estraniante ed esterno che le permette di non farsi travolgere dalla loro crisi come dal crollo di un mondo (che è quanto avviene, invece, in Schmitt, nonostante tutto) e che le consente, anziché giocare un'opzione politica frontalmente contro un'altra, di fare emergere, sommessamente ma con grande forza persuasiva, una possibilità che è reale proprio in quanto risulta dal consumarsi oggettivo della dura realtà - della necessità - su cui è costruita la politica moderna. L eggere il pensiero arendtiano alla ricerca delle categorie politologiche fondanti la modernità significadunque anche definirlo e individuarne la ratio complessiva, capire che cosa implichi il suo non voler essere né strategico né necessario né progettuale, e neppure utopico. La peculiare condivisione arendtiana dell'orizzonte teorico della politologia moderna è riscontrabile a prima vista, se solo si riflette che la teoria politica «continentale» - quella che culmina nell'ultimo classico, cioè in Schmitt - ha da tempo individuato nella costruzione dello Stato moderno due paradigmi centrali, compresenti ma irriducibili l'uno all'altro nonostante tutti gli sforzi ed i rovesciamenti filosofici: la forma del «contratto/scambio» e quella dell'obbligazione politica. Ora, non è un caso che sia in Vita activa (Milano, Bompiani, 1964) sia in Sulla Rivoluzione (Milano, Comunità, 1983) la Arendt mostri come il fare della politica il mercato degli interessi implichi quell'agire utilitaristico e calcolante che dimentica la complessità e la pluralità di piani della condizione ·umana e che riduce la politica a gestione di una omogenea natura dell'uomo, cioè a necessità. Il contratto, insomma, non fonda razionalmente il potere, come pretende, ma presuppone una preesistente unificazione, un'uguaglianza astratta ed alienata degli uomini: l'individualismo razionalistico moderno riposa su di una. scelta (un atto non razionale, dunque) che in realtà è a favore della natura, e che è quindi contraddittoria e insieme riduttiva. Di qui anche la trasformazione del potere in legge, cioè in calcolo ed in imposizione. La critica della forma del contratto/scambio è perfettamente solidale con le tesi weberiane e schmittiane sulla tendenza moderna a giuridificare e spersonalizzare il potere, e sulle contraddizioni che tale tendenza implica, in termini di perdita di capacità politica reale all'interno di un'unità politicamente significativa. E altrettanto solidale, e non certo casualmente, è il pensiero della Arendt nel momento in cui analizza, soprattutto in Sulla rivoluzione, l'altro grande paradigma della modernità, l'obbligazione politica. Qui, l'ossessione moderna dell'unificazione, che nella forma del contratto aveva esibito il proprio limite proprio nel mostrarsi impolitica e tendenzialII)ente naturale (come unità della produzione e dello scambio biologico, per la sopravvivenza della specie), si rivela nei suoi meccanismi coatti e contraddittori: pur senza dipendere da Schmitt, infatti (ma alcune citazioni in Tra passato e futuro sono significative), Hannah Arendt si mostra a questo riguardo un politologo di razza proprio nell'individuare le categorie della politica - dal punto di vista delle tematiche dell'obbligazione - nella decisione sul rapporto amico/nemico e nella costruzione di un ordine politico che vuole essere nuovo e che invece è coatto a ripetere, in tutti i tentativi rivoluzionari, la colpa della violenza e della necessità. Che la politica moderna sia la ricerca di un assoluto che non riesce mai ad essere un nuovo inizio, una fondazione libera, ma che perpetua il ricordo del vecchio che si vuole rovesciare, integra in realtà almeno una delle valenze teoriche ed esplicative di quel concetto forte e dotato di altissima potenza ermeneutica che è la «teologia politica» schmittiana; come in Schmitt - che naturalmente perviene alle sue tesi da altri percorsi e con finalità differenti - anche nella Arendt la modernità esibisce un nesso di Stato e rivoluzione, di unità e di negazione, che è decisamente contraddittorio: gli stacchi epocali, i momenti alti della politica, non si sottraggono - pur nella pretesa di artificialità e di novità dello Stato moderno - alla naturatiana dell'Uno in lotta con se stesso anche Hannah Arendt potrebbe riconoscere molti piani del proprio percorso attraverso quel molteplice sistema di coazione che è la modernità, nella quale antropologia, filosofia, politica ed economia si intrecciano e si sforzano di porre in essere una produttività progettuale che non riesce mai a riposare in se stessa ma che è condannata a inseguire modelli da parte loro sempre sostanzialmente identici e ripetitivi. La storia come necessità è la caratteristica del moderno; ma è opportuno insistere nel sottolineare che la Arendt non si produce in una lettura totalizzante della modernità. Questa è colta non solo nei suoi molteplici aspetti, ma anche nelle contraddizioni di eia- ·'- • si configura così come rappresentazione di un'unità meramente proiettiva, scenica (e di nuovo s'incontra il tema schmittiano della teatralità dello Stato), come il fantasma delle interne ossessioni dei singoli, unificati non da un comune incontrarsi ma dall'identità biologica della paura per la propria vita. La rappresentanza moderna risulta, per la Arendt come per la scienza giuridico-politica più avvertita (ad esempio, Leibholz), un processo di semplificazione unilaterale della politica, e al tempo stesso una duplicazione, una complicazione speculare attuata attraverso l'immagine di un'unità che non è oggettiva (il "bene comune" è solo un mito) ma che testimonia dell'assenza di ., .. _.- - UmbertEoco Suglispecchi e altrisaggi GRUPPOEDITORIALFEABBRIB, ÒMPIANIS,ONZOGNOE, TAS . . . . . ..... ............................................................... . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ......................................................... . •••••••••••••••••••••••••••••••••••••••••••••• ■ • • • • • • • • • • • • • • lità del processo storico in cui la modernità consiste. Così, paradossalmente, tutto l'attivismo moderno si rivela passività, il pathos creativo che tentava di rovesciare l'assioma «nihil ex nihilo» risulta in realtà un consumo, e la politica moderna, nel suo complesso, non è in grado - proprio per la sua opzione opposta all'agire liberamente politico - di costruire un mondo umano durevole: i monumenti della modernità sono iscritti in quella che Hegel definiva «la furia del dileguare». L'ossessione moderna per l'unità politica è analizzata dunque dalla Arendt come un complesso dalle dinamiclie contraddittorie, non come una vicenda lineare e monodimensionale:nell'immagineschmitscuno di essi: così, esemplificando, la stessa necessità è definita, in Vita Activa, «l'incubo della nonrealtà», e l'oggettività moderna non è altro che il fantasma rovesciato di un mondo reso tutto teoretico - appunto progettuale - dalla ragione individualistica. E soprattutto, la vitalità naturalistica e processuale del moderno è in effetti il regno dell'instabilità e della morte: un esito paradossale per un periodo storico che si caratterizza per l'esasperata ricerca della difesa della vita, della «sicurezza borghese». È questa il vero interesse in nome del quale si attua l'esperienza politica moderna, la ratio ultima dello Stato (e non a caso la Arendt assume sempre a paradigma il pensiero hobbesiano), che un reale spazio di incontro politico fra gli uomini. L o «stare insieme» nel nome dell'interesse, della sicurezza, della necessità, esclude dunque l'«agire insieme», il fare politica: l'impotenza del pensiero politico moderno, la filosofia hegelianamente (ancora!) intesa come «puro stare a guardare», sono dunque il frutto di un'analisi che, come quella arendtiana, attraversa e smonta le contraddizioni della modernità, ne mostra persuasivamente l'assenza di capacità propositiva dovuta proprio ad un eccesso di progettualità. Eppure, dato che non siamo di fronte ad una critica totalizzante, sarà opportuno indicare brevemente come - nonostante l'esaurirsi di un insieme di paradigmi che si vollero, e non furono, politici - sia possibile fare politica; poiché per Hannah Arendt ,fare politica è possibile, ancora, e anzi tanto più quanto più ci si è lasciati alle spalle l'ingombrante e coattiva eredità della tradizione moderna. La politica è, come risulta da Vita activa, una delle possibilità della condizione umana, ed azioni politiche nell'età moderna sono state quelle che, come la rivoluzione americana, hanno colto questa possibilità, senza lasciarsi ossessionare dai dilemmi della fondazione assoluta, dal fascino della sovranità e dalla rappresentazione dell'unità. Non tanto una rivolta contro l'istanza unitaria dello Stato, quanto una costruzione di poteri plurali e pubblicamente partecipati; non una contrapposizione di un modello ad un altro, ma un agire libero, privo di modelli, coraggioso ed inventivo: questo è il senso della rivoluzione americana, per la Arendt, e ciò vale nonostante le note involuzioni a cui anche quell'esperienza è andata incontro. Ma questa alternativa reale e non fantasmatica, politica e non utopica, si può presentare solo se è stata superata l'ingenuità del pensare per modelli, solo se la filosofia desiste tanto dal suo porsi pedagogico quanto dal suo - apparentemente smaliziato - riconoscere la necessità del corso del mondo (nel rifiutare di insegnare al mondo come esso debba essere). Il venir meno delle contrapposizioni fra teoria e prassi è, nella Arendt, l'uscir fuori da una tradizione esaurita, ma attraversata in tutta la sua complessità. La straordinaria pregnanza delle categorie specifiche della riflessione politica arendtiana nasce proprio dal fatto che queste non si contrappongono alle moderne categorie del politico, ma le spostano, ne costituiscono una variante possibile, sul piano alternativo di una libertà dell'agire che trova il suo fondamento nella costituzione aperta della condizione umana. Pochi esempi saranno sufficienti a chiarire l'assunto: la coppia privato/pubblico rispetto a quella interno/esterno, il giudizio (il porsi dal punto di vista degli altri) rispetto alla decisione (l'esclusione dell'altro), il potere plurale rispetto alla sovranità monocratica della legge e dell'obbligazione politica, la memoria pietosa rispetto alla furiosa coazione a ripetere, il principiare rispetto alla ricerca dell'assoluto, e soprattutto il coraggio ( cioè l'agire in prima persona, senza affidarsi totalmente alla rappresentanza) rispetto all'ansia della sicurezza, costituiscono l'emergere di categorie possibili accanto a quelle storiche della necessità. Ma questo emergere non sarebbe così preciso e persuasivo se fosse solo polemico: la sua forza sta nell'essere aderente alla modernità - al livello, ripeto, delle più sofisticate analisi politologiche - e contemporaneamente nell'esserne libero, non ossessionato dal crollo (con uno «schianto» o con un «lamento» - per richiamare Eliot e Pound - non importa) del «razionalismo occidentale». Che il tradizionale spazio politico non sia più abitabile è affermazione sensata e produttiva (non nel senso della ~ progettualità) solo in bocca a chi, ,:::s come Hannah Arendt, ha speri- .::; mentato davvero e realisticamente ~ Cl.. come lo Spirito non sappia autoas- :Q solversi, • da chi cioè, ritraendo ~ l'uomo moderno «senza ritocchi» ~ (come affermava il Burckhardt 1 della Cultura del Rinascimento), -~ non propone una delle tante va- ~ rianti di superuomo o di uomo ~ nuovo ma ricorda e testimonia ~ con caparbietà la possibilità, con- ~ creta e non utopica, seria e non ;g, letteraria, dell'uomo libero. ,:::s
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