Realismoe verosimiglianza I I La povera marchesa, se è '' uscita, alle cinque, non è più tornata... »: con questa battuta poco consolante Natale Tedesco ha chiuso i lavori del Colloquio sul realismo e la verosimiglianza che il Circolo semiologico siciliano aveva voluto dedicare alla memoria della sfortunata signora d'altri tempi. Quello che per autori come Paul Valéry o André Breton era il problema fondamentale di ogni scelta poetica, di ogni scrittura spensieratamente verosimile, sembra aver perduto, oggi, molta della sua carica argomentativa. Il realismo, dichiarava Alain Robbe-Grillet nei primi anni Sessanta, è l'ideologia che ciascuno brandisce contro il suo vicino, la qualità che ognuno crede di possedere soltanto per sé. Facendo in questo buona eco a Roman Jakobson che, dalla parte della critica, aveva già dichiarato chiusi i conti con un termine utilizzabile soltanto dalla causerie positivistica. Perché allora, ancora una volta, lieve di Sibilla... No, ma il segreto di un re pagliaccio sussurrato alle canne di un fosso, un'Operetta morale con la musica di Offenbach, il dialogo di un fisicoe di un metafisico arbitrato da un patafisico ... un'impostura, insomma, una bagattella comica, che faccia velo tra me e quella tentazione antica che sai; e mi svogli l'animo dall'arcinero, dall'arcizero, dall'arciniente; e mi dissuada la fatica di tagliarmi i polsi, debolmente, ogni quattro mesi... O chiamala Sceneggiata, chiamala come vuoi, purché sappia farmi vece di vita. L'arte arto, che ne pensi? Un arto artificiale, s'intende, e non solo per rendere più ghiotto lo scioglilingua ma perché questo a me veramente serve: un surrogato di vita durante il giorno e un surrogato di sonno, quando non posso prendere sonno, la sera. Tu lo sai, basta un'inezia per non farmi addormentare, la sera. Mentre, se mi abituo a contare, invece che pecore, pecsonaggi; se ad ogni regola e metrica e rettorica, che faccia da vigileurbano e diriga il traffico, riesco a consegnarmi in forma di schiavo beato, chissà che... Continuo, allora? Continuo.» È, come si vede, un corpo a corpo disperato del romanziere col suo lettore e l'esemplarità del caso consiste nel fatto che il romanziere mette in scena il romanzo della sua stessa impotenza via via che una crisi di credulità investe le strutture del suo libro in progress. L'intreccio, cioè, consiste nella crisi dell'intreccio stesso. Chi parla è uno scrittore, una specie di suicida platonico, che, per sfuggire all'insidia della finzione, cerca di farsi memorialista di sé e si accorge che anche così la realtà gli scappa da tutte le parti e che la stessa memoria non è un videoregistratore ma una macchina di inganni e un'officina di sogni. Lui ne patisce le servizie e le truffe; infine s'arrende di fronte all'inverosimile vita, contentandosi d'essere vivo. È un libro, insomma, in cui, in modo perfino didascalico, si mostra a nudo l'incrinatura intervenuta nel rapporto fiduciario esistente non solo fra scrittore e lettore, ma fra lo scrittore e se stesso. «Fui giovane e felice un'estate, nel Cinquantuno» esordisce baldanzosamente il mio eroe nel primo capitolo; ma più in là ripete le stesse parole, aggiungendo: «Macché, non è vero, mi sono vantato». -È chiaro, a questo punto, che lo scrittore non è più l'onnipresente dio flobertiano che dirige i destini dei suoi personaggi dall'alto d'una nuvola; nè l'indifferente dio joyciano che si lima le unghie e li abbandona a se stessi; ma è una lince bendata che brancola nel buio. Prende sé come soggetto, nella la marchesa? In tempi di repechages e di rifluenti ritorni allafavola, quale ausilio la teoria semiotica può offrire alla sventurata in balìa dei possibili narrativi? Calate le tenebre, la nottola del s,aperefatica non poco nell'andare. in cerca di idee chiare e distinte: quale metalinguaggio in favore della metamarchesa? Poche conclusioni, all'incontro di Palermo, ma la proposizione, con queste, di molte altre domande che studiosi di provenienza disciplinare e metodologica differente hanno prodotto a partire dai loro specifici angoli visuali; perché, in fondo, come ha suggerito in apertura Antonino Buttitta, «quella del realismo è una questione che investe le nostre stesse domande sulle forme della realtà, le quali, come gli antichi filosofi greci, hanno sempre a che fare con l'Essere e il Divenire». Era quindi inevitabile che la riproposizione del problema avrebbe generato una moltiplicazione d'interrogativi e di terreni d'indagine che perciò andassero da analisi testuali concrete a più genepresunzione di trovare un alleato docile e una guida addomesticabile, ma si accorge di dover combattere con un Alter Ego nemico, un Doppio che lo incalza e lo sbugiarda. In una parola, dopo la rivolta degli altri personaggi, anche il personaggio Io si ribella al narratore. Da questo momento in poi al narratore non sarà più possibile credere alla leggibilità del reale e alla liceità di tradurlo in leggibili ombre. Non resta che utilizzare la scrittura nelle sue basse virtù analgesiche e terapeutiche, rinunziando all'ambizione della mimesi creativa. Non lo specchio condotto a spasso per il corso, ma una compressa, un placebo da prendere dopo i pasti. rali storie della letteratura e del gusto, da accumulazioni impreviste di concetti a metateorie diffuse nello spazio e nel tempo. Da un lato, dunque, attenti scandagli sulle esperienze dei vari paesi: l'omologia tra l'antica letteratura medievale russa e il «realismo socialista» (Cesare G. De Michelis), l'intreccio tra dichiarazioni poetiche e pratiche scrittorie in Cervantes (Aldo Ruffinatto), il manifesto di un realismo «astratto» nel Capolavoro sconosciuto di Balzac (Omar Calabrese), la letteratura classica («uscire alle cinque non si addice a Medea», avverte prudentemente Gianna Petrone), le teoriche del teatro barocco (Michela Sacco); ma anche, meno tradizionalmente, la produzione «allucinatoria» del reale in una pratica paraletteraria come quella della critica teatrale (Renato Tomasino). Da un altro lato, la complessa elaborazione di categorie e modelli necessari alla costruzione del discorso realista, inteso come quel1' insieme di procedure narrative e stilistiche specifiche che danno andare alla corrida di Ignazio Sanchez? Va a prendere il tè, ma se fosse il tè del cappellaio matto o l'amaro tè del generale Yen? Voglio dire che basta un guizzo d'ironia combinatoria o una trouvaille fantastica per spaesare il lettore e conferire a quella sortita il blasone di un thrilling. Voglio dire che anche l'ordine più piatto può mutarsi in avventura, indovinello e nonsense, per sola virtù di linguaggio e che, viceversa, ogni caos può fingersi cosmo. In fondo, per chi si ricorda la disputa in Hyde Park fra il poliziotto e l'anarchico nel Giovedì di Chesterton, la ragione è di tutt'e due. Cioé, è incantevole e strabiliante che un viaggiatore fra Palermo e Messina incontri, per luogo, sulla scia delle riflessioni di Roland Barthes e Philippe Hamòn, ali'effetto di reale presente in diversa misura nella selva dei generi letterari e delle loro specie. S'è ripreso in tal modo quel «teorema di Valincour» che secondo la nota idea di Gérard Genette costituirebbe l'unica formula possibile del verosimile all'interno di una teoria funzionalista del racconto; se ne sono proposte alcune varianti e modifiche, sia sulla base di più corrette analisi di testi specifici (Ruffinatto), che in risposta ali'odierna esigenza di ancorare il vecchio strutturalismo del racconto ad una più ampia prospettiva pragmatica (Gianfranco Marrone). Ma, soprattutto, s'è cercato di affrontare alla radice il problema, andando a cercare quegli elementi concreti dei testi che, alla maniera di Peirce o della logica delle descrizioni definite, fungono da indicatori di una realtà esterna, di un altrove del testo, non importa se referenziale o fantastico (Marcello La Matina). Di qui la nozione di «indici figuun punto o una virgola o un punto interrogativo. O un refuso. O uno spazio bianco. Se esiste, come non è del tutto da escludere, non per ciò diventa più verosimile. Cioé la Sua esistenza e la Sùa verosimiglianza non sono necessariamente dipendenti e connesse. La vita stessa, dicevo or ora, è improbabile, un sogno. Eppure, a quanto pare, esiste. Allora un'arte che volesse rappresentarla con fedeltà dovrebbe possedere gli stessi caratteri dell'implausibile e dello scandalo. Come dire, paradossalmente, che l'arte più realistica sarebbe quella più tendenziosa e fantastica. «Sii realista, menti» consigliava Stanislao Lec in uno di quei suoi deliziosi Pensieri spettinati. Del resto il --------------------. raan ecor Mensile del cibo e delle tecniche di vita materiale 48 pagine a colori, Lire5.000 Abbonamento per un anno (11 numeri) Lire 50.000 Inviare l'importo a Cooperativa Intrapresa Q uel mio eroe ha, beninteso, letto Paul Valéry. A pagina 83 cita perfino la marchesa alla cui insegna è nato questo convegno: «Scrivo inizi di libri che non scriverò. Rumino attacchi da Hellzapoppin', ghiribizzi da disperato: 'Alle cinque della sera la marchesa uscì con Ignazio' ecc.» Cosa vuol dire con ciò? Egli pensa, e io penso con lui, che chiedersi se la marchesa possa o non possa uscire è un falso problema. Permetterle di uscire non significa, difatti, legittimare l'intreccio nelle sue scansioni canoniche. In realtà quella frase, come qualunque altro enunciato evenemenziale, può costituire un incipit vertiginoso. La porta che la marchesa apre è uno spiraglio sull'infinito delle più impensate virtualità. La marchesa esce, ma innanzi tutto il marchese lo sa? E se fosse uscita nuda come Lady Godiva? Esce alle cinque, ma se fossero las cinco de la tarde e lei uscisse per Via Caposile 2, 20137 Milano Conto Corrente Postale 15431208 Edizioni Intrapresa esempio, la stazione di Viterbo, ma è altrettanto se non più strabiliante che fra Palermo e Messina ogni volta spunti infallibilmente la stazione di Cefalù. «Il caos» ho letto e non ~o dove, «era un ordine che la creazione ha turbato». Ebbene, e se l'arte fosse la nostalgia di quel caos? Allo stesso modo è inutile opporre la verità della vita alla finzione dell'arte, quando la stessa vita non cessa d'apparire implausibile, inverosimile, scandalosa. Qui tocco un punto che non è più semiologico o retorico ma religioso, o comunque metà phiisikà. Forse a questo convegno bisognava invitare anche un teologo. Poiché, fino a quando non sapremo, e non lo sapremo mai, se Dio esiste o no, se la creazione è regola o caso, salute o metastasi, non serve negare o concedere alla marchesa il permesso di visitarla. Io certe volte penso a Dio sub specie typographica e non so decidere se sia principio di Popper sulla falsificabilità del reale come criterio di giudizio della sua attendibilità, non potrebbe applicarsi alla letteratura? i avvio a concludere. Sto allineando domande e non M dò risposte. Tutto il contrario di quello che dovrei, come teste. Dicevo all'inizio che ogni scrittura nasce da un patto fra autore e lettore. Con norme, divieti e penalità, come in un gioco dell'Oca o in una carta del Tenero. Un patto che comporta una scherma di persuasione, dove l'autore funge da illusionista e il lettore da incredulo consenziente. Si attua, cioé, .una circonvenzione di capace, alla quale la vittima collabora scientemente e il cui esito è una forma di abdicazione amorosa. Questa scherma ha avuto durante i secoli una lunga storia. Un tempo l'arte era per definizione menrali» proposta da Gian Paolo Caprettini, intesi come quei «dettagli» del tessuto narrativo che si rivelano come gli elementi di una grammatica dell'epoca e che prefigurano, agli inizi del racconto, il senso dell'intera narrazione. La focalizzazione di queste unità narrative, riconosciute da Caprettini nelle Metamorfosi di Apuleio, produrrebbe tra l'altro due esiti· non indifferenti: in primo luogo, superando la narratologia strutturalista di prima generazione, una nuova considerazione (etica oltre che scientifica) del personaggio o, più in generale, .degli elementi antropomorfici presenti necessariamente nella letteraturadi tutti i tempi; e poi, last but not least, un nuovo passo per il superamento del divario tra le due impostazioni antitetiche de~'odierna semiotica: /'indice, si sa, è termine peirceano, e la figuratività rimanda direttamente ad Algirdas J. Greimas. Gianfranco Marrone zogna e nessuno si scandalizzava. Un albero sulla scena scespiriana valeva per una foresta e, a parte il caso degli innocenti che dalla platea sparavano contro Gana di Maganza o Otello, generalmente l'utente accettava ogni convenzione e, senza crederci, beveva tutto: la testimonianza oculare e l'onniscienza del narratore, gli a-parte, la sicumera di Balzac nei suoi giudizi e la sospettabilità di ciascun personaggio nei gialli di Agatha Christie ... Ebbene, oggi quel patto s'è rotto. Il lettore non dice più, per ripetere una distinzione di Vittorini: «Che bello, è proprio così!», ma dice «Che bello, non avrei mai supposto che fosse così!». Non vuole, cioé, essere rassicurato, ma sorpreso e confuso. Il reato di verosimiglianza viene perdonato solo a condizione che s'accompagni a un valore aggiunto di meraviglia e d'incantesimo. Si è scoperto il fascino delle omissioni, delle vaghezze, delle attese, delle dilazioni; si stimolano le domande e gli orizzonti d'attesa e di desiderio. Oggi piacciono le verità in maschera e le menzogne ironiche, per il ventaglio sterminato di possibili che la maschera e l'ironia presentano in confronto con la povertà univoca della verità. È proprio così nuovo, questo gioco? Io voglio solo ricordare che l'arte è cominciata con una mimesi apotropaica: il bisonte d'Altamira, con cui i cavernicoli volevano esorcizzare il reale, copiandolo. Forse è qui che bisogna fermarsi. Giocando col motto vichiano del verum ipsum factum, vorrei concludere che nell'arte verum et falsum convertuntur, si convertono l'uno nell'altro e cercano insieme di confondere quell'Ercole al bivio ch'è lo scrittore. Al quale resta tuttavia la risorsa salvificadella parola, una stupefatta e celeste colomba che vola sopra il diluvio di tutte le fedi. Poiché è la parola, se mi è consentito il bisticcio, che avrà l'ultima parola. Periremo con essa o ci salveremo con essa. I fatti sono stupidi, veri o falsi che siano. E i colpi di scena delle parole valgono più dei colpi di scena dei fatti. Questo io penso. E so che vi sono scrittori ~ tanto più degni di me che legittima- ....., mente si sentono portavoce del -~ mondo e legislatori e testimoni del- ~ ~ la collettività. Cl() Quanto a me io mi sento solo un testimonio reticente o falso di me. Forse come l'abate Velia nel Con- ~ t! !:! ~ siglio d'Egitto di Sciascia, dove si 1 narra l'arabica impostura, io non ~ faccio che tradurre da una lingua -8 :.::: che fingo di conoscere e non cono- ~ sco. Una lingua che nel mio caso, ] se posso finire con una parola pate- ~ tica, è il mio cuore. ~
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