t.ineccezionale pretesto per far vedere quale groviglio di mito e sapere si nasconde dietro la parola «fondazione», qui intesa proprio come la fondazione di una città. Soprattutto Serres ci invita a pensare intorno al fatto che la fondazione non è mai compiuta, e che dunque il rimando all'intrico delle fondazioni (dove certo si infrange l'idolo dell'origine unitaria e perduta) non è un ritorno nostalgico, ma il problema che continuamente si riproduce, principalmente nell'epoca della tendenziale esaustione dei saperi da parte della scienza. (Ma non era poi anche questo che a modo loro volevano dire Husserl e Heidegger?) L'antico rileva il classico: questo processo critico è decisivo, apre strade. Ma la distanza, qui, forse non può mai essere un allontanamento: resta piuttosto un approssimarsi, o meglio diventa questo rendere più prossimo. Ci rivolgiamo all'antico con un'idea di sapere non più centrata e imperialistica: un sapere diffuso, molteplice, decisamente complesso. Così l'antico torna a parlare: ma, insieme ad esso, alla sua specificità storica, abbiamo messo in gioco il nostro processo di sapere, e il problema che lo attraversa, quello che ci lega e ci fa prendere distanza, nel medesimo tempo e con lo stesso gesto filosofico, dalla nascita della nostra città. Qualcosa che ha a che fare con l'immaginario e la «memoria» (o con l'oblio, ma le cose non cambiano): qualcosa in cui si gioca il senso stesso della nostra stessa operazione di sapere. La mia impressione è allora che nel processo dal classico all'antico 'O (che considero un processo di sco- 1::1 perta) siamo continuamente ac- -~ compagnati da questo problema: ~ gli effetti che si producono sono ac- ~ quisti culturali ma anche - e non ....., secondariamente - trasformazioni, ,9 I:! metamorfosi, o semplici sposta- ~ menti all'interno di tale problema. ~ ~ ~ a <u -e ~ - I:!
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