anima e il proprio operato che nel rifiuto di qualunque storicizzazione di un fenomeno che, a cavallo tra una politica nazionalistica degenerata nella dittatura e la stanchezza del «gran giorno» alcyonio a cui erano seguiti quella «Esplorazione d'ombra» (privilegiata da Cecchi) e il Libro segreto (che fu appannaggio della critica derobertisiana), sembrava non dare scampo in questo «cupio dissolvi»che la tragedia dei tempi accostava più ali' Apocalisse, rappresentata per l'Occidente dall'imminenza della guerra e dalla realtà concentrazionaria dell'Olocausto. Era difficile leggere D' Annunzio, circonvoluto dal suo ultimo verbiage senile, eppure la mia generazione, lembo estremo della «generazione bruciata» me anche in rivolta contro tutto ciò che avesse odore di parola d'ordine, poteva leggere, e lesse, D'Annunzio, al di là del «magnifico esempio», e non solo laddove «La sillaba si spegne, si cancella, si perde nella fluida notte». C'era l_anotte di Campana a funzionare da antidoto, in cui la sillaba par rinascere altra in un discorso altro. Per noi la sillaba nasceva, al di là dello stesso puro sillabato ungarettiano, uscendo dalla notte come dal «rumore senza fondo» della lingua nella creaturalità stessa di un discorso incipiente. E mentre, per D'Annunzio, «Il pensiero sembra correre sopra un ponte che dietro lui precipiti», un altro pensiero, quello per esempio di Heidegger, proponeva ponti di fortuna a una riflessione che, mentre l'esistenzialismo andava scorgendo l'hic et nunc in cui consistere attraverso il pensiero negativo (vedi qui anche Montale), vedeva aprirsi nel dubitoso «verso dove» heideggeriano il diramarsi di tracce tra le rovine, e il proporsi di «sentieri interrotti» non tanto in una forét de symboles quanto nel bosco tragico dell'essere, come nel «bosco sacro» eliotiano. Sono proprio i «sentieri interrotti» che rimandando smozzicata l'eco originaria hanno finito per privilegiare il «da dove» rispetto a «verso dove». D'altronde il senso che avvolge, ma senza penetrarla, la parola dannunziana dandole quel che di corrusco e di morbido, doveva, almeno inizialmente, sbrogliarsi a poco a poco nel senso di physis che il linguaggio della nuova poesia avvertiva come la carne nascente delle figure sì del sacrificio e dell'attesa, ma anche di un'adolescente, quasi cosmica e insopprimibile allegria dell'essere sprofondato all'origine dei propri genetici gesti vitali. E qui, da Montale alla Terza generazione, è piuttosto il D' Annunzio esploratore del gran giorno panico (in Montale quel qualcosa che si sgretola nella calura è proprio il mito della panicità) ad aver avuto l'importanza sotterranea che ha avuto. Il che non implicava nessuna soggezione di poetica, bensì proprio il valore plastico - ma da rovesciare nel suo senso, in direzione di una plasticità interiore fino a captare la povertà originaria dell'essere - che la luce propone nello stabilirsi del valore figurale come origine e destino del segno linguistico nello statuirsi simbolico del discorso, fuori da qualunque simbolismo finiseculare che implichi, come s'è detto, quale condizione preliminare, la simbolicità dello stesso reale, quando sappiamo che la realtà è solo la realtà, ma che solo nel linguaggio può essere detta tale. Note (1) Edito per !'«Istituto nazionale per la edizione di tutte le opere di Gabriele D'Annunzio» nelle Officine veronesi di A. Mondadori, 1931, p. 168. (2) La Leda senza cigno, in Tutte le Opere, Prose di romanzi, II, Milano, Mondadori, p. 1216. Il filo che non tiene e il colosso d'argilla Biancamaria Frabotta ~ 1 Un tappeto persiano è riconoscibile perché la perfe- • zione della trama è compromessa, ma anche esaltata da un impercettibile errore compiuto a bella posta dal suo abilissimo artefice. E questo perché, dice il Corano, nulla è perfetto tranne Allah. Tutto d'un fiato ho riletto l'Alcyone alla ricerca della invisibile imperfezione, la lacuna da riempire, il nodo da sciogliere o comunque l'angolo di maggior fragilità del tessuto dove, complice la stessa volontà dell'autore, si annida la protesta del tarlo contro ogni pretesa di durata. A più di ottanta anni dalla sua comparsa non è ancora possibile trovare il filo che non tiene, quello che consente, ottanta anni dopo, di aggrapparvisi, di esistere e non solo come consapevoli seguaci o magari ribelli e infidi guastatori? Il valore simbolico del Livre, il grande libro che ossessionò gli ultimi anni della quieta vita di Mallarmé è, come è noto, quello di non essere mai stato scritto. L'autore dell'Alcyone, nel falso mistero della Capponcina, inseguito dai creditori, dalla prole legittima e illegittima, dalla sin troppo nobile protezione di una sorella in ispirito già in procinto di dover perdonare gli squisiti e funerei effetti speciali del Fuoco; lusingato dalle sirene del mondo della politica e dello spettacolo, attirato dai facili guadagni del romanzo mercenario; insomma con il diavolo del bisogno in corpo completò l'opera. Ovvero la mondanizzò. E così, tutti coloro che vennero dopo ebbe il torto di lasciarli ai margini di una Parola talmente piena da non lasciar spazio a nessuno, se non fuori o contro di essa. La filologia più agguerrita ha da tempo dimostrato che la struttura delle Laudi, anche se cangiante nel breve arco di anni in cui ebbe compimento, come progetto e ossessione architettonica ben presto impara a coesistere alla stesura delle singole liriche. Cosa si scorge dietro le righe delle cronologie dannunziane, se non la furente nostalgia della mania di Tolomeo: quella che Savinio (e per una volta tanto non per gioco) battezzò il concetto verticale del mondo? Quale altro poeta sarebbe stato tanto fisiologicamente sicuro della sua seconda natura da premettere all'opera della sua presumibile maturità l'annunzio del Meriggio Universale? E il prodigio invocato avvenne e non fu solo la veloce utilizzazione della ideologia nicciana, e fu l'ultima volta che un poeta esibì una tale disinvoltura che noi rimpiangiamo: la divinità della vita che non ha più nome né sorte tra gli uomini? 2 Ma forse è più seducente ribaltare il segno di ciò che e ho appena finito di scrivere e cercare nella dissoluzione del progetto totalizzante la cifra che invece di escluderci tutti dall'uso poetico della Parola piena, tutti ci inscrive nella sua onnivora fenomenologia stilistica. Intendo riferirmi a quel «campionario inesauribile di nitidi quanto fungibili specimina» stilistici che D'Annunzio ofire alla tradizione del Novecento. E basta poi spostarci dal piano del più puntiglioso riscontro sintomatico dei prestiti allo sfuggente e aereo gioço degli specchi intessuto da Anceschi fra poesia e poetica per vedere allargarsi il panorama dei tributari del fiume dannunziano f l I ; I J' •,,I, - . . , .. ::---,:- -=~~':: -, .i. - - - ---.-~---~ nei confronti di un qualsiasi sistema di idee, anche molto meno sfuggente di quello elaborato da simile consanguineus in arte. In realtà «L'Annunzio», il testo programmatico che dopo la dedica alle Pleiadi e ai Fati apre il libro delle Laudi, fu veramente il primo testo meridiano a essere scritto e il secondo, sei giorni dopo, fu «La sera fiesolana». Una settimana fu sufficiente 4.. concepire in una fulminea anche se elefantiaca pancronia: meriggio e crepuscolo, stile e struttura, metrica e musica, filosofia e linguaggio, inno e narrazione, Dioniso e Apollo. Scocca all'unisono con la riaffermazione netta del Nome dell'autore l'annunzio: Pan non è morto. Una sola consonante, la prima, si erge a segnare l'irriducibile scarto fra soggetto e oggetto. L'annunzio che ancora oggi può scuotere i nostri nervi provati riguarda dunque la priorità assoluta del Nome dell'autore, quella che Mengaldo sospinge verso il punto di non ritorno della poesia romantica: la macroanalogia del proprio io vitale? Oppure è la forza supina del Meriggio anche là dove l'occhio non avrebbe mai pensato di sconfinare. Fuori del montaliano connubio fra stile e tradizione, per esempio, e dentro il recinto dello sperimentalismo neoavanguardistico che usciva dal tonalismo mediante l'uso mimetico dei linguaggi speciali e contemporaneamente l'esasperazione della scorciatoia analogica. Certo ogni vero o presunto innovatore non si è trattenuto dal conficcare il suo spillone nel cuore del simulacro dannunziano: Montale, torcendo il collo all'eloquenza, e Sanguineti con un esorcismo preventivamente autorizzato dalla pertinente Ecclesia. Ma questo è un caso in cui l'attendibilità di certe dichiarazioni è bene anche andarla a verificare negli spogli pazienti dei lettori di professione che si sobbarcano al meritorio compito di dimostrare i salti qualitativi, sia sul piano delle idee che del linguaggio, nelle ricorrenze quantitative dei sintagmi e dei lessemi piuttosto che sulle buone intenzioni dei poeti. Ed ecco allora che, invece che tutti fuori D'Annunzio, ci siamo improvvisamente tutti dentro, anche se si è preteso di portare la prosa alla poesia e, soprattutto, se si è ribadita una poetica della poesia come azione. Il gioco del rovescio a questo punto comincia a segnar punti a favore. Il concetto verticale del mondo che patrocina la perfetta scansione strutturale della stagione alcionia si radicalizza al punto da metamorforsarsi (e questa è certo la più riuscita delle metamorfosi dannunziane) in una propagazione puramente orizzontale, in un diario lirico sostenuto da una psicosi stilistica senza pari nella storia della nostra poesia. A questo punto, quando Wagner si dissipa in Debussy che ripete se stesso alla ricerca di una perduta identità originaria, il politeismo che prosperò all'ombra dell'ormai storico decentramento dell'io di una generazione poetica che una prevedibile inedia fine secolo chiuse nei recinti della Post Avanguardia, ebbe bisogno di un sostegno archetipico. «Quando l'antica poesia ebbe rinvenuto gli elementi del divino nella natura umana ella fu tentata di andar oltre; cioè di sottoporre gli dei alla morte. Allora fu che l'ultimo nato delle stirpi divine venne ad appagare l'aspettazione di un nuovo dio paziente e salvatore. Ma oggi l'uomo dona a sé medesimo una nuova specie d'immortalità, volendo vivere in modo da poter desiderare di rivivere la stessa vita innumerabilmente». Così D'Annunzio nel 1907 scrisse parole che sarebbero tornate utili ai teorizzatori delle trasmigrazioni semantiche di un io in continuo mutamento, un Narciso (per parafrasare il testo di un giovane, credo, autore di quel putsch critico rappresentato dal numero 89 di Nuova Corrente), un Narciso, dicevo, che aspira a morire senza morire mai e che, per nascondersi, si mostra all'infinito, enfatizzando la sua funzione vaticinatrice. 3 Del resto già dai primi Anni Settanta l'analisi di e un microtesto alcionico, istanza dell'ailleurs di impronta traumatica, ala sospesa «sino agli spazi infiniti e vuoti dell'Impensato» diventava il tramite dei messaggi formali di Stefano Agosti e il sema della liquidità, alimentato dalla riabilitazione di una simbolicità più che europea di D'Annunzio, fruttificava, con sorprendente sincronia, nella giovane critica poststrutturalista e nella tendenza poetica che fece tesoro delle rivelazioni piuttosto che delle astrazioni metodologiche dell'antropologia strutturale. Non è certo la prima volta che l'Ossimoro simbolista, generosa matrice per tutto il Novecento di lirica e antilirica, tradizione e avanguardia, offre le sue carni in pasto ai cannibali dell'Eterno Ritorno. Vent'anni fa, in Francia, Julia Kristeva impugnava il grimaldello di Mallarmé per disselciare, con discutibile trasversalità, il crepato asfalto dell'Istituzione linguistica, ergo, sociale. In Italia, vent'anni dopo, la macchina desiderante dell'Alcyone (dio, come sembrano lontani quei tempi che al politeismo schizofrenico si sacrifica- ::::: va il Moloch della centralità para- $: noica!) deve forse officiare l'oppo- ~ ~ sto rito? "@i Guardiamola da vicino la sintas- ~ si (che oggi ormai di questo si trat- ~ ta) dell'Alcyone: nella fuga in ........ avanti rappresentata dalla asimme- -~ trica simmetria della variatio, nel- ~ la_ridda delle ripetizioni e delle ~ anafore, all'interno di ogni singola ~ poesia, da una poesia all'altra, da un mese all'altro, e al di là dell'Al- -l::! <u cyone, dalla poesia al romanzo, dal -e ~ romanzo alla tragedia e poi di nuovo alla poesia, slittando oltre ogni -8 ragionevole sparticque fra i generi ~ e i discorsi, quasi dovessimo affer- ] rare per la coda l'imprendibile le- ~ §- predella caccia lacaniana, cosa leg- ..,
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