Alfabeta - anno VIII - n. 80 - gennaio 1986

Sciardelli nel 1979 (con un saggio di Pietro Gibellini e tre incisioni di Luciano Cottini), e venne riprodotto sia nell'introduzione di Luciano Anceschi al primo volume dei Meridiani Mondadori (Milano, 1982), sia in Logos e Mythos, studi su Gabriele D'Annunzio, di Gibellini (Firenze, Olschki, 1985, volume che riporta integralmente il saggio pubblicato nell'edizione, oggi introvabile, di Sciardelli). Intricata, bizzarra, esoterica al pari di un oscuro nonsense, questa composizione, datata_31 ottobre 1935, fu rinvenuta da Gibellini sui fogli di guardia di un libro di Julien de la Gravière, Voyage de la corvette La Bayonnaise dans /es mers de la Chine. Analizzando il testo e il suo gemello «L'uomo porta nel sacco del suo ventre», Gibellini ha parlato di un «portrait del nulla», di una «imago mortis fatta del suono segreto della decomposizione», di una «sorda litania, un triturar d'ossi», nei quali si risolve il terrore della «turpe vecchiezza». Similmente, Anceschi - che giudicò questa lirica come una delle più alte, vere e segrete dello scrittore-, ha accennato ad «un barocco finesecolare talora propriamente funerario», composto da «un intricato viluppo di immagini analogiche, tese e contorte, che rappresentano il nulla come degradazione e putrefazione e spegnimento e miseria fatale». Fin qui i due esemplari commenti, ai quali vorrei aggiungere soltanto poche chiose. Ma torno ancora ad Anceschi e ad una sua acuta notazione: «I sottili ed eleganti levrieri di D'Annunzio si dissolvono in un turbatissimo nulla». Ciò su cui desidero soffermarmi è appunto questo scarto, questo passaggio della medesima immagine dall'una all'altra valenza, dal fasto sublime del cane che appare nel Fuoco, alle atmosfere tombali e sotterranee dei cani del nulla. Naturalmente rion mi propongo uno spoglio sistematico dell'opera dannunziana, bensì l'individuazione di alcuni passi che mi sembrano anticipare le tonalità e le metafore dei versi esaminati. Né, d'altra parte, intendo ricercare rapporti e somiglianze con altri scrittori. Vorrei solo citare una lettera di Rilke del 1922: «Gli stemmi mi dicono moltissimo, • se ne potrebbe dedurre o indovinare molto più che non si sia mai tentato. Io sigillo col nostro levriere». Certo, D'Annunzio non arrivò a tanto, non fece di due l_evrierirampanti l'emblema di una propria fittizia casata, né volle questo emblema scolpito sulla sua lapide. Eppure, non è possibile ignorare la frequenza con cui questi animali tornano nelle sue pagine (basterà menzionare, almeno di sfuggita, «Invito alla caccia», nella Chimera, «La muta», in Alcyone, il racconto della cagna partoriente, nella «Consolazione della morte»). D'altronde, la figura del cane non è l'unica ad apparire nel manoscritto ritrovato da Gibellini. Altre ne compaiono, non meno rilevanti e strettamente connesse alla prima: la sepoltura (un'eco degli ipogei alcyonii), le ossa, il flauto (simbolo del canto che nasce dalla morte), infine, il sentimento panico del cosmo. Nella poesia (forse l'ultima composta dall'autore) convergono infatti numerosi nuclei tematici che cercherò di illustrare attraverso tre precedenti opere. E andando é(ritroso da Licenza (1916) alla Leda senza cigno (1913) fino al Secondo amante di Lucrezia Buti (1907), tenterò di individuare una specie di alone figurativo, un cerchio di immagini che si dispongono intorno ad un unico centro espressivo. In Licenza si trovano vari passi dedicati ai cani. Gli animali dalla «natura magica» sono descritti sia come piumosi (associati cioè ai volatili). sia come spumosi. ondosi (paragonati ai flutti). tanto irrequieti e irruenti da trascinare, anzi, da stramazzare - il verbo è usato al transitivo - nel fango il padrone che li tiene al guinzaglio. Ma almeno due brani andranno citati. Il primo è intitolato «I cani condannati»: «Il giorno innanzi, parlando della guerra, s'era a noi presentata l'eventualità di sopprimere una parte del canile, la necessità orribi- • le di uccidere i nostri amici e di seppellirli in una fossa. Tutto quel vigore scolpito e cesellato_era ormai sotto la condanna. I morituri erano già scelti». Qui è evidente il rapporto tra la figura del cane e quella della morte. Diverso il caso di un secondo testo, violento e macabro, intitolato «Il boccone e il rantolo»: «Mi sovviene d'uno dei più lugubri orrori sorto dalla mia carne, mentre un giorno coi miei compagni, presso le chiuse di Sagrado, mangiavo allo scoperto, in un luogo battuto dal fuoco austriaco. Ciascuno di noi poteva essere sorpreso dalla morte col boccone in bocca, con la vivanda tra le mascelle mal masticata. Imagine d'animalità orrenda. Il pasto interrotto dal rantolo. Il sussulto del tristo sacco ripieno .. Avevo già veduto un soldato•riverso nella mota gialla della trincea,. col rancio nel gozzo, come resto della gamella sparso nel sangue fumante. Un.filaccio di lesso gli esciva dall'angolo delle labbra livide. La morte gli pigliava a un tempo il corpo e il cibo. Quegli che stava ingoiando, ecco, era ingoiato». Quest'ultima frase ricorda in qualche modo un verso della poesia da cui siamo partiti: «Radon gli ossi i lor ossi», dove il pronome possessivo sembra suggerire che i cani stiano rodendo se stessi, le proprie stesse ossa, mangiando e venendo mangiati, come accade al neoplatonico Ouroboros, il serpente divoratore di se medesimo, simbolo del tempo che trascorre. P assando a Leda senza cigno, si nota che il cane è di nuovo paragonat<J sia al flutto e alla schiuma, sia ad un uccello. Men- .zionerò due brani, il primo (basato sull'immagine di una bestia agonizL'infanticida .. zante) introduce il tema dell'osso: «La musica diffonde qualcosa di aereo nel corpo delle donne che sentono l'innocenza della melodia, come quell'aria ch'empie le ossa vane nelle ali degli uccelli volanti. Non so perché, una volta, in concerto, vedendo l'amica mia curvata sotto il suo male e sussultante alla lamentazione sovrana.d'un famoso violino, ripensai quelle bolle d'aria che il cacciatore vede salire a traverso il sangue caldo della ferita nell'ala dove l'òmero fu rotto dal piombo». Ritroviamo qui il concetto di animalità avvicinato all'idea della morte. Il secondo testo riguarda invece il cane favorito di Leda. che appare portando qualcosa tra i denti: «Per forzarlo a lentare, gli misi le dita nella commessura delle mascelle. Così gli tolsi la presa; era un pettine di tartaruga bionda, un piccolo pettine caduto dai capelli di Leda! Lo sentivo umidiccio di bava. Lo sentivo vivere d'una vita segreta nella mia palma soppesandolo. Non pesava più d'una stella marina». Si ricordi, per inciso, l'importanza di queste righe nell'economia della narrazione: il protagonista trova infatti nel pettine d'osso smarrito da Leda un pretesto plausibile per rivedere l'oggetto del suo amore. L'ultimo passo da analizzare, tratto dal Secondo amante di Lucrezia Buti, è intitolato «L'òmero del pellicano». Si tratta di un testo straordinario che meriterebbe d'essere riportato integralmente. Parla della passione museografica di un giovane collegiale dotato di un «senso singolarissimo delle forme animali». Affascinato da questa «vita immobile», il ragazzo ruba un osso, lasciando sul cristallo della vetrina una scritta in latino: Callidus effracta ossiculum fur ab• stulit arca. La sua reliquia, un grande òmero di pellicano, gli appare «più lieve che vetro soffiato, più lieve che alluminio laminato, forse più delle piume che gli mancavano!». È una materia misteriosa e magica, simile al metallo temprato: «Una moltitudine di aghi ossei la traversavano in tu lii i sensi. a guisa di contrafforti esigui ivi connessi e commessi dalla sapienza dell'artefice». Si arriva così ad una chiusa di delirante veemenza drammatica. una vera e propria invocazione rituale: «Quest'òmero polito e senza peso, tenue come un pezzo d'esca da focile e resistente come una modanatura di colubrina, perché tanto m'incita? e a che? Sembra un ammonimento, sembra un comandamento, sembra un esempio, un precetto, un presagio, un indizio: di che?[ ... ] Io, se fossi veramente nella mia terra l'erede legittimo del Sulmontino credulo di tutte le metamorfosi, dovrei da prima credere che il mio latinetto su quel vetro appannato d'alito non s'è svanito né s'è perso. Ossiculum abstulit. come un buon cucciolo? Osseam molem tantam? Il latinetto, fugace o tenace, vivido o fievole, non importa. Ma, se veramente m'aiutasse il metro del precettor peligno. dovrei conficcarmi quest'òmero nel luogo del mio, inserirmelo, innestarmelo, aggiustarmelo nel punto giusto onde potrebbe ancora pendere la faretra puerile decus; e aspettare i prodigi dell'innesto, essergli pari nell'entusiasmo dell'aspettazione. E, nesto per nesto. (... ] non si potrebbe contaminare il latino d'Ovidio con quello del Salmista? Similis factus sum pellicano, sono fatto simile al pellicano di solitudine». «Superstizione bestiaria», «bestie mummie», «uccello emblematico», «osso esemplare», e il latinetto, lingua morta, liturgica ... La ricchezza di queste pagine meriterebbe un commento attento e dettagliato. Ma con queste poche note si è voluto soltanto indicare un possibile percorso, nella direzione di un D'Annunzio più che notturno. ctònio, tellurico, o, per meglio dire, ontologico. L'immagine lussuosa del levriero mondano viene cioè introiettata in quella di un Anubi egizio, enigmatico, buio - un oracolo, custode e insieme simbolo della soglia tra l'essere e il non essere, tra il tutto e il nulla, «se Pan è il tutto e/. se la morte è il tutto». Una topica dannunziana Cesare Viviani P er prima cosa, l'opera poetica di D'Annunzio non permette la questione del «referente». Anzi vorrei dire che se D'Annunzio fosse stato veramente letto (invece che facilmente usato da molta critica) non ci sarebbe tanto inutile esercizio. Infatti, individuando il pericolo che il linguaggio poetico possa fare a meno di tutto e chiudersi in sé, sterile e piatto gioco verbale, e cessi di essere poesia, si dice che gli è necessario l'aggancio alla realtà, la presenza del referente come materialità irriducibile. E fin qui d'accord_o: che la poesia sia tale proprio perché è una scrittura irriducibile alle intenzioni dello scrittore, scrittura altra, e che questa irriducibilità sia nell'apertura al reale - è cosa troppo fatale per' dubitarne. Si fa invece un grave errore quando per «realtà» o «referente» ~ si intendano i fatti e i dati dell'espe- t:: I:: rienza comune e comunicabile. -~ quotidiana e oggettivabile. La real- l::l.. tà, in quanto chiara e leggibile, è la ~ preda più facile per le manipolazio- -. ni dello scrittore e va subito a chiu- -~ dere ogni apertura del linguaggio. ~ Il referente o il reale di cui la poesia ~ ha necessità non vanno cercati nei ~ dati della realtà esterna (storia e s:: materiali) né in quelli intimi e na- ~ scosti (ma altrettanto leggibili) del- -e ~ la psiche: il vero referente, di cui tanto si è discusso per la poesia, è la o i::: realtà in quanto illeggibile. La vera 11, alterità non è nemmeno il graduale ..§ e dialettico avvicinamento al silen- l::l.. §, zio o al vuoto di cui parlano alcuni .,,

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