sciando il cerchio del chiarore escissi di me stesso per assumere non so che nuova sostanza notturna e udissi battere il mio proprio polso nella sostanza che stava per incorporarmi». 2 Per concludere su questo punto: quello di D'Annunzio è un mistero in piena luce, un mistero formale e formato; il che non toglie che esso mantenga la sua qualifica di mistero; ma neanche toglie che un tale mistero, questa specie di mitico alibi che si propone al nostro secolo in vista della domanda che il secolo si preparava a proporre all'hic et nunc della responsabilità del poiein, sia totalmente visibile e percepibile nella sua non più occulta entità - voglio dire entità occultata dalla e nella tenebra in cui il mistero è immerso finché non sopravvenga l'arte del verbo a estrarnelo -, senza che perciò esso abdichi alla sua qualità innata di mistero; e cioè che non appaia se non come mirabile monstrum; in ultima analisi, che appaia come mirabile monstrum l'io conformato da un tale mistero. In conclusione l'io narcissico portato in luce: il doppio che non arriva ad essere l'altro. Il cervo i cui «cupi bramiti interrotti» s'odono «di là dal Serchio», il Centauro che appare alla foce del Serchio e che lotta col cervo in una zuffa furibonda fino a ucciderlo, sparendo poi, «Ombra labile / verso il Mito nell'ombra del crepuscolo», la nuda Aestas, Undulna, sono in questo senso mirabili mostri dell'io, mistero in luce dell'io, non simboli; e in quanto forme illuminate, ecco che tutta l'arte del verbo consiste nel far discendere da tale formalità plastica del mistero tutto l'infinito particolareggiare delle condizioni in cui esso avviene, e in cui è in quanto appare; finendo, il mistero stesso, per costituire il modo di quella captatio naturae in cui esso avviene come tale, per poi confondersi col Mito: che per D'Annunzio è il luogo naturale in cui il mistero dell'io si integra come fatto naturale con la natura stessa, espressione finale della sua forza operante, e sua occulta coscienza di cui solo «la scrittura, l'arte del verbo», può ripercorrere le tracce, se Mythos significa parola. Il Mito è la sede dell'io in quanto questo è l'elemento, dotato di parola, il più nascosto nell'alveo della natura. È come se Narciso soggettivasse l'acqua che gli rimanda la sua immagine. E una tale naturalizzazione dell'io costituisce la caratteristica tipica, si direbbe il fondo mitico, della poesia dannunziana. Come l'acqua che può acquistare ogni forma perché non ne ha nessuna. Dal che deriva l'inintelligibilità finale del mistero, più fattizio che sacrale, dell'io stesso, mostrato mentre esce, realizzandola, dalla propria occulta ferinità - in verità dalla propria informità umana-e mentre vi rientra come stato coscienziale della propria appartenenza a una tale fenomenologia naturale. Mistero che appare in luce, s'è detto, ma non in luce epifanica, se l'epifania tiene più dalla parte del valore polivalente e immaginario del simbolo. Avviene dunque una sostituzione del mistero, in questo suo doppio senso, naturalistico e g coscienziale, al valore polivalente -~ del simbolo, qual è attestato dal ~ simbolismo. Quello di D' Annunzio è, se mai, secondo la proposta di lettura premessa alla Leda da -~ Giansiro Ferrata (negli Oscar ~ Mondadori), un «simbolismo orga- "' -- t>.o nico, efficiente in forma pura». Si ~ tratta di intendersi. Il mistero non .:: è né poli - né monovalente: è neu- !::! tro; mantiene il suo carattere mi- "' -e sterioso anche se la sua forma, e- ~ ~ sposta «alla luce piena», risulta ~ percepibile, instaurando tra l'altro ~ una contraddizione tra la forma e E ~ i "' la sostanza del mistero, tra la sua percettibilità e là sua intellezione. Questo è il punto drammatico dell'operare poetico dannunziano: questa denudazione plastica del mistero che ne aumenta il grado di misteriosità invece di accostarlo, come che sia, a una sua possibile e leggibile verità. Per cui l'arte del verbo si propone soprattutto il fine di proporre il mito di quanto essa esplora, piuttosto che rivelare e togliere il grado di misteriosità a quanto appare nella luce, a quanto appare alla luce. È qui che il poeta, r t - ' I r· ....._ ' ,.,.,.. .,,- ,- - nita. Ecco perché il Centauro, la nuda Aestas, ecc., tutto quello che la natura propone come mirabile monstrum, appare in D'Annunzio non tanto come una celliniana invenzione da cesellare per forza verbale di quella mostruosità naturale, quanto piuttosto un'estrazione di dati naturali, ma non perciò meno misteriosi, dalla tenebra per portarli alla luce, onde contemplarli come tali; ma come tali, in- - I i .,~ ~i;y f-~ ij.~ .·.• ./..i . f ~- ,, / _-- - -·,. '- ··-. Il circo della morte più o meno consciamente, con la scrittura, propone equivalenze al proprio dare forma al mistero. La forma dannunziana, in quanto mistero in luce, esige un sommo artificio e un'affermazione quanto mai scaltrita della rettorica necessaria a questa creazione di qualcosa che continuando l'opera di creazione inesausta della natura, viene inconsciamente a riversare questo concetto di artificiosità negli stessi aspetti creativi della natura: che finisce per essere un inesausto artificio reso inesausto dalla sua stessa artificiosità. M a quali sono, quali possono essere, questi aspetti artificiali dell'operare della natura se non il proporre come miti i suoi artefatti, finendo per inoltrare nell'opera naturale questo grado di artificiosità necessario a prolungarne gli esiti e lo stupore nell'opera del poeta? Ecco la fonte dei miti, e delle mitografie, dannunziani: il loro stesso naturale artificio. È implicito, e nascosto, nella natura questo carattere del rhetor, da rhesis che è uguale a parola, dalla radice svar, var, uguale a risonare. «Se io potessi dire una parola che commovesse un vecchio millenario, un giovinetto sedicenne, quale vorrei dire?», si domanda proseguendo la citazione precedente nel Libro ascetico. È la parola naturale, la parola impossibile per D' Annunzio, il quale ha devastato il dizionario proprio per cercarvi, nell'uso di tutte le parole, la parola introvabile. Dunque l'arte del verbo, oltre ad essere la prosecuzione dell'arte della parola, della rettorica insomma, implicita nell'oscuro discorso della natura, pare esserne, e percepirne, piuttosto la risonanza: e io direi la variazione infitroversi nella luce, in un misterioso groviglio di luce e ombra, in una tentata aequalitas tra luce e ombra che l'equinozio rivèia nel declinare della Aestas. Groviglio, dico, insistito di nati naturalizzati, quando il mistero non sia il tempo stesso che scorre, come nell'Alcyone, e per esempio nel Madrigali dell'estate, dove la forma pare sfarsi nella «calda sabbia lieve» che scorrendo «per entro il cavo della mano in ozio» pare stavolta formare chi le dà forma, in una sorta di misteriosa identificazione dello stesso artefice, dell'uomo-clessidra, per una reciprocità che I'«umido equinozio» rivela tra la forma e il suo formatore, tra il tempo che scorre e la caduca eternità, umida cretà carnea che lo soppesa lasciandoselo sfuggire di mano. È insomma, quella di D' Annunzio, una rettorica maieutica di ùn mistero che permane tale, naturalisticamente originario, anche se portato alla luce. E qui si potrebbe arguire che tutta l'operazione poetica dannunziana altro non sia che un tentativo di giustificazione dei miti che hanno accompagnato l'evolversi della civiltà occidentale, di una societas di cui l'individuo poetico è il rivelatore proprio in quanto si propone come individuo inimitabile di quella stessa societas. L'inimitabile è colui che può imitare tutto fuorché se stesso; portare tutto in luce piena fuorché se stesso: che infatti appare nella sua accecata entità di «orbo veggente» quando comincia I'«esplorazione d'ombra>>con cui appare confuso e di cui pare un'apparizione ectoplastica quanto più cerca di trasfondere nel bronzo le sue sensazioni, quando non la malinconia stessa, per oscuri frammenti, quasi cera destinata a perdersi nella fusione, dell'essere incastonato nell'ombra. In questo senso ho detto, occupandomi in altri tempi della lezione dannunziana, che essa è un po' la giustificazione sul piàno rettorico, e la riprova ultima, l'exploit finale, di tutto un passato, divenuto mitico, della civiltà artistica dell'Occidente: che nella poesia dannunziana pare provare ma anche, insieme, concludere il ciclo della propria mitopoiesi. La poesia come ars rhetorica in D'Annunzio brucia gli archetipi ormai tipizzati dell'Occidente in una verbalità che mentre focalizza le sue molteplici sollecitazioni, anche le brucia nel suo metterle a fuoco, mantenendole ferme sotto i raggi solstiziali della propria Aestas, e lasciando al nostro secolo, insieme col calore di quel fuoco, anche diboscato per sempre l'intrico simbolista di una realtà intesa appunto, romanticamente, come foret de symboles. Per questo, già nel '39, definivo D'Annunzio «la porta d'entrata della letteratura moderna italiana»; porta d'entrata che può anche interpretarsi- da una porta si entra e si esce - come porta d'uscita per la letteratura ottocentesca, da qualcosa insomma che, raggiunta ormai la propria acme con la finzione dannunziana, lasciava libero il linguaggio da ogni ipoteca naturalistica, proponendosi la nuova poesia come la funzione simbolica del linguaggio stesso dotato di tutta la propria storicità. È una vera e propria crisi della realtà: che non è più, essa, intesa come simbolo, che come tale avrebbe annullata la dialessi che, proprio attraverso la naturalezza del linguaggio, le appartiene come mozione implicita tra realtà e verità, tra visibile e invisibile. Già Klee aveva dichiarato che «L'arte non deve riprodurre il visibile, ma rendere visibile». Cioè la realtà è perché avviene, e avviene nel linguaggio che l'uomo le propone come liberazione dal proprio mutismo astorico. E insomma il linguaggio è l'avvenire stesso della realtà. La finzione su una realtà già simbolizzata finiva per esautorare la facoltà gnoseologicamente attiva implicita allo stesso fare poetico inteso come poiein; ma certo è che un tale ricupero di entità conoscitiva, dopo la pura emotività romantica, è stato il dramma necessario scavato dal sol- ' I • I ' :/' ! ' ,i. 'I co profondo della poesia del nostro secolo, insieme alla nuova coscienza del valore dinamico del linguaggio che le avanguardie storiche, da Apollinaire al futurismo, hanno proposto contemporaneamente alle risultanze dell'esperienza linguistica ginevrina di Saussure, al cubismo, alla nuova fisica quantistica e alla teoria della relatività oltre che, ben s'intende, a quanto Freud proprio all'aprirsi del secolo rivelava per la scienza del profondo con la sua Traumdeutung. La scomposizione del linguaggio come avvertenza e modo- di liberazione delle sue energie nascoste è parallela quando non coeva alle sue proposte della fisica delle sub-particelle e agli esperimenti di scomposizione dell'atomo. È insomma l'idea stessa di natura, non tanto imitanda quanto invenienda, che passa da una concezione statica a una concezione dinamica, coinvolgendo il linguaggio in tale rivoluzione di fondo per cui una forma semantica risulta, come massa, non altro che energia a riposo, e per cui è compito dell'espressione poetica attualizzarne la virtualità. D evo anche dire, in queste premesse, che in occasione della morte nel 1938del poeta, Letteratura promosse un «Omaggio a D'Annunzio» che uscì poco dopo, in quel drammatico 1939, e che vide la mia generazione schierata senza complessi né remore mentali ma anche senza albagia di fronte all'opera dannunziana, in un apprezzamento che la nuova poesia aveva vaccinato rispetto alle tossine che l'opera del vate, nell'ambiguità del «Nato per esprimere», come diceva il poeta di se stesso, aveva disseminato a piene mani nella cultura ufficiale. Non era finita l'epoca delle ripulse e della guardia difensiva di chi, troppo a ridosso di una così preminente ma anche ingombrante figura, e delle sue mistificazioni politiche, non trovava altro modo di salvare la propria La tragica /·-~;;, _;., /: I ' ,,;/ti,: i{),/ 'li!/'l • ;1~ ✓ ···; /. 1,/1,·• ,,(,f/f,, { .r- :..-c>. :.::~·..:-... f;? -~r-2~ - ... ..... .. - • , ".// :0 I.• •• •-!:// ~ / • ('~ ~, ;.,,/ .. 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