Intervistaa·Gombrich Ernst Gombrich è uno dei più grandi storici dell'arte contemporanei. Ed è certamente anche il più famoso, dato che i suoi molti libri sono tradotti in decine di lingue, e si vendono non solo agli specialisti ma anche al pubblico comune. È con un certo senso di deferenza, dunque, che gli chiediamo un appuntamento a Londra, nel prestigioso Warburg Institute che ha diretto per vent'anni, fino al 1976. Ci sono dei buoni motivi per intervistare Gombrich proprio adesso. La sua già grande notorietà in Italia è stata infatti accresciuta ancora in questo 1985, che potrebbe essere definito «l'anno di Gombrich». Ha appena ottenuto il premio Balzan, che viene assegnato dal!'omonima fondazione a Berna, e che ha un giuria italiana. E sono usciti o stanno per uscire in Italia molti suoi libri. Ha cominciato Einaudi con L'immagine e l'occhio; ha proseguito Laterza con Arte e progresso; escono adesso gli atti del suo seminario di due anni fa all'Istituto di Studi Filosofici di Napoli; la Feltrinelli ha pubblicato in novembre il suo testo più recente, Tributes, che appare col titolo Custodi della memoria, e che contiene saggisu Lessing, Hegel, Freud, Warburg, Kris, Kurz, Huizinga e altri «grandi» del pensiero moderno; e infine si annuncia già la futura traduzione di ldols and ldeals per Einaudi. D. Come ha vissuto il conferimento del premio Balzan, che, se nulla aggiungealla sua fama internazionale, certo contribuisce a consacrarla come uno dei «grandi» del nostro tempo? Gombrich. Nulla di più inaspettato di questo premio, al quale non sapevo di essere candidato. Certo che ne sono comunque onorato, e molto. Tanto più che so che la giuria ha legami con l'Italia, paese che amo moltissimo, e in cui vengo spesso. D. Questo premio è un po' il coronamento di una grande carriera di studioso. È un caso che il suo ultimo libro, uscito nel 1984 in Inghilterra, e pubblicato a novembre da Feltrinelli in Italia, si configuri un po' come una autobiografia intellettuale, dal momento che contiene saggi su autori che lei ha sempre ampiamente r usato come punto di riferimento culturale? Gombrich. No, non parlerei di una autobiografia intellettuale. Il libro, infatti, nasce come raccolta di saggi. E i singoli capitoli sono nati in occasione diverse, come conferenzè,'seminari, prolusioni e così via. Il filo logico che unisce i saggi di Tributes è nato dunque solo al momento della composizione in libro, quando ho deciso di r--.. raccogliere questi e non altri temi ~ che negli ultimi tempi avevo trat- .::; tato. Certamente, posso dire che R si tratta di autori che mi interessa- ~ no,.e in mod~ speciale. Ma, anco- ~ ra: non direi che sono tutti dei punti di riferimento. Ad esempio c'è un saggio su Hegel filosofo che non posso certo dire di amare. Oppure un saggio su Huizinga in cui prendo qualche distanza da una interpretazione dell'arte come ~ gioco. E tuttavia ho scritto su He- l gel perché è un autore importante ~ per certi aspetti di storia delle idee che interessano anche il pensiero sull'arte. D. Si tratta tuttavia di un libro che in qualche modo conferma la sua originalità di pensiero. E cioè: studiare l'arte utilizzando anche metodi e concetti che non appartengono strettamente alla disciplina. In questa prospettiva si può dire dunque che troviamo in Tributes un quadro di riferimento per il suo meto_do storico-artistico? Gombrich. Vedo che è necessario fornire qualche chiarimento sul mio stile di lavoro. Non bisogna pensare a me come a uno storico dell'arte che lavora sull'arte utilizzando anche qualche altra cosa. Io • sono interessato non all'arte in sé, ma a quella che la tradizione culturale tedesca chiama «Geistesgeschichte», cioè grosso modo «storia delle idee». Per l'appunto, soprattutto se si studiano alcuni periodi, l'arte è un terreno di indagine fondamentale, nel quale certo io sono specializzato. Ma la reale prospettiva è quella più globale che ho detto. L'equivoco probabilmente nasce da una informazione distorta su questo famoso istituto a cui appartengo, e sul suo fondatore, cioè Aby Warburg in persona. Il Warburg Institute attuale di Londra nasce sulla Kulturwissenschaftliche Bibliothek Warburg messa insieme in tanti anni Omar Calabrese da uno dei più eccentrici studiosi del nostro tempo. Ma appunto: anche per Warburg era un·a «biblioteca di scienza della cultura». La storia dell'arte è soltanto uno dei suoi elementi. Del resto anche l'attuale Warburg Institute dedica all'arte solo uno dei suoi quattro piani, il secondo, quello in cui ci troviamo adesso. Ma ce ne sono altri tre. Uno è dedicato allo studio della parola, e ovviamente ha una prevalenza di storia della letteratura, ma anche di critica lette-. raria o di scienze del linguaggio. Poi c'è un piano per la storia delle idee: storia delle religioni, storia della scienza, storia della filosofia. E all'ultimo piano c'è la storia del sapere come complesso organico: libri di antropologia e scienze umane, ma anche delle altre arti, come il teatro, la musica, il cinema, addirittura la pubblicità, e •perfino la politica. Ora, provi a pensare a cosa succ~de a una persona che come me abbia vissuto per cinquant'anni in un istituto così. È questa biblioteca che mi ha formato. E in questo senso io non sono uno storico dell'arte. Quello che ho sempre studiato e insegnato è la storia della - cultura, e principalmente quella del Rinascimento. Un po' come faceva, in altro senso s'intende, Burckhardt ne Il Cicerone. I miei corsi, ad esempio, sono stati (citando a caso) sul neoplatonismo nel Rinascimento, oppure sui Medici come mecenati, oppure su Vasari e la letteratura artistica, e così via. Mai ho insegnato a degli studenti lo sviluppo dell'arte, che so io, di Raffaello. Per questo compito all'università di Londra c'è un altro istituto, il Courtauld Institute. Qui ci siamo occupati invece di storia della cultura e di quella che i tedeschi chiamano «Zivilization»e che male si traduce in italiano con «civiltà». D. Sì, ma anche se lei non si definisce uno storico dell'arte, è del tutto evidente che i suoi studi sono stati decisivi per un certo rinnovamento delle discipline storico artistiche. Lei ha utilizzato la psicologia, la psicanalisi, le scienze del linguaggio, la filosofia della scienza e così via. Gombrich. Sì, è vero. Tutta la storia e le teorie del simbolismo in ogni sua accezione mi sono sempre molto interessati. E infatti uno dei miei libri più cari, Immagini simboliche, tratta per l'appunto del simbolo e dell'allegoria nelle tradizioni aristotelica e neoplatonica. Sono due vere e proprie correnti di pensiero che si distinguono sempre di più col passare del tempo, sia nel pensiero medievale che_in quello rinascimentale che in quello barocco su su addirittura fino a Freud e Jung. Anche se non in dettaglio, e orientandomi poi sempre a fatti culturali specifici e concreti, ho sempre molto insistito sui valori dei simboli visivie delle metafore. La metafora, linguistica o illustrata, è la chiave del simbolismo. Sarà banale, ma questa osservazione sta al centro delle mie idee teorièhe e delle mie curiosità più profonde. Arrivo infatti a pensare che certi movimenti metaforici abbiano addirittura una specie di origine biologica. Pensi alle metafore della luce e dell'oscurità. Prenda in considerazione un carattere biologico degli esseri umani, e cioè quello di essere fototropici, ovvero sempre alla ricerca della luce, mentre altri esseri, come le termiti, sono fotofobici, cioè fuggono la luce. Ebbene, il nostro fototropismo si riflette nel nostro linguaggio metaforico. Diciamo che un'idea è «luminosa», che è «luminoso» un sorriso, che Dio è una «grande luce», e migliaia di altre cose simili. Se le termiti parlassero, e non è detto che non lo facciano, forse loro direbbero che provano una «gioiaoscura», o una «buia felicità». Questo significa che ci sono idee sinestetiche (cioè metafore fondate sui nostri sensi) che hanno certi elementi fondatori comuni e appartenenti al nostro essere biologico. Gli ·studi attuali sulla metafora sono pertanto ancora agli inizi, dato che di problemi come quello che ho illustrato si occupano poco, e poco in generale della questione delle metafore visive. In Tributes, nel saggio su Freud, parlo a lungo della necessità di un vero studio comparato della metafora. Perché per un simile studio non bastano le idee di Freud sul simbolismo. Occorre pensare a studi concreti sul significato ad esempio del colore, della luce e di altri elementi simili. Per l'arte questo è fondamentale, perché si tratta precisamente di cominciare a studiare i materiali dell'arte come espressione. Si pensi in questi termini, diversi dal solito, al significato di un soffitto barocco, che contiene sempre l'apertura di uno spazio semantico fra i due poli della luce e dell'ombra come conflitto fra la luce divina e la notte delle tenebre. D. Quel che lei dice dimostra una volta di più la sua «diversità» dalla storia dell'arte tradizionale. Gombrich. Certo. Ma con questo non denigro affatto la storia dell'arte tradizionale, e cioè la filologia, o l'attribuzionismo. Il fatto è che per ragioni pratiche la storia dell'arte è legata ai musei e al mercato. È allora naturale e anzi necessario trovare i nomi, le date, le scuole dei quadri o degli altri oggetti artistici. È un lavoro che diventa del resto molto importante anche per altri studi. Come si può parlare di opere senza sapere a quale periodo e tipo di artista appartengono? Io però sono molto soddisfatto che questo lavoro lo facciano altri, e io possa invece commentare le opere. D. Detto altrimenti, lei rivendica un posto nella storia del/'arte per la teoria e per l'interpretazione? Gombrich. Esatto. Per- l'interpretazione, e per la spiegazione, che è ancora più importante. È possibile spiegare un'opera o certe costanti figurative? Questa è la domanda che mi pongo sempre. Se la risposta è sì, come credo,
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