' E in crisi, è in coma, è morto; si è annullato, ripreso, rigenerato come molti altri linguaggi dopo tante morti teorizzate a lungo: la fase che il cinema sta attraversando ha riproposto, e va riproponendo, divisioni di antica data tra pessimistie ottimisti, apocalittici e integrati, realisti e visionati. In realtà, proprio perché datati, questi schieramenti servono poco a capire il passaggio d'epoca nel quale ci troviamo, anche i pur cauti riferimenti all'avanguardia storica o alle avanguardie posteriori si possono fare solo considerando che gli adattamenti necessari non sono di poco conto. Gli aggiustamenti di tiro, rassicuranti perché collaudati, è meglio lascjarli ai riciclatori del già detto. Il passaggio d'epoca obbliga a muoversi in una zona di mezzo, in un terreno ad alto rischio geologico da cui occorre uscire per vie che non si incontrano. Prendiamo la causa di tutti i traumi, la televisione; gli affanni descrittivi e analitici dei rivolgimenti provocati ci hanno in fondo convinto che le grandi categorie rimesse in discussione e rivoltate sono quelle fondanti del mostrare e del raccontare: come sempre, come per tanti altri cambiamenti? Sì, a prima vista; no, a ben guardare, perché - qualcuno ce l'ha pur insegnato -l'estensione quantitativa di un fenomeno può tradursi, come si è tradotta, in una modifica di qualità. Poiché di questo si tratta, come è intuibile, le strategie del cinema di fronte al nuovo avversario vanno radicalizzate: nei momenti di trapasso i compromessi servono solo a conf~rmare l'esistente; e l'esistente è tutto televisivo. Si può allora guardare in faccia l'avversario oppure pensare prima a se stessi. Nel primo caso si osserva come mostra e racconta la tv e ·sicerca di assimilare; pensate a quanti film, oggi, assomiglianonel modo in cui sono fatti a sceneggiati o a telefilm. Si crede in questo modo o di catturare lo spettatore tirandolo fuori di casa, o di catturare il mezzo, perché sono già previste le pause per gli spot pubblicitari dell'auspicato passaggio televisivo. Se non è una resa è certamente qualcosa di simile. L'altra via è indubbiamente più complicata: la rigenerazione può avvenire partendo dalla considerazione della propria natura. Lo spettatore può non lasciarsi convincere subito o presto, non cambia abitudini d'un tratto, ma - ripeto - non si tratta di modifiche parziali della sitµazione. La vecchia parola d'ordine dei tempi lunghi (o non tanto brevi. ..) torna forse di attualità. Gli esempi, comunque, ci sono già ad incoraggiarci, e anche sintomi di saturazione da parte del pubblico per l'omogeneità dell'offerta televisiva. Togliamo di mezzo un equivoco: riconsiderare la propria natura, per il cinema, non significamascherare una nostalgia occulta per i ritorni, ribadire taluni iegami tra originalità e originarietà n.onvuol dire rispolverare consolazioni revivalistiche,piuttosto è accettare il rischio del recupero di potenzialità, sempre problematico. Ma di che natura è questa natura? Detto in breve, è tecnicoespressiva; il cinema nasce (almeno storicamente) da e per un'invenzione, e ha mantenuto legami stretti con il suo momento costitutivo (non ce l'ha chiarito Benjamin analizzando la riproduzione come fatto genetico?). Qui l'avanguardia, o talune riprese della neoavanguardia, possono darci suggerimenti. Con una differenza di fondo, però; ogginon c'è nessuna «organizzazione», nemmeno una progettualità complessiva, non ci sono - malgrado le etichette continuamente riproposte - pattuglie agguerrite con piani di battaglia, ci sono individualità tenaci che accettano l'inevitabile pericolo dell'isolamento. E questo frantumarsi delle indicazioni sembra dirla lunga a proposito delle difficoltàdell'era di passaggio. T orniamo allora su questa terra di transito. Quando il cinema si racconta in questo trapasso è vitalmente costretto a evidenziare l'ambiguità, quella di una.fine che si perpetua e tende a tramutarsi, di un tramonto che è anche attesa. Wenders val bene come esempio: riprende le origini (la fotografia), ripercorre i topoi del cinema classico, ne constata la fine apparente, dilata lo sguardo, riprende a raccontare per riconsiderare la distanza/vicinanza tra l'esperienza e il suo duplicarsi in scrittura. Quell'attesa allora, quel movimento (suo e di parecchi altri) si basa proprio sull'osservazioGiorgio Tinazzi ne della duplicazione, della natura della riproduzione come rapporto con la realtà. Perché non è vero, o non è vero del tutto, che l'identificazione dei due termini sia cosa conclusa e definitiva, c'è ancora (inesorabilmente?) qualcosa di più e qualcosa di meno nella riproduzione. Il dopocinema che stiamo attraversando si gioca tutto su un'ambivalenza, l'annullamento nel mondo spettacolarizzato perché riprodotto e il residuo di differenza, un peccato originale non del tutto espiatò. C'è chi l'occulta, e celebra perciò l'esistente, e chi invece l'accentua, stentando a pentirsi. :Maanche i non pentiti praticano vie alquanto diverse, che partono però da quella stessa differenza. Finora si è battuta, intensamente, la strada del di più: la nuova fantascienza (alla Spielberg o alla Ridley Scott, per intenderci) mira a creare un universo di immagini autosufficiente, simulacri che rimandano a se stessi anziché ad altro, non è solo la tecnica che crea un mondo differente e disgiunto, ma che si esibisce in quanto tale, in quanto possibilità-prodigio che si celebra. Paradossalmente, ma non tanto, è la ripresa in diverso contesto dell'intento «euforico» di una parte dell'avanguardia storica. Lo spettatore trova insomma conferme (nel raccontare) e devianze (nel mostrare). Questa via è però minacciata nei tempi medi, perché è strada già percorsa, perché la devianza è solo scarto, non problematizza la differenza. E. T. o Legend sono macchine ad alto tasso di obsolescenza. Più ardua è l'indicazione della differenza in meno tra riproduzione e realtà; il processo in atto di estetizzazione diffusa del reale attraverso quello che si definisce il mondo delle immagini induce - dicevo - certo cinema a riguardare se stesso, a riconsiderare le proprie origini. Torno a ribadire che non si tratta d1riciclare il vecchio mito delle origini, ricorrente sanatoria per linguaggi ossificati, non di regressione parliamo ma di sforzo di riqualificazione: «oggi il cinema ha esaurito tutti i suoi procedimenti. Entra in una specie di nuova fatica». Chi lo afferma è uno dei registi, Manuel De Oliveira, che vuol ritrovare i processi elementari (e perciò complessi) della rappresentazione. Niente di ingiustificato se questo 'percorso arriva a chiedersi quali siano i fattori costituenti l'elemento primo della comunicazione cinematografica, l'immagine. Ci ha insegnato Bresson che da qui bisogna partire, per togliere più che per aggiungere. Barthes, si sa, diceva che - forse - il filmico è fuori del cinema. Qui la teoria dovrebbe inventare il suo ruolo; inventarlo, perché poco l'ha svolto in passato. Teoria e pratica vanno posti non più come momenti separati, come un prima e un dopo, ma come interferenza, «disturbo» reciproco; serve davvero rifarsi allo sforzo eisensteniano, all'invito a ripensare le radici del linguaggioper ipotizzarne il futuro. Quella tensione teorica contrasta in. modo abbastanza evidente con il quieto vivere attuale. D'altronde, per toccar con mano cose concrete, lo stato precomatoso del cinema italiano di oggi parte da lontano, e tra le cause c'è anche la mancanza di una teoria, e di una critica, che abbiano svolto azione di ricambio e di anticipazione. Così non è stato altrove; si sfiora l'ovvio tornando a ricordare che alcuni cineasti francesi hanno tratto forza continuando a mantenere nei confronti d.elproprio linguaggio l'atteggiamento che veniva dalla propria attività critica, dal guardare e rimettere in discussione. L o sguardo quindi come problema o come «segno inquieto»; l'occhio del cinema tende a confermare, nell'epoca dell'immagine indifferenziata, la non naturalità della visione. Il polo del mostrare viene quindi a prevalere su quello del raccontare. L'affermazione è stridente solo in apparenza, se si pensa come i grandi scossoni subiti dalla narrazione vadano perdendo _laforza d'urto col diventare pratica di massa. Questo •avviene, ancora, ad opera della televisione; che abitua ad un tempo al racconto forte ~telefilme derivati) e a quello debolissimo, fatto di frammenti casuali, surrealisticamente frantumati (la narrazione costruita col telecomando). L'interruzione, il buco, il vuoto nel mondo dell'iperimmagine sono invece ancora ottenibili !?attendo il tasto della visione, sottraendola all'omologazione, riportandola alla tensione originaria verso l'eccesso (nel senso letterale indicato da Starobinski di «uscir fuori del1'esperienza»). Per questa via la riproduzione ridiventa un problema, si nega come duplicazione, riprende la tanto decantata sottigliezza del senso. È la via dell'autoriflessione, della riproduzione come oggetto: il ricominciamento di Wenders o la dilatazione di Antonioni; ma può essere anche quella dell'integrità di Straub o di certa neoavanguardia. Anche le posizioni «mediane»hanno cercato e raggiunto l'originalità attraverso la presa in esame del proprio mezzo, pensiamo a Truffaut, ma non è un caso che anche Woody Allen sia andato in questa direzione. Operazioni solo estetiche? Ai tanti ripropositori di simili obiezioni converrà ricordare le non po- ~ che indagini sui rapporti tra organizzazione della visione e organiz- -~ zazione sociale; qui sì l'avanguar- ~ dia storica ha ancora non poco da ~ dirci. °' ~ Ritornare e ripensare, allora. ~ Già tutto detto? Forse sl, ma il .l::) cinema è ancora molto da scopri- -~ re: «quello che mi interessa nel ci- ~ nema - ha datto Godard - è che ~ non c'è assolutamente nulla da in- i.:: ventare». Perché l'invenzione è .S Il) ~àll. ~ e- g c::s
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