Alfabeta - anno VIII - n. 80 - gennaio 1986

N on mi ripeterò sul modo con cui io vedo D'Annunzio. Ma mi domando come veramente conviviamo con lui. Spero che una risposta articolata nella varietà delle sue disposizioni ci sarà data da questo convegno in cui il tema nelle forme più simboliche e indirette riaffiorerà per certo, e continuamente, da due fascicoli che il Verri ha preparato dedicandoli al poeta con la collaborazione di poeti, scrittori, critici su un argomento che li riguarda non solo in sé, ma anche in qualche modo (sia pure nel gesto più discreto e riservato) in relazione alle decisioni che essi devono prendere anche per quel che si riferisce al loro fare nella sua definitività. La domanda può presentarsi anche sotto questa forma: se D' Annunzio possa ancora entrare tra i modelli di cui si giova la poesia vivente. Questa domanda è proprio ciò che si cela sotto tutto il nostro discorso qui, e lo inquieta. Intanto, ancora una volta, credo, si vedrà quanto poco un concetto astratto e univoco di poesia sia capace di esaurire la realtà della poesia stessa nella ricchezza varietà e disponibilità infinita delle sue ragioni nelle loro viventi articolazioni e nella continua tensione. Adorno (come s'è detto) colloca D'Annunzio tra i «preludi della industria culturale». Veramente D'Annunzio visse proprio in un momento cruciale, molto acuto della poesia tra ciò che nel linguaggio critico diciamo la «fine del secolo» e il secolo nuovo nel momento delle sue più esaltate speranze. Va anche detto che gli indubbi esiti del poeta fan fatica ad accordarsi col nostro desiderio di convivere con lui; e, se mi è concesso qui parlare di una mia esperienza recente, devo dire che la lunga convivenza col poeta è stata difficile, intralciata e piena di resistenze - e non fu assecondata affatto da quella simpatia, da quel moto originario di identificazione che accompagna la ricerca e la agevola nella resoluta volontà di una approssimazione comprensiva. James, qui, e Morgenstern forse avrebbero qualche cosa da dire. In questa diversità di convivenza si nascondono forse qui certe ragioni critiche, ma anche certe diversità di situazione. Comunque sia, un D'Annunzio rivolto verso il Novecento esiste. E non mi riferisco qui tanto ai continui e talora segretissimi, talora anche molto manipolati prestiti e recuperi e furtarelli che su di lui furono perpetrati dai poeti che vennero dopo. Su ciò si è detto molto, e con precisione, anche se con orecchio un poco appannato e con gesto un poco burocratico. Ma l'argomento è inesauribile, e tanto più se al territorio italiano si connetteranno alla fine anche quelli inseparabili delle letterature che si dicono straniere. Mi riferisco, invece, alla consapevolezza che egli ebbe di alcuni problemi riguardanti il destino radicale dell'idea stessa della poesia come ragione del fare, alla sua capacità di avvertire tra i primi - per certi aspetti nel nostro paese anticipato solo da taluni Scapigliati - i movimenti inquieti che toccavano la struttura stessa progettante dell'invenzione. Mi fermerò su un solo problema. Ed ecco (sono sue parole): «Sembra, a detta dei più, che la fine del secolo debba trar seco il naufragio( ... ). Non soltanto è condannata la poesia, ma tutta quanta l'arte nelle sue forme diverse (... ). La scienza sostituisce all'arte l'industria, alla _mano dell'artefice la macchina( ... ). La poesia è morta, tutta l'arte è morta». Sono parole di D'Annunzio; e le leggiamo in una intervista che il poeta concesse in uno dei momenti più fertili del suo lavoro nel 1895ad Ugo Ojetti. Se le confrontiamo con quello che il Pascoli aveva detto pochi mesi prima allo stesso intervistatore, si osserverà presto come il Pascoli insista soprattutto sulle ragioni della lingua con riferimento diretto alla riforma della parola poetica che da tempo era nei suoi propositi e nel suo fare. Anche D'Annunzio si domanda che cosa debba fare il poeta; ma con un senso lucido di quel che Adorno dirà il «carattere doppio dell'arte» inquadra la domanda nell'insieme dei rilievi che gli venivano dalla situazione generale non solo italiana. M i fermo qui sul tema della «morte dell'arte» come su un tema esemplare e centrale nella riflessione del poeta e nella sua poesia. Esso non appare nel poeta secondario a nessun altro tema; ebbe un suo peso nella determinazione delle scelte stilistiche, e fu vissuto con intensità pari alla partecipazione. Esso in qualche modo attraversa tutta l'opera di D'Annunzio - con diverse intonazioni e risalti nei diversi momenti di un'opera consapevole del proprio mutare; fu vissuto dapprima come una radicale difficoltà esistenziale, poi assunse consapevolezza dottrinale, e spesso si ripresentò connesso anche a motivi di stanchezza, di esaurimento, di rifiuto, anche in quei momenti in cui il poeta aveva bisogno di trovare nuova lena. Della giovanile esperienza della «perdita dell'arte» ho detto altrove; qui mi limiterò ad osservare come, quanto al tema dottrinale, D'Annunzio l'abbia affrontato con chiarezza senza ricorrere all'aiuto di risposte e misteriose «essenze eterne», anzi abbia opposto argomento sociologico ad argomento sociologico - ed abbia accettato l'idea che, quanto al rapporto tra arte e scienza, non già la scienza sarà motivo della fine dell'arte, anzi ne __. ., ~ .. --: :~r~~1~- --1{ti -~- ~.;- -- ...... ,. sarà un arricchimento semantico e di possibilità oggettive. Comunque, il poeta non riceve nessuna investitura, pone se stesso come poeta per un atto resoluto della sua volontà, si incorona da sé, e l'aura si fa a suo modo artificiale. Proprio di qui nasce la giustificazione della poetica della «intonazione» come principio di quel manierismo alla prima e alla seconda potenza che con tante variazioni tra megapoetica e micropoetica costituisce la struttura portante di tutta la poesia di D'Annunzio fino agli esiti più alti. Per altro, tutto questo fu vissuto nella prospettiva esaltata di un nuovo Rinascimento, in un'euforia di speranze e di progetti che rappresentano bene certa enfl.ure propria del momento, e che anche recentemente gli studi della Andreoli e della Lorenzini hanno arricchito di nuove garanzie. Ebbene: ai suoi tempi, Henry James, nel 1904, in un suo saggio davvero tutto da invidiare sottolineava certe perplessità sottili di lettore esperto verso un artista non raffinato, il cui motivo insistente e come ossessionante fu la raffinatezza, e parlava di D'Annunzio con una perfidia di lettore ammirato, capace di scoprire, sotto lo splendore e la coerenza, l'odore un poco corrotto e allontanante di certi viziati risvolti. E, sempre quanto agli odori, anche Morgenstern non mancò di sentirsene come colpito, e negativamente. Non posso parlare a nome dei giovani poeti; ma conosco alcuni giovani poeti, posso far delle ipotesi, e credo sia difficile che D'Annunzio venga accolto come modello, o come il modello, o comunque come un impulst>globale attivo per la giovane poesia. È ben vero che sotto i suoi furori, ed il senso rigido e teso del sublime, e l'esaltazione della «quadriga imperiale» c'era un D'Annunzio segreto di malessere, di sfiducia, quasi di spavento del mondo con certi sapori dell'orrido, che culminarono nella poesia di un delirante barocco di scheletri e di morte; e si ricordi la poesia che comincia: «Qui giacciono i miei cam». Ma questo D'Annunzio non è che il negativo speculare dell'altro· D'Annunzio. Infine, mi par vero che egli non avvertì propriamente il terribile annuncio che si celava nelle profezie di Rimbaud e di Nietzsche, di quella condizione di tramonto in cui noi ora ci troviamo involti. Da Nietzsche e da Rimbaud D'Annunzio trasse un ricco deposito dell'immaginario. Quanto a Nietzsche, disse egli stesso, D'Annunzio, che «la sua teoria gli offriva alcuni movimenti lirici in un cerchio di belle immagini»; e Rimbaud ... Rimbaud gli servì con Ovidio e altro per quella splendida prova di manierismo superiore che è Stabat nuda aestas. Par proprio vero: molti suoi temi attraversarono il secolo - e giungono fino a noi - con nuovissimi, alterati sensi, ed egli diede la più alta poesia della poetica dell'artificio nel nostro paese. Se ne può parlare come di un modello radicale della poesia nuova? Si potranno invidiargli taluni congegni abilissimi e veloci; non (mi pare) il senso che egli diede al suo cammino esaltato e chiuso, e, nello stesso momento, così legato al carattere di un tempo fiducioso di sé nel gioco infinito delle sue euforie e anche delle sue cadute. Avvertì certi problemi, ma li fermò in una prospettiva sbarrata. E poi infiniti sono i movimenti della poesia in un secolo ricco di variazioni, di sorprese, di inquietudini e le suggestioni vive che ne emanano in una azione ininterrotta e con cui ' ~\\1,·ii'. ·: •.- ,.'.I:·., . ;~'• .... : ,' pi r I il poeta fa i conti. Infine, la «morte dell'arte» fu per D'Annunzio una specie di droga per una eccitata e continua avventura della parola artificiale; per i giovani, essa si configura come la sollecitazione verso una poetica delle macerie, e la poesia è avvertita come una zattera della Medusa anche carica di libri e di memorie su cui senza innocenza muoversi tra continui naufragi - o anche per usare le parole di un nostro caro poeta- per ricercare «l'evidenza dell'esserci nella sua forma più essenziale, più spoglia». O anche ... D'Annunzio e la funzione della luce Piero Bigongiari N elle Cento pagine scrive D'Annunzio: «La scrittura, l'arte del verbo, è veramente fra tutti i giochi mentali il compiuto: di là dalla pittura di là dalla scultura, continua l'opera di creazione e dà forma al mistero estraendolo dalla tenebra per esporlo alla luce piena». È qui riaffermato prima di tutto che la scrittura, e più della pittura e della scultura, nel continuare «l'opera di creazione», mentre prosegue l'opera della natura - per cui il naturalismo estetico di D'Annunzio si differenzia dal naturalismo finiseculare proprio per proporsi più come continuazione mentale e lucida che come imitazione dell'opera della natura a fini più (Zola) o meno (Verga) sociali - «dà forma al mistero estraendolo dalla tenebra per esporlo alla luce piena». Se, come dice Eraclito, «la natura ama celarsi», il mistero nascosto nella tenebra è un mistero naturale, anzi il mistero stesso della natura in quanto essa «ama celarsi», e tanto più celarsi quanto e laddove più panicamente essa pare offrirsi alla luce del «gran giorno». Parlerei pertanto per D'Annunzio di naturalismo misterico, e forse meglio di naturalismo orfico: l'ora alcyonia è un mistero che involto nella luce, tanto più pare involgersi nel suo occulto nucleo naturalistico. Un tale mistero nella tenebra è informe; quel che conta è che il mistero sia formato, abbia una forma sensibile e captabile - si badi bene, solo come forma-, anche se non intelligibile, solo se e in quanto esposto «alla luce piena»: che vuol dire reso visibile in quanto tale, e vivibile esteticamente nella sua realtà stilistica; poiché nella verità oggettiva rimane tale, cioè un oggetto misterioso, un cibo misterioso. «Respiro il mistero. Mastico il mistero. Rumino il mistero», dice nel Libro ascetico della giovane Italia1 , dimostrando tutta la ferinità eucaristica che il mistero in lui, cioè nel mystes della natura, suscita, e che egli tenta di oggettivare appunto nell'oggettivazione luminosa del mistero stesso, a non altro fine che ad espellere dal proprio io tale carattere ferino, introiettandone il lato eucaristico. Tutta la simbologia sacrale di D'Annunzio non ha altro fine che quello di poter ingerire, e cioè di poter fare propria la forma del contenuto, onde dare forma figurale, e $: sacralizzata, all'io che brucia nella i:::s .s propria ombra narcissica, nel pro- ~ prio tremito riflesso al poco lume e ~ al breve cerchio d'ombra. Non per ~ nulla Il fuoco porta in epigrafe, ....,. adattato alla bisogna anche a costo -~ di travisarne il senso, il verso dan- ~ <:I) tesco «..fa come natura face in fo l:l-0 co». È il fuoco in cui si liquefa tal ~ materia plastica del mistero ad at- s::: tizzare l'ombra, sicché l'io può ri- ~ velare la propria occulta sostanza .(:) ~ materica acquistando proprio a ~ causa della luce in cui evoluisce il ,9 i.: suo plasma «non so che nuova so- <:1> stanza notturna», che, proprio es- ] sa, lo incorpora, come dice ne La ~ Leda • senza cigno: «Come se la- i:;

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