studiosi avvertiti; la vera alterità è la perdita secca di leggibilità, quello spazio tutto bianco o tutto nero che rimane nella poesia e nel quale ciascuno, leggendo, entra senza sapere. Questo per me è il modo, senza pretese o ricatti, di leggere D'Annunzio. Questo è il modo di affrontare, anzi di non affrontare, l'altro luogo comune dannunziano: quello dei rapporti tra poesia e vita. Da qui si può passare a toccare un altro punto noto: la «nobiltà» del lessico, una scelta lessicale definita «nobile» e vista come collegata a motivazioni letterarie. Piuttosto si potrebbe vedere questo orientamento linguistico di D'Annunzio come necessitato da motivi assoluti di scrittura: dalla priorità dei suoni. Allora la parola colùbro, per esempio, non fa pensare a preziosismi bensì alla necessità di una particolare tessera per una particolare sinfonia. Arriviamo all'Alcyone: che inizia secondo me non col Despota della «Tregua» ma con questi tre versi «fiesolani»: ... la volontà di dire I le faccia belle I oltre ogni uman desire. La volontà di dire: a parte le belle connessioni della filologia, questa espressione è altamente rivelatrice delle posizioni dannunziane: indica ciò che precede il dire, fonda un luogo pre o extrasoggettivo, e lo colloca: è il topos di un impedimento (a dire) che in questo poeta non potrebbe che coincidere con la volontà. Ovvero: il silenzio che precede e impedisce il dire corrisponde in D'Annunzio a quel tratto di pienezza del linguaggio dove mancanza e volontà sono un'unica cosa. Pensando che la parola e la luce sono i protagonisti della poesia di D'Annunzio, io lettore mosso ancora da un'esigenza topica oscenica ricorderei il verso: la luce copre abissi di silenzio. E nella «Tenzone» si delinea la grande questione del tempo: Quel che ieri mi nocque, or non mi nuoce;/ quello che mi toccò, più non mi tocca, dove la traduzione del sentimento in un'attualità fisica, sensuale, non è affatto una riduzione, ma ha la stessa fondamentale importanza (sulla quale ritorneremo) del portare al presente ogni tempo e ogni luogo. In questo senso leggo l'avvio galante di «Bocca d'Arno»: Bocca di donna mai mi fu di tanta/ soavità nell'amorosa via/ (se non la tua, se non la tua, presente) ... Le parole come protagoniste, presentate lucidamente con «Le stirpi canore», in specie da quei due versi che dicono: fervide come le vene/ degli adolescenti, s'innestano nelle voci del cielo e del suolo con la famosa «Pioggia nel pineto». Si dice che questa lirica (divisa in quattro parti, di cui per me solo la prima è necessaria) sia uno dei massimi nell'esaltazione della parola e del suono. A me pare che, al di là del manifesto e immediato in- ~ vito alle cose dell'ascolto, le prec::s senze decisive e abbaglianti di que- .:; ~ sta poesia siano i colori: e tra i tanti ~ è sovrano il bianco, di cui c'è una ~ vera esplosione. -. Ora forse si potrebbe dire, in -~ questa vicenda o topica da me av- ~ 'viata sul rapporto tra parola e luce, ~ Cl-O che è colori della «Pioggia nel pine- ~ to» sono uno dei vertici misteriosi I:! di questa relazione: potremmo im- ~ parare da D'Annunzio che senza ~ parole, così come senza luce, non ~ ci sono colori. 2 E ancora della «Pioggia» si può 5 dire qualcosa sui Taci e Ascolta: ] che secondo me non vanno letti co2:; me soavi inviti ma come veri impei; rativi (non dico duri o violenti, dico soltanto imperativi) e come tali si riallacciano alla volontà di dire. Così la voce della natura nella «Pioggia» è il rovescio della voce dell'io. Invece gli unici punti in cui la poesia si apre a una condizione nuova sono i Taci, Ascolta e la favola bella, cioè i luoghi dove la volontà di dire colloca altro. Un verso memorabile, un endecasillabo dove appunto questa volontà è tutt'uno con la mancanza è l'ultimo dei «Tributarii» e dice: Dai monti l'acqua corre a questa foce. D opo la «Sera fiesolana» e la «Pioggia nel pineto», un 'altra poesia che pone questioni di poetica è «Meriggio»: che qui vuol dire silenzio (Bonaccia, calura,/ per ovunque silenzio). E tutto tace: ... Non trema canna .. ./ I Non suona voce/ se ascolto. Non c'è il \ dire. L'ascoltare, dopo aver ascoltato il silenzio, finisce anch'esso. Lavolontà di dire diventa «volontà di essere»: la fine dei nomi dà luogo all'identificazione negli elementi della natura. Fino all'immedesimazione nel meriggio, nel silenzio. E in questa ricostruzione di percorso è come se si perlustrassero i territori limitrofi della volontà di dire. E si scopre che essa, comprendendo anche l'ascolto del silenzio e il silenzio, è un dominio totalitario. È come se D'Annunzio ci avvertisse \ che non è il silenzio l'uscita dal dire, perché finché c'è silenzio c'è ascolto; né tanto meno l'immedesimazione nella natura con quel pizzico strappalacrime che ha di finta morte, di parodia, e d'imitazione della tragedia. Semmai l'uscita dalla volontà di dire è il desiderio, questo mi sembra il grande annuncio di «Meriggio». Il desiderio, quella forma insostenibile che compare, quasi alla fine, nei versi: ... In tutto io vivo/ tacito come la Morte. Lo stesso desiderio che alimenta tre versi, forse i più belli di Alcyone, con una vera e propria perfezione di metro e di senso, .quelli che chiudono «Le Madri»: Attendon dai sogni soli/ la genitura/ le Madri. .. Per quanto riguarda l'amore di I l I . I '' ))Il," Il teatro delle streghe D'Annunzio per i toponimi, vorrei dire che è difficile sottrarsi al fascino di parole che, non significando niente, manifestano la loro irriducibile purezza di oggetti pronunciabili. Con «Stabat nuda aestas» arriva decisamente una nuova sensazione del piacere (che già si era rivelata nei lampi omosessuali di «Bocca di Serchio»). Dopo il piacere legato all'ascolto, qui si fa avanti quello della vista - felicemente evitando tutto ciò che di repressivo l'occhio porta con sé. La poesia comincia con: Primamente intravidi il suo piè stretto e, pur avendo ancora un gioco dell'ascolto nell'allodola che chiama, i suoi pilastri sono le immagini, le viste: e precisamente, o1tre il verso citato, altri due punti dove c'è l'atto del vedere: Scorsi l'ombre cerulee dei rami/ su la schiena falcata e Tra i leandri la vidi che si volse, due immagini che si fissano indelebili. E ancor più nel finale, questo maestoso spalancarsi di nudo, di luce nuda e di piacere che come apparizione (apparve) abbaglia qualunque percezione. Difficilmente si incontra, nella storia della nostra poesia, un verso così audace e pacato: formato di quattro parole, anzi di tre (una è ripetuta), simmetrico, vive di una scansione interna, di un tempo di pausa che è l'unico capace di accogliere gli eccessi di queste tre paroI I/;\ ': 1 r le (immensa, apparve, nudità). E anche l'iterazione di immensa apre una dimensione temporale. Difficilmente un verso di chiusura, non solo, come accade spesso in poesia, si ribalta in apertura, ma trattiene come questo in un'immobilità eterna di attimo quel movimento che è proprio del principio di piacere. E eco che in questa direzione fa un passo avanti decisivo Versilia: che chiamerei la «grammatica del piacere» o I' «Inno» al piacere. Non tanto per l'oggetto del dialogo (anzi del monologo: e già questo sbagliare un monologo per un dialogo la dice lunga sugli effetti del piacere), quanto per ragioni essenziali al linguaggio e, ancora, alla struttura temporale. Direi che la caratteristica centrale di questa poesia è l'inversione temporale (che rientra anch'essa nella più vasta strategia dannunziana di dominio del presente). Vale a dire: qui è come se il presente non dipendesse da come è stato il passato ma da come sarà il futuro. E in un dialogo si direbbe: invece che «faccio questo perché tu hai fatto quello», «faccio questo perché tu farai quello». È il senso che trovo in: Rido, se tu m'abbranchi. Ed è anche il motivo del grande piacere che scorre nel testo dall'inizio: Erompo dalla corteccia/ fragile io ninfa boschereccia/ Versilia, perché tu mi tocchi, sino alla fine. Questo splendido distico di chiusura (Imito qualunque richiamo/ con un filo d'erba alla bocca) che, oltre ai luminosi contenuti di onnipotente promessa, mettendo come un bimbo in bocca qualunque sacca di futuro, dice l'ardore di un'assoluta contemporaneità. II piacere ci introduce a un altro luogo capitale della geografia dannunziana: il tono di una certezza che chiamerei fede. Nel piacere di Versilia c'è una sicurezza che va oltre i massimi storici (i quali sarebbero; la certezza che il proprio pensiero non sarà smentito, e che il percorso dell'interlocutore può essere esattamente previsto). Va oltre e affonda in una sicurezza del percepire che mi sembra il vero fondamento della questione: Intento io lo guatai;I e la morte di quella che mi piacque/ seppi negli occhi suoi distrambi e vai. C'è come un livello forte nella percezione dannunziana- un saper liberare il campo al momento giusto da ogni costruzione - come un livello erotico di «corrispondenze» - quella decisione che si ha nel rapporto tra forme materiali, quindi una precisione di forma fisica nei sensi: una forza che poi diventa anche un tono di certezza nella traducibilità del sentire. E arriviamo all'ultimo punto per tentare una topica esterna, o «letteraria» se così si può dire. C'è un'osservazione ricorrente su D'Annunzio intorno alla sincronia-acronia delle sue scelte. E Anceschi ci ha regalato molta luce quando afferma che «D'Annunzio vive la tradizione come un aggregarsi di poeti tutti contemporanei». Prima si diceva del volgere al presente. Insieme alla sicura energia del percepire, c'è in D' Annunzio il presente non inteso come punto di fuga verso passati o futuri (anche se a volte le apparenze mitologiche possono ingannare) ma come convergenza di ogni tempo e luogo. Si potrebbe dire semplicemente: la memoria e la speranza sono atti del presente. Venendo a mancare ogni visione storica, c'è una poetica «orizzontale»: il presente si fa carico di quelle estraneità incomprensibili che venivano giustificate con il passare del tempo. La percezione e l'esperienza diventano il massimo dono che proietta ogni uomo alle altezze del divino: la supremazia dell'antico è finita, la supremazia del tempo come assente. Una visione paritaria unisce i tre tempi tradizionali: il tempo è una voragine presente. Su questa peculiarità potrebbe appoggiare secondo me un'idea di avanguardia (se è ancora possibile usare questa parola senza le ridicole pretese competitive che l'hanno nutrita). Allora D'Annunzio poeta d'~vanguardia: per un"-«sensualità» che è la mancanza di rispetto verso la distinzione di passato e presente. La stessa sensualità, la stessa sincronia, la stessa avanguardia che ci ha lasciato il sommo poeta Dante.
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