Alfabeta - anno VIII - n. 80 - gennaio 1986

....... :::: <:::S i:! -~ ~ ~ ....., .9 <:::S i:! i:! riscono credenza assoluta al fatto, totale credibilità a ciò che si fa, a ciò che si vede, e disprezzano ciò che si può dire apparenza, il gioco delle appàrenze: un volto non inganna, un comportamento non inganna, un processo scientifico non inganna, niente inganna, nulla è ambivalente o mascherato - e in fondo è la verità: nulla inganna, non c'è menzogna, non c'è che simulazione che è appunto la fatticità del fatto. È in questo senso che gli americani sono una società utopica, per la loro religione del fatto compiuto, per l'ingenuità delle loro deduzioni, per l'assoluta negazione del genio maligno delle cose. Bisogna essere utopisti per pensare che in un ordine umano, qualunque esso sia, le cose possano essere così ingenue e innocenti, anche in assenza dell'uomo le cose non avrebbero questa genuinità. È un po' la fine dei tempi che marca questa società così fiduciosa, così conciliante, visto che le origini (le società primitive, le eresie, molte religioni) sono marcate dal disaccordo, da una assoluta diffidenza verso la realtà, dalla superstizione, dalla credenza in una volontà, spesso maligna, superiore all'ordine delle cose, e dall'abduzione di questa volontà a forza di magia, dalla credenza nella superpotenza delle apparenze. Qui nessun disaccordo, nessun sospetto, il re è nudo, i fatti sono evidenti. Gli americani, è noto, sono affascinati dagli orientali proprio perché in essi vedono questo machiavellismo profondo, questa assenza di verità che li spaventa e li attrae. e osì tutto ciò che la filosofia dei Lumi aveva immaginato in campo sociale e politico, e che in Europa si è eroicamente giocato e pateticamente distrutto sotto il segno della Rivoluzione e del terrore, è andato a realizzarsi oltre Atlantico in modo semplice ed empirico (utopia della.ricchezza, del diritto, della libertà, del contratto sociale); così, in tempi più recenti, tutto ciò su cui abbiamo sognato, filosoficamente, da più di un secolo, sotto iJ-segno radicale dell'anticultura, della sovversione del senso e dell'ordine simbolico, della distruzione della ragione e della fine della rappresentazione, tutta questa sorta di anti-utopia, di anti-illuminismo, che ha generato in Europa tante convulsioni teoriche e politiche, artistiche e storiche (ma senza mai concretarsi realmente, e il maggio '68 ne è l'ultimo e più chiaro esempio), tutto ciò si è realizzato là, in America, nel modo più semplice e più radicale. Vi si è realizzata l'utopia, vi si è realizzata l'anti-utopia dell'insensatezza, dell'extraterritorialità, della sparizione del senso e della rappresentazione, dell'indeterminatezza del soggetto e del linguaggio, della neutralizzazione di tutti i valori, ~o tutto ciò ch'è scritto Gesualdo Bufalino ~ I o devo innanzi tutto confessare ~ un triplice disagio: primo, peri:: ché sarò costretto a leggere il S mio intervento per cautelarmi con- ~ ~ tro l'incontinenza verbale che mi è ~ propria e che l'argomento stimole- .9 rebbe; secondo, perché mi sento ~ un partecipante anomalo. Io non ] sono un critico in servizio, ma un ~ lettore di ventura. Amo tutto ciò ~ ch'è scritto, dalla Bibbia all'elenco della morte della cultura. L'America realizza tutto, e lo fa in modo empirico e selvatico. Noi non facciamo che sognare di questo e di quello, non facciamo che rimandare, ma l'America trae le conseguenze logiche, pragmatiche, di tutto ciò che è possibile concepire; in questo senso è ingenua e primitiva, non conosce l'ironia del concetto, l'ironia della seduzione, non ironizza sul futuro o sul destino, ma concretizza, opera, materializza. Alla radicalità utopica oppone la radicalità empirica - e ciò mensione geografica e mentale dell'utopia. Ma allora è questa un'utopia realizzata, è questa una rivoluzione riuscita? Sì è questa! Cosa credete che sia una rivoluzione «riuscita»? Il paradiso. Santa Barbara è un paradiso, Disneyland è un paradiso, gli Stati Uniti sono un paradiso. Il paradiso è quel che è, magari monotono o superficiale, eventualmente funebre. Ma è il paradiso. E non ce ne sono altri. Se voi accettate di trarre le conse- .... -- ........... ,., : / , -~./ •• , --.. ~ ,,. • -.✓ • • .. ., - --- ,.._ . I .. , che sfugge al nostro sguardo, perduti nei nostri sogni infantili e storici, è che questo empirismo è la giusta, la sola utopia, e che l'America è la sola a concretizzarla drammaticamente. Noi filosofeggiamo sulla fine di un mucchio di cose (della filosofia in particolare), ma è laggiù che essa sta finendo, è laggiù che non c'è più il territorio (ma al suo posto uno.spazio prodigioso), è laggiù che il reale e l'immaginario stanno finendo (consegnando ogni spazio alla simulazione), è dunque laggiù che bisogna andare per vedere la fine ideale della nostra cultura. Lo stile di vita americano, che noi giudichiamo ingenuo e incolto, o insignificante e culturalmente nullo, ci darà la tavola analitica completa della fine dei nostri valori, qui vanamente profetizzata, con l'ampiezza conferitagli dalla di- .-,,,, ,,,.,,..7.,. .•.,l _ ,~--.// • ~- --, 1 ___ • )• ~~ ,, ' .' ... - "'!· .• - ~--;-p_.:, .• . -"'~ -~!.- guenze dei vostri sogni (non solamente di quelli politici o sentimentali, ma anche dei sogni teorici e culturali, o radicalmente anti-culturali) allora dovete considerare l'America con sincero entusiasmo, oggi e domani, lo stesso sincero entusiasmo delle generazioni che hanno scoperto il Nuovo Mondo, quello stesso degli americani per la propria genuinità, per il proprio successo, la propria barbarie e la propria potenza. Altrimenti non ci capirete niente, e non capirete niente della vostra storia. L'Europa non può più comprendersi partendo da se stessa. Gli Stati Uniti sono più misteriosi: il mistero della realtà americana oltrepassa le nostre finzioni e le_.nostrepossibilità d'interpretazione. È in fondo il mistero di una società mitica, cioè primitiva, che non si cura né di storia né di nostalgia. È il mistero di una società senza rimpianti che in fondo non cerca di darsi un senso o un'identità. Ecco la sua amoralità, la sua oscenità primitiva, ed ecco ciò che ci affascina, costretti nella nostra storia di cui siamo ormai • 1H)ftlO P1At,1"II ~ f9lù stanchi (è d'altronde un segno di. debolezza, d'anacronismo intellettuale, cercare, come si vede spesso da noi oggi, di ricostruirsi una storia). Una cultura, che non si compiace, che non si occupa né di finalità trascendenti né di estetica e che ciò malgrado, o meglio a causa di ciò, inventa la sola grande verticalità moderna nei suoi edifici, stupefacenti e grandiosi monumenti all'ordine verticale in cui non c'è obbedienza alla legge della trascendenza, architettura prodigiosa che non obbedisce alle leggi dell'estetica, che nella sua ultramodernità conserva qualcosa di non speculativo, di primitivo e di selvaggio - una cultura, o un'incultura, come questa è per noi un mistero. Palermo/Bufalino telefonico, ma sono incapace diandare al di là dei primi dati sensibili e di cavarne un sistema e una gerarchia di valori. Anche come scrittore, io mi sento di complemento, prestato dalla vita alla letteratura e ansioso di tornare alla condizione privata. Infine, perché dovrò autocitarmi, ricorrendo a un mio testo precedente (Argo il cieco, Sellerio, 1984) che per singolare coincidenza si colloca proprio nel cuore del nostro dibattito. Si tratta di una pagina di romanzo, dove l'eroe è appunto un romanziere alle prese con l'inverosimiglianza del mondo e con la difficoltà tecnica e morale di rappresentarla: un Argo dai cento occhi, onnisciente e onniveggente, che ha perduto la vista e la scienza. Questo testo io intendo leggervi appunto (ci vorrà un minuto). Non senza vergogna e solo perché mi serve da corpus vile, per poterne trarre spunto a ragionamenti più generali. Del resto io sono a questo microfono in qualità di testimonio, non di giudice. Un testimonio che viene dal fronte e riferisce a un consesso di generali, per non dire a una corte marziale. Un soldato ferito e sporco di terra al quale non si può chiedere altro che l'esperienza del suo spicchio di trincea. Ma ecco la mia paginetta. Con una premessa informativa: il libro si articola su 'clue piani, uno dei quali rende omaggio fra commozione e ironia alla narrativa tradizionale, giungendo al vezzo di premettere ai capitoli titoletti e sommari, come nel Settecento; l'altro consiste in capitoli bis, dove l'autore riflette sull'operazione stessa del lf intera America è, in questo senso, un deserto. Tutta la sua cultura è selvaggia: essa rinuncia all'intelletto e all'estetica per trascriversi interamente nella realtà. Questa impronta selvatica, questa genuinità, dipende certamente dall'iniziale decentramento verso terre vergini, ma dipende senza dubbio anche dall'influsso, non desiderato, della cultura indiana che essa ha distrutto. ('indiano morto resta il misterioso garante degli aspetti primitivi che convivono con la modernità delle immagini e delle tecniche. Non dimentichiamoci che gli indiani sono la sola realtà che gli americani hanno decisamente distrutto, o forse non hanno fatto che disperderne e disseminarne la forza. Così gli americani hanno penetrato, marcato, tagliato i deserti con le autostrade, ma contemporaneamente, per una misteriosa interazione, le loro città hanno assunto la forma e il colore del deserto. Essi non hanno distrutto lo spazio, ma l'hanno semplicemente reso infinito con la distruzione del suo centro (le loro città, non avendo più il centro, sono, in altezza o in larghezza, estensibili all'infinito). Ma soprattutto ciò che avvicina gli indiani primitivi agli americani moderni è che né l'una né l'altra società conosceva la distinzione, per noi fondamentale, tra natura e cultura. Nel cosmo selvaggio della magia non c'è posto per l'universo naturale ma tutto vive, tutto significa, tutto è segno efficace. Non c'è trascendenza dell'uomo o del senso al funzionamento selvaggio, la cultura è tutto o niente, come si preferisce. Questa indistinzione si lega paradossalmente alla massima simulazione alla massima deterritorializzazione e sofisticazione tecnica, non c'è più un universo naturale e non si potrà più distinguere tra un deserto e una metropoli. Si potrebbe dire che gli indiani erano estremamente vicini alla natura e che gli americani se ne sono infinitamente allontanati, ma non sarebbe del tutto esatto: essi sono al margine di questa sottile dialettica della natura e di questa sottile idealità della cultura che noi conosciamo così bene - e ugualmente estranei all'una e all'altra. Del decentramento iniziale, il brutale transfert dell'immigrazione, resterà sempre, nella sfera politica, la struttura federale (un'esplosione controllata) - la centralità non si trasferisce, non più del territorio - ma al livello più basso dei costumi e della cultura resterà un decentramento insuperabile, un'eccentricità uguale a quella iniziale del Nuovo Mondo rispetto all'Europa. Traduzione dal francese di Pietro Raboni suo narrare. E parla così al lettore: «Dunque, lettore, lasciami camminare così, spingendo avanti il mio corpo a caso, questo juke-box di ricordi programmato a disubbidire. E non aspettarti da me niente che somigli a quaiunque lettura ti sia mai piaciuta finora. Niente il romanzo violino o piffero, frottola di Tusitala, specchio portato a spasso per il Corso, specchio d'Alice, speculum in aenigmate; niente il romanzo pipata d'oppio, menzogna bella, annunciazione dell'angelo, solitario di Sant'Elena, foglia

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