Alfabeta - anno VIII - n. 80 - gennaio 1986

Giornale dei giornali LagraQ,dt,Wc~n!flazion P uò sembrare strano, forse stravagante, parlare di deflazione al lettore italiano, abitatore di un'economia in cui l'inflazione marcia ancora a ritmi del1'8% e passa, non troppo lontano da quell'inflazione a due cifre che fu caratteristica delle economie occidentali negli anni Settanta. Ep- - pure nell'ambito internazionale in cui galleggia la penisola la deflazione è già cominciata, e non da oggi. Qualcuno preferisce la denominazione più casta e cauta «disinflazione». Evitiamo per il momento la disputa nominalistica. Si prenda l'ultima, preziosa paginetta del settimanale The Economist ( data in copertina 30 novembre-5 dicembre), dove troviamo i più importanti indicatori economici dei maggiori paesi industrializzati. Si vedrà che alla voce «prezzi all'ingrosso» gli indici relativi agli ultimi tre mesi, confrontati con i tre mesi precedenti, portano il segno meno per quasi tutti i paesi elencati (Italia inclusa, anche se si tratta di un modesto - 0,2%). Se si opera un confronto con lo stesso periodo dell'anno precedente (confronto forse più «sicuro» statisticamente) si vedrà che gli incrementi sono tenui: in due casi (Giappone, Belgio) troviamo cifre precedute dal segno meno. Un segno che, nel caso della Germania federale e del Giappone, cominciamo a vedere addirittura nella colonnina dei prezzi al consumo (ultimo trimestre su trimestre precedente). in settembre (ultimo dato disponiAnche l'inesperto non può che bile) una diminuzione dei prezzi ricavare da tali dati l'impressione del 2,9% rispetto allo stesso mese che, nella maggior parte delle eco- dell'anno precedente. Ciò che è venomie occidentali, i prezzi al con- ro per l'Italia è vero a maggior rasumo e ancor più quelli all'ingrosso gione per l'insieme dell'economia· nel corso del 1985 abbiano cessato mondiale. La già citata paginetta di crescere (o siano cresciuti quasi dell' Economist ci informa pure impercettibilmente), con una ten- che, da un anno a questa parte, denza a diminuire. l'indice internazionale delle mateI dati non dicono tutta la storia. rie prime («commodity price inQuando diminuiscono i prezzi al- dex») denominato in Sdr (Diritti l'ingrosso o addirittura quelli al speciali di prelievo, una moneta di •------------r-------~ : gennaio: : :libreriantelligente! : Unserviziomigliore, : • unascelta 1 :. più accurata • ~--------------------J consumo nel loro insieme, allora conto coshtmta da un «paniere» vuol dire che il fuoco della defla- delle maggiori valute) è sceso addizione ha gi~ raggiunto ogni settore rittura dell'll,9%. dell'economia. Ma l'incendio della The Economist (numero citato) deflazione erompe in alcune zone, è uscito con la copertina Poor prima di propagarsi ad altri settori, man's gift - Cheaper commodities, ad altri paesi, ecc. Si prenda Mon- faster growth, cioè: «Il regalo del do Economico (numero datato 16 povero- Materie prime meno care, dicembre) e si legga a pagina 6 la sviluppo più veloce». L'immagine tabellina relativa a prezzi e costi di della copertina raffigura una mano produzione. Si vedrà che alla voce «di colore» che lascia cadere in ma- «materie prime aventi mercato in- ni «bianche» (e inanellate) un sacternazionale» l'Italia ha registrato chetto con 65 miliardi di dollari. Indice della comunicazione L'editoriale di apertura dà la seguente spiegazione. Negli ultimi dodici mesi il prezzo mondiale delle materie prime alimentari (calcolato in Sdr, vedi sopra) è sceso del 10%, il prezzo dei metalli è sceso del 15%, quello del petrolio del 5,5%. Secondo The Economist, si può stimare che ciò si sia tradotto per i consumatori dei paesi industrializzati in un risparmio netto di circa 65 miliardi di dollari. È utile sapere che quella cifra corrisponde, sempre secondo i calcoli dell'autorevole settimanale inglese, allo 0,7% del prodotto lordo dei paesi dell'Ocse, cioè dei paesi «ricchi». Dal momento che l'attuale tasso di sviluppo delle economie dell'Ocse è attorno al 3%, The Economist ritiene che circa un quarto di questo sviluppo sia direttamente attribuibile alla diminuzione del costo delle materie prime, e che, in effetti, il vantaggio sia ancora maggiore se si considerano gli effetti «di secondo grado» (minori incrementi salariali, tassi di interesse più bassi) indotti dalla «disinflazione» delle materie prime. Questo è dunque il «regalo del povero». Dove il «povero» è un'immagine che richiama i paesi del Terzo Mondo, ma non necessariamente. Gli agricoltori americani, per esempio, pesantemente colpiti dal ribasso dei prezzi agricoli, sono fra i «donatori». Ma, forse, il punto importante è altrove. In quel che i paesi ricchi se ne fanno di questo «regalo». Lo usano per rilanciare lo sviluppo economico? Sembrerebbe di no, in genere. Lo usano per combattere l'inflazione. Ma l'inflazione, osserva The Economist, non c'è più. Il «dono del povero» rischia di essere usato per alimentare l'incendio della deflazione, trasmettendolo dalle materie prime ai prodotti industriali, ai servizi, all'economia nel suo insieme. «Alcuni governi dell'Ocse - scrive il settimanale - sono tuttora così preoccupati dai problemi di ieri da pensare che le spirali salari-prezzi conducano solo al cielo». Le spirali portano anche a terra «che è il giusto posto dove seppellire l'inflazione». The Economist, a questo punto, ricorda i dati da cui eravamo partiti anche noi: negli ultimi tre mesi dieci paesi dell'Ocse hanno fatto registrare un aumento, su base annua, dei prezzi al consumo inferiore al 3%; in Germania e Giappone i prezzi sono scesi. Fra un anno, secondo il settimanale, i paesi Ocse raggiungeranno un tasso medio di inflazione del 2%, il più basso dal 1961; ma nel 1961 il tasso di disoccupazione era al di sotto del 5%, oggi è fra 1'8e il 9%. I dati non dicono mai tutto, anche perché un dato tira Faltro. Per esempio, accanto ai 65 miliardi di dollari «regalati dal povero» in termini di diminuzione delle materie prime, occorrerebbe ricordare che quest'anno i paesi debitori hanno Economdiaell'informazione D ieci anni fa, ce lo ricordiamo ancora benissimo, parlando di «economia dell'informazione» si rischiavano solo malintesi e facce interrogative. Forse oggi i più fanno solo finta di. capire, e i termini fondamentali restano tuttora poco chiari, anche per i meno. Ma il progresso è indubbio. Nel sommario di presentazione di uno dei suoi ottimi surveys, dedicato alle telecomunicazioni e al loro sviluppo convergente con il trattamento dell'informazione, con l'automazione, eccetera, The Economist ricorda in breve che cosa è accaduto: «Vent'anni fa le telecomunicazioni costituivano una delle industrie più noiose del mondo. L'economia e la tecnologia l'hanno trasformata in una dellepiù eccitanti. È divenuta la chiave del più grande cambiamento industriale dei prossimi decenni: l'avviarsi del mondo sviluppato verso un'economia dell'informazione». Com'è noto, la lingua inglese ha due termini per designareciò che in italiano, se si evitano le perifrasi, dobbiamo designare con uno solo, «economia». Economy indicaun sistema di attivitàe di scambi, econornics la disciplina o la teoria che si occupa di quel sistema. Così l'espressione «economia dell'informazione» conserva in italiano una certa ambiguità. Poco male, basta intendersi,e a voltepuò servireaprenderedue piccioni con unafava. Una volta tanto possiamo segnalare che un giornale italiano, nel caso Mondo Economico, hapubblicato, in argomento, un suo survey, intitolato lndex - Archivio Critico dell'Informazione appunto «Economia dell'informazione», che non ha molto da invidiare ad analoghi «rapporti»monografici della stampa straniera più qualificata. Sia il rapporto dell'Economist che quello di Mondo Economico sono ricchi di dati e notizie, utili e ispiratori non solo per lo specialista. Non intendiamo certo farne il riassunto. Ci atterremo ai «termini fondamentali» cui accennavamo all'inizio. Da questo punto di vista, è assai consigliabile l'articolo di Marco Gambaro che apre il dossier del settimanale italiano, dal titolo «L'informazione è una merce ma ha un mercato speciale». Gambaro ha fatto una paziente opera di sintesi del lavoro svolto da diverse scuole di economisti nel campo del/'economia dell'informazione. La prima scuola è quella che si è occupata di definire e di quantificare l'economia dell'informazione, intesa questa volta come sistema o sottosistema dell'attività produttiva e distributiva. Ci si riferisce perciò al lavoro di Fritz Mach/up (i suoi primi risultati risalgono al 1962) e più tardi di Mare Porat. Com'è facile comprendere, per quantificare l'economia dell'informazione occorre qualche criterio per classificare le attività che si ritengono attinenti all'informazione, e di conseguenza i lavoratori che si possono classificare come «lavoratori dell'informazione» (talvolta designati anche come «lavoratori della conoscenza»). I risultati ìlella quantificazione variano, come ci si può immaginare, in funzione delle definizioni e delle classificazioni adottate. I problemi di definizione del/'oggetto rimbalzano su quelli di definizione della disciplina che lo studia Gambaro ricorda la «definizione classica»dell'economista inglese Lamberton: «L'economia dell'informazione analizza i processi con i quali l'informazione viene prodotta, diffusa, immagazzinata e utilizzata»; ma lo stesso Gambaro ritiene opportuno integrarla con la definizione data da Milgrom, secondo cui l'economia dell'informazione studia le situazioni in cui diversi agenti economici che interagiscono tra loro hanno accesso a informazioni qualitativamente e quantitativamente differenti. Questa seconda definizione, nota Gambaro, ha il vantaggiodi agganciarsimeglio alle categorie di incertezza e di scarsità che hanno una tradizione più consolidata nella teoria economica. Pe.raltro, tutte queste definizioni assumono come data la nozione di informazione. Purtroppo non è così pacifica, come del resto non lo è neppure in numerose altre scienze che hanno ritenuto opportuno utilizzarla sempre più come termine esplicativo di fenomeni assai diversi. Com'è noto, la categoria di informazione ha avuto un'auge crescente a partire dalla teoria matematica formulata da Shannon negli anni Quaranta, per risolvere in terminL generali numerosi problemi specifici posti dalla gestione delle reti di telecomunicazione. La teoria di Shannon è alla base di impressionanti sviluppi tecnologici e scientifici, ma anche (non certo per colpa di Shannon) di altrettanto impressionanti equivoci concettuali. L'«informazione» che la teoria di Shannon matematizza ha poco a che vedere con la nozione corrente di «informazione» e può essere applicata ad altri campi solo sulla base di assunzioni assai strette; del resto lo stesso Shannon aveva già messo in guardia da possibili confusioni al riguardo. Ciò non toglie che, come ricorda Gambaro, Mach/up avverta ancora il bisogno, in un saggio del 1983, di sottolineare che Shannon non definisce il concetto·di informazione e che la sua teoria non ha nulla a che fare col significato dell'informazione, neanche in senso metaforico. D'altra parte, anche Arrow aveva fatto notare che nella teoria di Shannon il valore dell'informazione - ovviamente centrale in ogni teoria economica al riguardo - non ha alcun ruolo. Recentemente, soprattutto nel- ['ambito delle scienze sociali, è divenuta corrente, in luogo della «definizione» derivata dalla teoria matematica delle comunicazioni, quella di Bateson, secondo la quale «l'informazione è una differenza che genera una differenza». La definizione di Bateson ha i suoi meriti «filosofici», che non staremo qui a discutere (per esempio fa a meno di una nozione probabilistica derivata dalla termodinamica che reca non poche difficoltà quando si cerchi di applicarla alla nozione invalsa nell'ambito delle attività umane). Tuttavia anche questa definizione non sembra suscettibile di applicazioni fertili ed univoche nell'ambito di discipline come l'economia. Questi pochi cenni bastano appena a tratteggiarele difficoltà metodologiche in cui si imbatte la teoria economica dell'informazione. Gambaro ne richiama altre. Per esempio, ad un livellò meno «fondamentale», però comunque di primaria importanza dal punto di vista teorico, quella riguardante il costo marginale di produzione dell'informazione, spesso molto basso e tendente a zero, in contrasto con la categoria della scarsità su cui si fonda la teoria classica della merce; nè l'approccio neoclassico basato sull'utilità marginale sembra promettere molto di più, se non altro perché l'acquirente-utilizzatore di informazione non «conosce» l'informazione da acquistare e quindi non può valutarne l'utilità, se non in via congetturale. Per finire, l'avvento dei sistemi elettronici di pagamento ha riproposto in termini pratici un'equazione danaro=informazione che risolleva mai sedati problemi di teoria monetaria. Il «maggior mutamento industriale dei prossimi decenni», forse, è ancora alla ricerca di una teoria vera e propria. The world of the line - Telecommunications: a survey The Economist 23-29 novembre 1985, p. 40 Economia dell'informazione - Rapporto mese Mondo Economico, 2 dicembre 1985, pp. 43-73.

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