gere oggi? se non l'impatto di una vera alluvione; un'eccedenza di incontinente oralità; la frivola inappagabilità della mordace Versilia o, peggio, il trionfo di Undulna, immota eppure intenta al trapasso, scagliata nella corsa iperionia eppure dominata dal presentimento dell'albàsia dei giorni alcionii: la bonaccia che, secondo il mito, accompagna, al giungere dell'inverno, i giorni in cui le alcioni depongono le uova? L'alcione dunque, forse. l'unico mito non laico di D'Annunzio, nasce dal timor panico dell'albàsia che, al di là di ogni coazione manieristica e subegoica, è la più densa metafora immaginale che possa essere ereditata oggi da un poeta che voglia trasformare in stile quello che Anceschi chiama «il bisogno di un risarcimento continuo», «la radicale penuria», «il sentimento ritornante del vuoto». E di nuovo il filo che non tiene, mi chiedo, anche qui dove i flussi desideranti sembrano sfilacciare ogni possibile filo è nella beffarda tautologia della lettera? Nella prima lettera di questo estivo sillabario? Il titolo: l'uccello dell'alcione che matura nell'uovo della sua antifrasi: l'albàsia? 4 Dunque l'incubo meridiano della modernità tecno- • logica, solo nell'eccesso di luce che cancella i contorni del mondo quasi fosse un crepuscolo, si placherebbe e metterebbe a tacere la ricorrente accidia di coloro che sono dominati da Saturno e dalla sua unica vera competenza: mediare in eterno la fine del mondo. Il culto dell'immagine; la assoluta, elettrizzata prevalenza dello stile; la revisione laica della visione e la sua riduzione a simulacro, a effigie, a apparizione sostanziano, sembra, l'orrore odierno verso ogni residuo monoteismo e, spero, non verso ogni forma di pensiero che non si voglia ridurre a commento sofisticato e brillante, evasivo e mondanamente politeistico. Nel nuovo alessandrinismo che ci assedia e ci sfibra e che cronicizza in modi e maniere iperletterarie la perdita di stile che negli Anni Settanta aveva afflitto i migliori (da Montale a Pasolini) come i più umili amanuensi del vasto rumore di fondo che si leva dalle maree sociali, l'ironia e la duplicità fra coscienza e conoscenza ci avevano salvato dai rischi della statuaria neoclassica che in Italia si nasconde dietro ogni revival greco e mitologico. Non c'è miglior esteta del corruttore della bellezza e nessuno prova più autentico orrore per la gabbia dell'ideologia se non chi ne è imprigionato: D'Annunzio docet e, dopo di lui, soltanto Pasolini. Tutto infatti è innumerevole in D'Annunzio, ma non la stirpe che, fra tanti deliri e deliqui, è l'unica fonte di unità e identità. «La stirpe - scrive nel Comento meditato a un discorso improvviso - non è per me una figura informe e innumerevole. La mia stirpe ha una faccia che io riconosco, una voce che io distinguo, un gesto che io interpreto». Tutto dunque è simulacro, tutto, anche lo stile che esorcizza l'horror ~ vacui, tranne il riconoscibile ac- -~ cento della Terra che àncora a me1:l.. no fungibili realtà agricolo-regio- ~ nali la labilità degli altri tre ele- ........menti. Quando l'uovo rappresen- -~ tava una concavità: il Cielo e sotto ~ il resto, la patola Caos, insegna <Il Clo Kerényi, non voleva dire caos, ma ~ solo spazio cavo, spalancato. E le i.:: uova deposte nella terra non gene- ~ rano alcioni. Quando la stirpe è <Il .e una matrice terrestre o si ha il co- t raggio di fissarsi, nel senso psicoaB nalitico del termine, a un comples- ~ so pre-italico (e anche da questo ] punto di vista Pasolini continua ~ D'Annunzio correggendolo) op- ~ pure il salto alla romanità e lo stucchevole stucco neoclassico sono inevitabili. La stirpe pre-italica consente, se non l'ironia, certo l'umore lieto e sanguigno del lazzo, del frizzo, del fescennino. Il calco in gesso dell'alma mater di Roma figlia non consente neppure l'ironia. Ed infatti risiede proprio in questo zoccolo duro, probabilmente, l'impossibilità dannunziana di trasformare in ironia elementi che pure vi sarebbero stati proclivi; penso all'uso della citazione, alla dimestichezza con le maschere e la dissimulazione, alla ripetizione (il leitmotiv wa- ·---. gneriano che in Thomas Mann è appunto ironia). Penso insomma al suo manierismo e al suo non volersi presentare come poeta della verità, ma della pura possibilità. Chi aderisce al paradosso di questo D'annunzio novecentesco, puro gioco senza giocosità, non potrà Un esperimento di risurrezione non avvertire presto il disagio della sua assoluta mancanza di ironia e la friabilità argillosa della sua «positività». Chi invece spera, come Nietzsche sperava alle volte, che l'ironia «moderna», di per sé tipico stile delle epoche tarde e senescenti, riesca ad aprirsi la strada verso una ·-~.---~-::. __ ,:__ ···-- - . Supplizio infernale ~- - . - . ··.---.> I. forma elevata e riflessa di ingenuità, verso una nuova consapevolezza socratica, allora di D'Annunzio e della sua mostruosa stbilità non potrà far tesoro. Soprattutto avendo alle spalle il più poderoso sviluppo nel campo delle scienze umane e sociali che si ricordi e di fronte il virulento attacco della tecnologia senza cuore né ragione, la poesia, al di là del manierismo e dell'ermeneutica, potrebbe di nuovo ritrovare l'isterica presunzione dell'utopia e della verità. Senza montarsi la testa: ovvero senza montare la testa sul collo di un colosso dai piedi di argilla. Il filo che non tiene nell'opera può diventare il primo filo con cui ricominciare a tessere il mondo. Dico no a D'Annunzio Cesare Greppi M entre è facile e attraente frequentare l'idea della poesia dannunziana come poesia «comunque importante», mi sembra che una «insufficienza» renda molto più problematica la frequentazione reale del testo dannunziano, per esempio dell'Alcyone. Questa insufficienza si può cogliere più agevolmente, credo, nel progetto: non tanto nelle idee generali, quanto in quel modo che hanno i testi di far presente il progetto in sé, come se fossero ancora·' avvolti nell'imminenza della poesia e appena sorretti dal gesto della scrittura. D'Annunzio istituisce questo momento, e lo caratterizza quando ne parla, come «eccitazione», una specie di invasamento molto moderno. È una condizione che dovrebbe rispondere, come ad un'offerta, al mondo, all'accadere delle cose, ai pensieri, ma che in realtà costringe il poeta ad incontrare non più che un fantasma impoverito: il «poetico», questa particolare uniforme per la quale non c'è rischio che il pubblico si confonda. È una condizione che si potrebbe descrivere a lungo, ma della quale si può dire almeno che non soffre certamente l'eccesso di vicinanza. Ma per questo appunto nulla ha, letteralmente, più gioco. Essa permette un solo esito, e lo esige (é una condizione bloccata): permette, ed esige, soltanto una prestazione. Ora, il gesto del record è mirabile, ma non è che la copia di un mirabile precedente, sta nell'ordine naturale delle attese; malgrado si usi dire il contrario, non ha proprio nulla dell'impensato. Alcuni di questi termini, e in particolare l'idea che entrando in poesia si entri in gara, hanno fatto pensare a una parentela fra D' Annunzio e la stagione del grande manierismo cinque-secentesco. Mi pare che non sia una parentela decisiva. Anche quei poeti pensano di potersi servirsi delle molte invenzioni che essi hanno a disposizione, e anche in maniera indifferenziata, se pure tendente a una sorta di infallibilità, ma nei silenzi, quieti o folgorati, della mente. Quando Gòngora, per esempio, è costretto a difendere la propria poesia, dice: Io vi propongo una corteccia. Al mondo, anzi, alla verità del mondo, ordinario e naturale, opaco e inaccessibile, io fabbrico in aggiunta una corteccia. Ve ne separo. Poiché so dal proverbio che il levante si cerca a ponente, questo mio paradossale strumento, di una ingenuità, se volete, che molti ritengono impossibile, vi darà accesso, per esempio, a ciò che fanno, a come gridano, dalla terra all'aria alla terra, gli uccelli predatori e gli uccelli predati lungo la riva di un mare. E qui, nella trama della corteccia, insieme, compaio (con meraviglia) anch'io, il peregrino. Nella stagione manierista cui mi riferisco, il poeta è ben lontano dal pensare che la sua parola «abbellisca», equivochi maldestramente sulla propria presenza: essa, invece, nel ritardo, è una parola che impara. La parola dell'eccitazione ha già deciso in principio di tutto: per questo forse non ci dà nessuno dei «freschi pensieri» promessi. Per questo ancora, non mi sembra che essa sia in grado di rappresentare l'altra metà del cerchio rispetto, per esempio, alla poesia dell'aridità e della desolazione. L'alternativa alla vita vissuta al cinque per cento può non essere - non è detto che sia - la «gioia di vivere». I cani del nulla Valerio Magrelli Q uesta relazione si limiterà al commento di un'unica poesia di D'Annunzio, attraverso il richiamo ad altre sue opere. Presentato sul Corriere della Sera del 15 novembre 1979, il testo di «Qui giacciono i miei cani» apparve in una plaquette a tiratura limitata edita a Milano da Franco Sul luogo del delitto (particolare)
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