John R. Searle Della Intenzione Milano, Bompiani, 1985 pp. 283, lire 35.000. John R. Searle «Nomi propri» ora in La struttura logica del linguaggio Milano, Bompiani, 1973 pp. 573, lire 18.000 Stuart Kaminsky Mezzanotte di fuoco «Il giallo Mondadori» n. 1741 Milano, Mondadori, 1982 pp. 127, lire 1.500 O rmai più di un anno fa si è tenuta all'Università Statale di Milano una tavola rotonda sull'abduzione, che è quanto dire la logica della scoperta scientifica secondo Charles Peirce. In quella occasione il sottoscritto ascoltò, tra gli altri, Umberto Eco che teneva una relazione sulla teoria della definizione in Aristotele. Le varie teorie espreSSJ!allora dagli oratori (ora pubblicate sulla rivista di filosofia Il Protagora, n. 6, 1984, interamente dedicato alla ragione abduttiva) vertevano tutte sul concetto di tentatività e di rischio fortemente presente nell'inferenza abduttiva, in modo da far risultare ben chiaro che, sia nella ricerca scientifica contemporanea, sia nelle grandi scoperte e nelle grandi filosofie del passato, era sempre presente un fattore di rischio, magari ben dissimulato o non immediatamente apparente, il quale accompagnava la soluzione di un enigma, o la scoperta di una legge, o la sistematizzazione di una visione del mondo. Aristotele andò oltre. Egli non solo ritenne «rischioso» il processo della scoperta, ma anche la fase precedente, quella della definizione del .problema che serve a raggiungere la scoperta o a risolvere l'enigma. Il monito di Aristotele era: non incorriamo in errori, la definizione non è una cosa certa né tantomeno una dimostrazione; nella definizione si dà per certo ciò che poi le conclusioni delle inferenze adottate al termine del procedimento di ricerca daranno effettivamente per provato. Nel riportare queste riflessioni di Aristotele, Eco si rifaceva alla Historia animalium in cui lo Stagirita affermava che tutti i ruminanti, animali con quattro stomaci, avevano le corna. Una curiosa teoria di definizioni (curiosa ovviamente per noi ora, dall'alto di secoli di ricerca tassonomica, e di innumerevoli tentativi di classificazione) lo aveva condotto a credere a questa universale affermativa. Di fronte al cammello, però, a nulla valse il reticolo definitorio di Aristotele. Il cammello rumina, ha quattro stomaci, ma non si è mai degnato di avere corna. La pratica della ricerca aveva c:::s vanificato la teoria definitoria. Di- .5 ~ ce Diihring in proposito che in ef- ~ fetti in Aristotele il punto più de- ~ bole della esposizione è la ricerca ·°' • ...... della definizione. Ma è strano co- .9 i:::s me Aristotele sia stato catturato i:: [ nelle maglie di una trappola epistemologica che lui stesso si era preoc- ~ cupato di denunciare. ~ L'interesse che riveste per me la ~ trappola epistemologica in cui è in- l cappato il filosofo greco è mutuato ~ da alcune ricerche che da un po' di Nominare tempo in qua sto conducendo sui testi, e in particolare sui testi narrativi. Da qualche parte è stato scritto che nominare bene i personaggi di un romanzo, attillare perfettamente il nome alla psicologia e alla particolare struttura narrativa che essi metteranno in atto (specialmente se si tratta di personaggio round, a tutto tondo e fertile, e non flat, piatto e narrativamente poco sorprendente, come avverte E.M. Forster) è già un buon passo verso una felice affabulazione. Nominare bene, quindi definire bene, un personaggio è già risolvere in parte un enigma o, meglio, è già costruire in parte una buona storia. Ma cerchiamo di vedere un po' più da vicino cosa significa dire che nominare è definire, e cosa significa affermare che la definizione è un rischio piuttosto che una certezza e, infine, cerchiamo di capire di quale tipo di rischio si sta discutendo. Rifacendosi a una tradizione logica ormai ponderosa, che ritrova in Frege uno dei suoi capostipiti, Searle si chiedeva, nel 1958, se un nome proprio poteva avere un senso. Dato infatti per certo che esso doveva per forza avere un riferiMauro Ferraresi mento pena l'impossibilità di poter denotare un oggetto particolare, si trattava ora di decidere se un nome proprio potesse anche descrivere l'oggetto a cui si riferiva, potesse in un certo modo raccontarlo,e quindi avere senso. In altri termini, se è vera l'equazione Satchmo=Louis Armstrong, cioè se è vero il riferimento, è altresì vero che tale equa-. zione può avere sensi diversi, uno per ogni componente dell'equazione, e non risultare così una banale Colpi demolitori asserzione analitica di identità? È altresì vero, cioè, che nomi propri aventi uguale riferimento possono avere sensi diversi? Se la risposta a queste domande è sì, allora l'analisi dei nomi propri è da considerarsi valida anche per i nomi in generale e per le descrizioni definite, nonché per le definizioni, tout court, che è quanto interessa in questa sede. I n merito, Searle afferma che le regole relative a un nome proprio debbono in qualche modo essere logicamente connesse con particolari caratteristiche dell'oggetto se non altro per la ragione che, perché l'oggetto abbia riferìmento, è necessario riferirsi a una qualche caratteristica dello stesso. E l'uso referenziale stesso dei nomi che presuppone che l'oggetto a cui cercano di riferirsi abbia certe caratteristiche. Non importa che queste siano chiarite esattamente, anzi la felicità pragmatica del nome proprio consiste nel fatto che «essi ci permettono di riferirci pubblicamente agli oggetti senza essere costretti a porci dei problemi e ad accordarci su quali precise caratteristiche descrittive costituiscono l'identità dell'oggetto» (Searle, Nomi propri, op. cit. p. 256). Per queste ragioni quando io nomino un calciatore /Rombo di Tuono/ mi voglio così riferire a un oggetto (in senso filosofico naturalmente) che è lo stesso di quello definito dal nome proprio /Gigi Riva/. Ma nel contempo, aggiungo altre descrizioni di quell'oggetto a quelle che già preesistevano, e suscito differenti stati d'animo in conseguenza del tipo di nome proprio che desidero usare per quel dato riferimento, per quel dato oggetto. Ecco allora in che modo il nome proprio potrebbe apparentarsi con il concetto di definizione così come era stato formulato da Aristotele. Entrambi vorrebbero essere punti fermi nel processo di comunicazione del pensiero e della ricerca, entrambi, invece, sono espedienti pragmatici, momenti del tessuto globale del pensiero, utili per chiarire le idee, fermare i contenuti o fondare piani semantici che servono per ulteriori ricerche o ulteriori processi di comunicazione. Entrambi, infine, hanno in sé, assieme a queste caratteristiche, una componente di rischio e di fallibilità che può vanificarli e sgretolarli, così come possono sgretolarsi anche le pietre delle fondamenta dei più maestosi edifici. Nei romanzi, e nei testi narrativi in generale, è ben presente questa funzione evocativa, denotativa e, nello stesso tempo rischiosa, del nome, tanto da creare risultati divertenti e paradossali (la stessa novella di Allais, Les Templiers, analizzata da Eco nel libro Lector in fabula e rivista in seguito da Bonfantini, in un articolo ora nel libro di autori vari Polifonie, potrebbe forse essere intesa come un uso un po' stravagante e arrischiato dei nomi propri). Uno degli autori che più si diverte a giocare con i nomi propri e con la funzione evocativa·che questi suscitano è indubbiamente l'autore di detective stories di origine russopolacca (che è pure sceneggiatore •di film di buona fattura quali Once upon a time in America, nonché docente alla Chicago University) Stuart Kaminsky. Che mi risulti, Kaminsky non ha eccessivi estimatori in Italia (uno dei primi fu Renato Giovannoli dalle colonne di Linus qualche anno fa). Eppure il suo stile a metà tra il cinema e la detective story ha momenti che appassionano. Vediamo di capire perché. La funzione evocativa dei nomi propri messa in campo da Kaminsky consiste nel creare una sorta di pastiche letterario, una confusione di mondi così da immettere all'interno di una freddissima Chicago, o lungo i viali dorati di Los Angeles, la richiesta di aiuto, ad esempio, di un signorile Gary Cooper che non vuole cedere al ricatto messo in piedi da un gruppo di mafiosi, di stampo little ltaly, riguardante la forzata partecipazione dell'attore al filmdi serie B Mezzanotte di fuoco. Ma nel libro vi è di più. A parte Cooper, c'è l'incontro del protagonista del giallo, Toby Peters private eye un po' sui generis, con lo scrittore Ernest Hemingway (in un capanno di caccia, naturalmente) ed anche una succosa scazzottata, un po' per scherzo un po' no, tra i due. L'improbabile che aleggia in questi racconti non infastidisce, anzi, contribuisce a creare un'aura di mistero, di lontananza e di mito che ben si adatta alla notorietà dei personaggi in gioco ed è comunque ben sorretta dalle conoscenze e dalle informazioni possedute dall'autore sull'universo cinematografico americano. L'intenzione, che è presente nell'autore, di riportarci in un'America alle soglie della seconda guerra mondiale, e di ricrearne lo spirito che v'allignava, è mutuata dal cinema e dalla nominazione di quei personaggi, attori e non, tutti comunque di stile cinematografico. E infatti l'immagine che ci perviene è quella di un'America vista attraverso un film, e non quella storicamente data. Ma questo non
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