sia democratica di valori e norme nel «mondo della vita». È una questione che Habermas si pone reiteratamente, ma che anche reiteratamente, senza dirci perché, rimanda a futuri approfondimenti. Vi è qualcosa, credo, che non convince nella teoria della normatività habermasiana. Lasciando da parte il sofisticato apparato terminologico di cui fa uso per esporre la sua teoria, in fin dei conti i casi sono soltanto due: o l'agire comunicativo ingenera consenso tramite una interpretazione contrattata, negoziata di valori o norme già esistenti, oppure il consenso nasce dalla partecipazione degli agenti sociali al processo che elabora e sancisce nuovi valori e norme in cui gli stessi agenti sociali devono poi riconoscersi. Ciò nonostante, ambedue i modi di produrre consenso presuppongono un agire comunicativo che si esplica attraverso l'analisi del linguaggio, tanto per contrattare, negoziare il senso da dare ai vecchi valori e norme quanto per creare i nuovi. In entrambi i casi, dunque, si tratta di una impresa che consiste, per dirlo banalmente, nel mettersi d'accordo sulle cose tramite un accordo sulle parole. Quando affronta il tema del linguaggio, Habermas ricorre alla semiotica di ispirazione behavioristaneopositivistica di Morris con la sua nota classificazione del mondo segnico, ripresa poi da Carnap, in tre campi d'indagine: semantica (rapporto segno-referente), sintassi (rapporto segno-segno) e pragmatica (rapporto segno-interprete). E ha in parte ragione Habermas quando in Theorie des kommunikativen Handelns richiama l'attenzione sul fatto che gli studiosi della «analisi logica del linguaggio» e i linguisti in genere si sono occupati troppo della semantica e della sintassi e poco della pragmatica; per dirla con Chomsky, troppo della competence e poco della performance. Diciamo in parte perché è evidente, e Habermas non lo ignora, che i rappresentanti della filosofia analitica in Gran Bretagna (si pensi ad Austin e Ryle) e tutti quelli che, negli Stati Uniti, hanno seguito la scia del pragmatismo o del funzionalismo, si sono confrontati filosoficamente (e anche sociologicamente) con la dimensione pragmatica dei processi comunicativi.Nel campo della ricerca logica del rapporto linguaggio-informazione, è stato importante il contributo di Bar-Hillel che ha cercato la convergenza possibile (e necessaria) tra una «pragmatics free-information» e una «information in the full-blooded pragmatica/ sense». Varino ricordati anche gli studi di Vanderveken, Readel e Searle, finalizzati alla costruzione di una logica del linguaggio - la illocutionary logie - che vuole operare appunto nella dimensione pragmatica degli «atti linguistici» (speech acts, Sprechakts). Non si devono dimenticare neppure gli esponenti del nocriticismo (Richards) o i teorici dell'argomentazione (Perelman), che hanno arricchito un aspetto fondamentale della pragmatica: l'esame critico del ruolo che assumono, nel bene e nel male, gli strumenti persuasivi, diciamo retorici, nella creazione del consenso. In questi studiosi, il tema centrale è stato sempre la ricerca del modo in cui l'uso delle parole può favorire il consenso o invece suscitare dissenso. Per Habermas, la pragmatica si situa al centro della sua teoria dell'agire comunicativo. Non solo: egli avanza la proposta di una «pragmatica universale». La separazione chomskyana, sopra accennata, tra competence e performance verrebbe superata nella «pragmatica universale» di Habenrtas con l'introduzione dell'idea di «competenza comunicativa» (komunikative Kompetenz). Ma nelle pieghe più nascoste della «pragmatica universale» si cela la vecchia questione della «terapeutica del linguaggio». Tutto sommato, Habermas si promette una ottimizzazione dell'agire comunicativo tramite la purificazione (Bereinigung) degli atti linguistici. Un terreno minato dal quale finora nesssno di coloro che hanno osato penetrarvi è uscito indenne. E ciò per il semplice motivo che è difficile, se non impossibile, separare la pragmatica dalla semantica e dalla sintassi. I rischi che si corrono in un simile tentativo sono stati spesso rilevati dai logici più eminenti del secolo XX, ad esempio da Tarski e Quine. Ma forse il rischio più imbarazzante - da escludere certamente in un pensatore dalle qualità di Habermas - è quello della banalità o, ancora peggio, dell'illusione di aver trovato una medicina con effetti curativi per tutti i mali del nostro tempo e dei tempi a venire. A questo riguardo, va ricordata l'esperienza negativa della «Generai Semantics» negli Stati Uniti. Negli anni '50, nel corso del grande conflitto tra il generale Charles de Gaulle e il governo americano sulla Nato, Edmund S. Glenn, uno degli esponenti della «Generai Semantics» scriveva: «Non sarei sorpreso se alcune delle differenze di opinione che sono emerse in vari momenti sulla Nato tra gli Stati Uniti e la Francia fossero dovute alla grande rilevanza assunta dalle difficoltà semantiche» («Semantic Difficulties in lnternational Communication» ETC, XI, 3, primavera 1954, pp, 163-180). Tale impostazione potrebbe far pensare che tutti i conflitti tra paesi, classi, gruppi e indìvidui sono dovuti a malintesi sulle parole. È ovvio che non è così. Il dissenso tra gli uomini è anche nelle cose, non solo nelle parole. G li altri capitoli del libro appaiono ispirati al metodo classificatorio, di luckacsiana memoria, che distingue i grandi protagonisti della storia delle idee in buoni e cattivi. Bisogna ammettere che tale metodo, per dirlo con un eufemismo, ha dato finora esiti poco convincenti. La verità però è che risulta difficile immaginare una riflessione teorica su un determinato argomento che possa prescindere da giudizi favorevoli o contrari a coloro che si sono occupati dello stesso argomento prima di noi. Malgrado le promesse in senso opposto, la sincronia strutturalistica non ha cambiato i termini della questione. Walter Benjamin afferma che «il libro non deve presentare (aufweisen) il suo autore, ma la sua dinastia». Infatti, ogni autore, consapevolmente o meno, ha una propria dinastia, che talvolta è più rivelatrice dell'autore che il mettere in mostra l'autore stesso. Nei confronti della propria dinastia, Habermas, come tutti gli autori, ha una linea di parentela nella quale in qualche modo si riconosce e un' altra nella quale non si riconosce affatto, una linea che si celebra e un'altra che si sconfessa. Nella prima egli colloca Kant, il giovane Hegel, gli «Junghegelianer» di sinistra, i primi romantici, il giovane Marx, Husserl, G. H. Mead, Ch. Morris, Schiitz, Talcott Parsons, Gramsci, Sartre, Castoriadis, Austin e Ape!; nella seconda, Nietzsche, Heidegger, Bataille, Foucault, Derrida, Gehlen e Schmitt. Ma queste due linee di parentela che, volente o nolente, appartengono entrambe alla sua dinastia, trovano un punto d'incontro in Horkheimer e Adorno. Nei loro riguardi l'~tteggiamento di Habermas è spesso contraddittorio, e qui la spiegazione va ricercata nel rapporto complesso, per certi versi ambiguo, che egli ha avuto sempre con la «teoria critica», dalla quale frequentemente ha preso le distanze ma senza arrivare mai a una rottura insanabile. Non meno facile da precisare è il luogo che occupano Gadamer e Luhman nella suddetta dinastia. Habermas ha spesso clamorosamente dissentito e polemizzato con loro, ma è indubbio che questi studiosi hanno avuto sul suo pensiero un'influenza tutt'altro che irrilevante. D'altro canto, alcune delle personalità che Habermas giudica responsabili di aver contribuito ad acutizzare le patologie congenite della modernità non sono, a nostro parere, ben scelte. Nietzsche, ad esempio, viene descritto come il primo filosofo che tenta di svuotare di soggettività razionale il discorso del moderno. In questo, secondo Habermas, Nietzsche si situa agli antipodi di Hegel, aprendo così la strada all'altra anima della modernità, quella che si manifesta come «ribellione contro tutto ciò che è normativo» (Rebellion gegen alles Normative): anima che troverà la sua espressione più tangibile nelle avanguardie artistiche del '900. Non vogliamo suggerire che questa lettura di Nietzsche, che tutto sommato è quella di Heidegger e Deleuze, sia sbagliata. Ma, come è noto, questa non è l'unica lettura veritiera di Nietzsche. Questa pluralità di letture, tutte ugualmente veritiere, hanno fatto di Nietzsche, come egli stesso aveva intravisto, il «primo filosofo tragico» (C.A. Scheier, Nietzsches Labyrinth, Alber, Freiburg 1985). Non ci sembra neppure troppo convincente la scelta di Bataille che, a parte le sue indiscutibili qualità letterarie, dal punto di vista filosofico non è altro che un Nietzsche tenebroso, cultore di un vitalismo dionisiaco rovesciato. Bataille, nella prefazione a Madame Edwarda, ha scritto: «Il dolore e la morte sono degni di rispetto, mentre il piacere è irrisorio, additato al disprezzo» ( Oeuvres complétes, voi. III, Gallimard 1971, p. 9). Sul dolore e la morte, Nietzsche avrebbe potuto, seppure con riserva, essere d'accordo con Bataille; sul piacere, difficilmente. Tuttavia, l'interesse di Habermas per Bataille non è arbitrario. Dietro l'interesse per Bataille c'è quello per Foucault. Infatti, Habermas attribuisce al pensiero di Bataille un ruolo determinante nel processo costitutivo del «système Foucault». A questo proposito, va ricordato che Foucault riconosce in Bataille il suo maestro. È certamente a partire da Bataille (e anche da Lévi-Strauss) che Foucault sviluppa il suo discorso sulla «sparizione del soggetto» e la sua critica a quella ragione che, dall'illuminismo in poi, fa perno sulla autonomia del soggetto. «Il motivo della critica della ragione di Nietzsche - dice Habermas - non è arrivato a Foucault da Heidegger, ma da Bataille». N el suo testo, Habermas non risparmia osservazioni duramente critiche nei confronti di FO-ucault.Ma il Foucault che egli ha in mente è quello di L'Histoire de la Folie, di Naissance de la Clinique e di Surveiller et Punir, di cui fornisce, va detto, una versione, se pur corretta, assai condizionata dagli stereotipi interpretativi che, in questi ultimi anni, si sono andati formando intorno al «système Foucault». È una versione piuttosto riduttiva, nella quale il pensiero di Foucault, di solito ricco di articolazioni, viene ridotto ali' essenziale. Il «système Foucault» si presenta come un sistema di sorveglianza totale, un panopticon universale in cui lo sguardo monoculare ma onnipresente del potere (e del sapere) riesce a controllare tutti i soggetti, rendendoli dunque oggetti, de-soggettivizzando in questo modo tutto il tessuto sociale. Un mondo dunque chiuso, senza smagliature, senza nessuna possibilità per il soggetto raziocinante di agire autonomamente. Un mondo, insomma, in cui tutto il sapere è potere. Negli ultimi anni della sua vita, Foucault ha contestato ripetutamente questa versione. Peraltro, Habermas ammette, in una nota aggiuntiva a piè di pagina (p. 285), di non aver potuto tener conto dei volumi II e III della Histoire de la Sexualité, ossia de L'usage des plaisirs (II) e Le souci de soi (III). E il fatto è importante. In questi due volumi si constata un mutamento nel «système Foucault». È evidente che in queste due opere Foucault finisce, nei fatti, per riconoscere una relativa autonomia al soggetto, egli re-soggettivizza il suo discorso. Certamente, rimane in lui sempre ferma la convinzione che in quanto soggetti siamo sempre oggetti di governo, ma ora Foucault ammette - questa è la novità - che esiste anche uno spazio relativamente autonomo m cm possiamo esercitare la nostra soggettività, cioè la nostra libertà. È il mondo, appunto, dell' «uso dei piaceri» e della «cura di sé». Ma non è tutto. Mutamenti del pensiero di Foucault si riscontrano anche nelle tematiche attinenti alla modernità, che, ci sembra, Habermas curiosamente ignora. Alludiamo soprattutto alle lezioni di Foucault tenute al «Collège de France», forse nello stesso periodo in cui Habermas teneva le sue, sul testo di Kant Was ist Aufkliirung? (Magazine Littéraire, n. 207, maggio 1984, pp. 3439). Il passo pubblicato delle sue lezioni consiste in una analisi del rapporto illuminismo-ragione-modernità in Kant in cui Foucault cerca, attraverso Kant, di definire la filosofia come discorso della modernità e sulla modernità. M alto efficace è l'analisi che Habermas fa dell'«anti-fonocentrismo» e del «decostruzionismo» di Derrida. Il metodo utilizzato è quello di confrontare il pensiero di Derrida con quello di Husserl, Heidegger e Adorno (cap. III e corrispondente excursus). Benché un simile approccio non sia particolarmente originale, i risultati sono assai persuasivi. È il metodo infatti che consente ad Habermas di svelare la natura e il funzionamento del congegno teorico di Derrida, ma che allo stesso tempo gli offre l'opportunità di affinare, o meglio precisare le sue valutazioni nei confronti di Husserl, Heidegger e Adorno. Non è possibile, in questa sede, accompagnare Habermas nei suoi molteplici spostamenti: da Derrida a Husserl, da Derrida a Heidegger, da Derrida a Adorno, con la difficoltà aggiuntiva che gli spostamenti sono di andata e ritorno, senza contare i casi in cui Habermas compie analisi incrociate fra Husserl e Heidegger, Adorno e Heidegger, e così via. Pur riconoscendo lo sforzo compiuto da Habermas nell'esaminare tutte le implicazioni e le sfasature del pensiero di Derrida, talvolta viene da chiedersi se un trattamento tanto prolisso e, di conseguenza, tanto esteso di alcune tematiche derridiane non sia eccessivo. E qui, ne siamo consapevoli, ci imbattiamo in una questione delicata di giudizio: abbiamo forti dubbi che l'importanza accordata, ad esempio, all' «anti-fonocentrismo» di Derrida sia giustificata in un libro sul «discorso filosofico del moderno». I proseliti di Derrida, di sicuro, saranno d'altra opinione. Dietro la critica al «fonocentrismo», ci diranno, vi .è la critica al «logocentrismo», vale a dire, la critica all'imperialismo del «Logos» nella cultura moderna. ~isogna ammettere che, in questa ottica, e solo in questa ottica, sarebbe difficile negare ali' «anti-fonocentrismo» attinenza con la tematica discussa in questo libro. Ma ciò che convince meno è il sovradimensionamento dell'apparato concettuale al quale Habermas ricorre per presentare prima e per intaccare poi i fondamenti del costrutto teorico di Derrida. Ciò appare evidente quando si pensi alla lunga e ricca digressione di Habermas sulla Bedeutungstheo~ie di Husserl, soltanto per dimostrare alla fine che esiste un rapporto dialettico tra la questione del significato in Husserl e in Derrida. A parte questi aspetti un po' sconcertanti del modo di trattare l'argomento, rimane merito indiscusso di Habermas l'aver fornito un'analisi (e un giudizio) rigorosa e oggettiva della cosiddetta «grammatologia» di Derrida. Habermas richiama l'attenzione in particolare sugli aspetti mistici o misticheggianti del tentativo di Derrida di ipostatizzare la scrittura (Schrift). Infatti, in Derrida la scrittura diventa una categoria assoluta, una categoria che si colloca al di là del discorso linguistico e filosofico, persino al di là della storia umana. A ben guardare, Habermas non fa altro che ribadire i dubbi, tante volte espressi dagli studiosi di semiotica, linguistica e storia della scrittura, sul valore scientifico della «grammatologia» di Derrida. Direttamente collegate al tema del libro, invece, appaiono le riflessioni sul decostruzionismo. A dire la verità, Habermas è tutt'altro che tenero con il decostruzionismo. Dopo una puntuale rivisitazione critico-descrittiva della teoria, Habermas si sofferma su un punto in cui il decostruzionismo di Derrida mostra tutta la sua vulnerabilità. Quando Derrida, argomenta Habermas, considera che le opere di filosofia non sono altro che opere di letteratura, quando la retorica viene considerata prioritaria nei confronti della logica, la critica della metafisica diventa critica letteraria. Il programma di decostruire la metafisica, intaccandone l'armatura, l'intelaiatura (Geriist), non raggiunge il suo scopo. Loscopo raggiunto è un altro: ciò che viene decostruito è soltanto la filosofia come genere letterario e, in conseguenza, soltanto la critica letteraria, non la filosofia in se stessa. Dopo tutte queste considerazioni, fatalmente frammentarie, alcune delle quali - non lo escludo - troppo riduttive o addirittura sbagliate, mi sembra opportuno chiudere questa recensione con una riflessione sul significato non soltanto di questo specifico libro, ma della complessiva impresa intellettuale di Habermas relativa alla modernità. Non credo che egli abbia fornito risposte convincenti, neppure in minima parte, agli interrogativi che egli stesso si è (e ci ha) posto. Ma una cosa gli va riconosciuta: Habermas si fa oggi interprete, con tutto il vigore del grande pensatore che egli è, di una esigenza molto diffusa tra i filosofi, e anche tra coloro che filosofi non sono. L'urgenza cioè, di ridefinire i termini in cui il progetto moderno - oggi appena abbozzato - possa essere attuato compiutamente. Il che, nei fatti, implica la rifondazione della razionalità su nuove basi. In fin dei conti, il programma- che è anche una sfida per tutti - consiste nel ristabilire la vecchia (e oggi tanto scherni- ..,,.. ta) volontà di «veder chiaro» in un c::s .s mondo altamente complesso come ~ il nostro. È così, e solo così, che ~ potremo evitare la caduta nella ~ heideggeriana «chiara notte del ...., nulla», che di chiaro non ha nulla. -~ i.: i.: Con questo scritto prosegue il di- ~ battito sul pensiero dell'ultimo Ha- ~ bermas, avviato nel n. 78 di Alfa- i.: beta, novembre 1985, con un arti- ~ ~ colo di Maurizio Ferraris. .e:, ~ - <::!
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