Alfabeta - anno VII - n. 79 - dicembre 1985

Edda Squassabia Foresta con albero del Caffè Milano, Vangelista, 1985 pp. 278, lire 16.000 Felice Piemontese Da un'immensa distanza Brescia, Shakespeare & Company, 1985 pp. 113, lire 10.000 Simonetta Lanza Una tesi di laurea Milano, Corpo 10, 1985 pp. 96, lire 10.000 L a stagione letteraria non presenta rilevanti novità: ci sono scrittori in crescita, come ha scritto Barilli sull'ultimo Alfabeta: Celati, Tabucchi, Tondelli o Del Giudice col suo Atlante occidentale; altri che ritornano, dopo un silenzio più o meno lungo, Stefano D'Arrigo, Alcide Paolini. Il grosso libro di Aldo Busi, Vita standard di un rivenditore provvisorio di collant, ricalcato su modelli americani, mi lascia quanto meno perplesso ... Devo confessare che, dopo Palomar, di Calvino, nulla di ciò che è uscito, nel campo della narrativa, mi ha trovato, nella maggiore editoria, particolarmente interessato. I miei piaceri di lettore, gli stimoli alla riflessione critica, mi vengono da tutt'altra parte: da testi che, pubblicati da editori piccoli, per le attuali leggi del mercato librario finiscono per passare quasi inosservati. Eppure è proprio qui - si tratti di esordienti o no - che si svolge, si attua, ormai in· larga misura, quella fascinosa avventura che è la ricerca letteraria: nessun «capolavoro», forse, nessuna «scoperta sensazionale», come quelle che, reiterate, a ogni stagione ci annunzia la pubblicità del prodotto libro; ma tuttavia un procedere, un avanzare, nei reami della finzione e della lingua che è, in ultima analisi, ciò che lascia una traccia; dove si avverte, almeno, il gusto, il piacere, di scostarsi dalle autostrade per aprire, con l'accetta se occorre, se occorre con il bisturi, nuovi sentieri, nuove piste. Vorrei qui, a titolo di esemplificazione, soffermarmi su tre testi. narrativi recenti: due di esordienti e di donne, Edda Squassabia e Simonetta Lanza, l'altro di un uomo di lettere colto e spesso raffinato, che lavora da tempo un po' al di Tretestidi ricerca fuori dei «grandi giri», nel chiuso della sua Napoli: Felice Piemontese. Pur nella loro ovvia diversità, si tratta di libri che, in maniera più o meno diretta, si ricollegano a quella rottura - intellettuale e morale, per dirla con Gramsci - che ciò che va sotto il nome di '68 ha comunque, almeno a taluni livelli di coscienza, rappresentato. E, in comune, hanno anche la caratteristica di presentarsi apertamente come Bildungsromance, come romanzi di formazione spirituale e affettiva: una formazione che qui è comunque strettamente intrecciata con gli eventi della storia o della cronaca, _sinoalla crudezza della nota di pag. 47 di Una tesi di laurea: «Il riferimento è reale. Il giovane di cui si parla è Sergio Secci, una delle vittime della strage di Bologna (2 agosto 1980)». Infine, sul versante linguistico, Squassabia, Piemontese, Lanza si ricollegano, direttamente o indirettamente, alla sperimentazione degli ànni Sessanta, al Gruppo '63. Ma veniamo, sia pur brevemente, sui testi. Foresta con albero del Caffè si svolge in una città imprecisata, che potrebbe essere Milano, e tutto in una sera trascorsa in trattoria. Vi è una comprimaria che ascolta - e di rado interviene col sottofondo delle sue riflessioni - e una protagonista che parla e parla, di sé, di un suo viaggio al paesone di provincia da cui era fuggita adolescente, delle varie vicende di questi anni. Il libro attacca in presa diretta, con un trattino e la minuscola « - e quando si spalancò la porta ... », a sottolineare che il discorso è cominciato già da prima: è in un certo senso un discorso continuo, o meglio - quasi - lo spaccato di un discorso collettivo. Il finale, relativamente a sorpresa, vede la comprimaria, che sino a quel punto si era rappresen'- tata come figura di sicurezza e stabilità («l'immane distanza stellare che c'è tra gente come me, razionale e funzionale, che fa vela verso il futuro e gli sbandati irrazionali come lei col cervello a forma di frutteto di melarance, vedo finalmente i confini netti dell'Oceano della Follia circondato di solito filo spinato»), precipitare d'un tratto, colpita da licenziamento, nell'universo, essa stessa, degli «sbandati irrazionali», verso quella instabile realtà che ha appena Mario Spinella definito «Oceano della Follia»: e sarà lei, ribaltandone i tempi, a riferire di «questa storia scribacchiata su un quaderno in un baretto di tre metri per quattro bevendo un caffè sopra un giornale pieno di inserzioni nei giorni successivi». E la storia si dispiega anch'essa, dilatata dai suoi flashback, nello spazio tra un viaggio di andata e uno di ritorno, giacché la ragazza, esausta di una vita precaria e squattrinata, ha creduto, in seguito a una lettera («torna»), di poter trovare pace e sicurezza presso i genitori, nell'antico paese; ma non incontra che un padre invasato, riciclato da un boom precario e carnevalesco che ha ricoperto di cemento e di traffici la vagheggiata oasi. E non le rimane che fuggire di nuovo verso la città, la vita difficile, i ripieghi della miseria. Edda Squassabia si muove entro questa fabula innnestandovi sapientemente un intreccio tra passato e presente, tra momenti descrittivi e interventi riflessivi: ma lo fa - ed è questo che mi sembra costituire la non comune riuscita del romanzo - con una lingua apparentemente in presa diretta, parlata, mimetica; in realtà elaborata con rara sapienza espressiva (si potrebbe dire, al fondo, espressionista), con un realizzato godimento dei vocaboli, dei ritmi, della sintassi. Questo gusto, e questo impasto, linguistici, fanno sì che il materiale narrativo venga investito da un'ottica compiutamente ironica: che da un lato lo sdrammatizza (contro ogni tendenza al «realismo» di denunzia), dall'altro ne stringe i nodi in un fitto di episodi, di figure, di situazioni in ogni caso segnato da quella pietas che dell'ironia è gemella. Con grande godimento, occorre aggiungerlo, del lettore. L a presenza/distanza che caratterizza lo stile narrativo di Edda Squassabia è, se si vuole, ribaltata radicalmente nel testo di Felice Piemontese. Qui l'«immensa distanza» ribadita addirittura dal titolo e allusa dall'esergo di Bataille («... andare il più lontano possibile») è quella che si frappone fra il vuoto e lo straripante, tra la ripetitività e l'effervescenza imprevedibile e im~ prevista dell'inatteso, del possibile. Nel caso specifico- e per metafora - tra il '68 e il tempo che lo ha seguito. Anche il libro di Piemontese comincia con una e, «e alla fine»; una e minuscola che prelude alle sue cento pagine senza un'interpunzione, senza una maiuscola che non sia di nomi propri. Ciò perché, nella intensità dell'esperienza - e della resa linguistica - tutto si mescola e si interseca, su un piano costante di tensione conoscitiva ove le gerarchie degli eventi siano abolite. La J90litica,il sesso, i sentimenti, la cultura, gli incontri, si fondono in un fluido denso ma insieme scorrevole e veloce, ove il tempo si cancella (nessuna interpunzione!) e tutti i livelli settoriali di linguaggio vengono a costituirsi in un impasto omogeneo e pur rutilante. Nella breve presentazione che ho scritto per Piemontese (e mi scusi il lettore la lieve colpa deontologica di tornare, qui, a parlare di questo libro) il riferimento più immediato che mi sembrava dover sottolineare era a Joyce: a quello dell'Ulisse in particolare, ma con uno sguardo rivolto anche al Finnegans Wake sia pure infrangendo non tanto le norme del vocabolario quanto quelle della sintassi discorsiva. Qui l'obiettivo è di coinvolgere il lettore in un magma esistenziale, di scagliargli contro sempre nuovi oggetti di esperienza, schiacciati uno dentro l'altro, non ancora analiticamente selezionati. Non c'è tempo per questo; e anche dopo, se vi si ritorna, è solo per riscostruirli, per compattarli, in un blocco coeso e in pari tempo, più ancora che centrifugo, privo di un proprio centro - o di quell'illusione (paranoide?) che pone al centro un soggetto ordinatore, capace di selezionare, programmare, sollecitare gli accadimenti che lo investono. Di Piemontese ho davanti un altro testo, la cui data di pubblicazione è anteriore (1981) ma la cui stesura - tutto lo lascia pensare - è anteriore a Da un'immensa distanza: intorno a quelle macerie (Roma, Carte segrete). L'impaginato si presenta come una serie di fogli bianchi, ove solo in basso si sedimentano poche righe: quello, appunto, che rimane dalle macerie dell'esperienza. Continuazione ideale del «romanzo» precedente, a uno stadio di ulteriore decantazione che lascia sul fondo della storta scarse tracce vitali: il resto - il quotidiano, il bla bla di cui nel romanzo si parla - è silenzio. I I Corpo 10», la intelligente '' e coraggiosa editrice di Michelengelo Coviello, è giunta al dodicesimo volumetto: Una tesi di laurea, di Simonetta Lanza, romana, 33 anni. Qui la ricerca, l'invenzione, in luogo di essere linguistica o sintattica, utilizza largamente, in un testo/romanzo, le modalità strutturali di una sceneggiatura cinematografica. Vi si finge infatti la figura di un regista, Strauder, autore di poche opere raffinate e significative, intorno al quale la protagonista prepara la sua tesi di laurea. Riassunti di questi film, brani di dialoghi, movimenti di macchina , sono parte integrante del tessuto narrativo, che si sdipana in una continua simbiosi tra esplicitazione del lavoro intellettuale per la preparazione della tesi, squarci e atmosfere di vita domestica e studentesca, iniziazione affettiva e amorosa. Tempo interiore e piano dello studio, dello sforzo intellettuale vengono a costituire un tutt'uno, con una singolare resa mimetica, che ricorda, per taluni aspetti, pur differenziandosene, il primo libro di Daniele Del Giudice, }'«indagine» sulla vita di Bobi Baslen. Ma, ripetiamolo, mentre Baslen è un personaggio, umbratile sì, ma realmente vissuto, Strauder è mera invenzione, pretesto narrativo. E ciò sposta - siamo nel mondo· del cinema! - l'obiettivo del narratore da questo oggetto fittizio alle pieghe della soggettività, con un effetto di va e vieni, di distanziazione e di ricattura, in una duplicazione di piani, o dialogicità, ottenuta, in questo caso, attraverso i modi della costruzione e le modalità corrispondenti della scrittura. Se quindi si volesse, in maniera sintetica, caratterizzare la ricerca di questi tre scrittori, si potrebbe forse dire che, attraverso il loro incidere sul «modo di narrare», ottengono, variamente, l'effetto di frantumare la linearità del discorso comunicativo, in una sorta di implosione linguistica ove ciò che è messo in gioco è la discrasia tra tempo formalizzato e tempo interiore: segno di una modernità che si innesta nella grande corrente della letteratura del Novecento - da Proust, a Joyce, alla Woolf - saggiandone gli esiti e scavando nuovi, personali, itinerari.

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