chia metafisica che ha sopravvalutato il cogito, quanto di mostrare come il pensiero sia possibile solo nell'accettazione della realtà mondana. A partire dal dominio del cogito si sviluppa infatti una sorta di disinteresse, di messa tra parentesi del mondo: «Una delle tendenze della filosofia moderna a partire da Cartesio, e forse il suo più originale contributo alla filosofia, è stato un interesse esclusivo per l'io, in quanto distinto dall'anima o dalla persona o dall'uomo in generale, un tentativo di ridurre tutte le esperienze, nei confronti del mondo come di tutti gli altri esseri umani, a esperienze tra l'uomo e se stesso. La grandezza della scoperta di Max Weber circa le origini del capitalismo risiede precisamente nella sua dimostrazione che un'attività enorme, strettamente mondana, è possibile senza che ci si curi affatto o si goda del mondo, un'attività la cui profonda motivazione, al contrario, è la preoccupazione o l'interesse per se stessi. L'alienazione del mondo e non l'alienazione di sé, come pensava Marx, è stata l'impronta dell'età moderna». Si deve notare come questa critica di Descartes non solo indichi chiaramente l'alveo filosofico in cui si muove Hannah Arendt - la critica del subjectum quale è iniziata da Heidegger in Sein und Zeit e verrà ripresa nelle lezioni del 1940 su Nietzsche e il nichilismo europeo9 - ma costituisca il punto di partenza e la motivazione teorica di molte altre posizioni arendtiane: soprattutto la critica del soggettivismodi Rousseau e di quella narrazione di sé che fa di molta filosofia moderna una sorta di Bildungsroman. Ma la critica del cartesianismo ha soprattutto il senso di una rivalutazione del mondo come sfera naturale del1'attività pratica degli uomini. Nel mondo, infatti, ciò che determina il carattere primo dell'esperienza umana è l'intrascendibilità del linguaggio. In questa assunzione del linguaggio come dimensione che non può essere dissolta nell'attività teoretica, si manifesta l'influsso evidente della riflessione di Heidegger e soprattutto dell'assiomatica della comunicazione di Jaspers. Ma l'identità di condizione linguistica e sfera mondana suona in primo luogo come riconsiderazione di una realtà che la metafisica aveva lasciato in secondo piano. Infatti, per Hannah Arendt il pensiero, in contrasto con le mere attività cognitive (in cui il pensiero è ridotto al rango di puro strumento) necessita del linguaggio non solo per divenire manifesto, ma semplicemente per essere attivato. Per la sua stessa natura, il discorso non può esaurirsi in un'intuizione o in una verità, ma è potenzialmente interminabile: «La fine del discorso non può essere un'intuizione, né esso può essere confermato da qualche autoevidenza contenuta in una contemplazione muta». In altri termini nessuna cosa espressa in parole può mai raggiungere l'immobilità di un oggetto di mera contemplazione. L'esercizio di una capacità linguistica, che pure può rendere possibile il pensiero, eccede continuamente il pensiero. La parola è così sia l'origine dell'attività pensante sia il senso stesso della presenza umana nel mondo. Se questa concezione, ribadita da The Human Condition fino a The Life of the Mind, è il nucleo stesso del pensiero di Hannah Arendt, non hanno molto senso le accuse che le sono state mosse di aristotelismo. La rivalutazione della situazione ideale della polis greca è solo !,tn esempio di comunità politica fondata sul primato della parola, nel senso che abbiamo appena indicato. Essa è una critica esplicita di quella privazione della parola, o della sua ritualizzazione, che si è imposta con il dominio delle democrazie moderne convenzionali e di massa. Ed è sempre in nome del primato della parola che l'esaltazione della polis greca può coesistere, in Hannah Arendt, con il ruolo fondamentale attribuito ai movimenti consiliari nelle rivoluzioni moderne. L'attenzione per la condizione mondana dell'esperienza umana e per il carattere fondamentale del linguaggio è connessa a una rivalutazione della presenza e del presente. Il dominio del soggetto oggettivante della metafisica e della scienza moderna ha comportato non solo il rifiuto della realtà mondana ma anche l'assoggettamento al carattere processuale del mondo. I processi di riproduzione materiale della realtà costituiscono nella modernità l'istanza suprema di giudizio - espressa ad esempio nella subordinazione alle leggi della società e della storia. Non si tratta evidentemente di negare il carattere materiale dei determinismi storici e sociali. Si tratta piuttosto di pensare, per Hannah Arendt, la possibilità di un criterio di giudizio che sappia contrastare la fatalità di quei processi. Ebbene, è proprio lo scambio interumano permesso dall'esercizio della parola che consente di arrestarsi di fronte alla processualità, di non soggiacere alla sua legge. Il discorso, come è manifesto nell'esercizio di una libertà di giudizio politico, consente di costituire un Denkraum, uno spazio di riflessione in cui la necessità è messa tra parentesi, perché poi si possa agire su di essa, modificarla o interromperla. Lo spazio della riflessione è così una sorta di interruzione del temHannab Arendt/3 po storico, una dilatazione del presente. In the Life of the Mind Hannah Arendt riconduce all'intuizione benjaminiana del tempoora, dello Jetztzeit, questa irruzione di eternità che blocca l'incombere di un futuro. E proprio come l'angelo di Benjamin, nelle tesi sulla filosofia della storia, la sosta nel giudizio, la pensosità, permette di volgere le spalle all'attualità, di fondare la distanza in cui è possibile l'analisi storica. Q ueste sono dunque le coordinate fondamentali della filosofia arendtiana della presenza: una è costituita dal miteinandersein, ovvero da quella presenza comune su cui si può fondare filosoficamente l'azione; l'altra è l'idea del presente come conquista di uno spazio per l'azione e la riflessione. Ora, questa presa filosofica sulla temporalità è forse il punto più importante, complesso e controverso del pensiero di Hannah Arendt. Due volte, nella sua opera, ritorna una celebre allegoria di Kafka, quella di un soggetto impersonale stretto da due avversari, uno dei quali lo incalza alle spalle, mentre l'altro gli taglia la strada davanti: «... perché non ci sono soltanto i due avversari, ma anche lui stesso: e chi può dire di conoscere le sue intenzioni? Certo, sarebbe il suo sogno uscire una volta, in un momento non osservato ... , dalla linea di combattimento, e per la sua esperienza nella lotta essere nominato giudice dei suoi avversari, che combattono tra loro».1° Come commenta Hannah Arendt questa allegoria? La prima volta, nell'introduzione alla raccolta di saggi Tra passato e futuro, la commenta in un modo tragico: anche l'azione fondata sulla presenza è destinata a scomparire nel tempo, così come aveva affermato René Char: «La nostra eredità non è preceduta da nessun testamento». Successivamente, in The Life of the Mind, Hannah Arendt modifica questo giudizio. Il soggetto impersonale di Kafka, Egli, è destinato a perdere la sua battaglia e a trasformarla in sogno, a meno che non agisca sul presente, inserendo un cuneo nella fatalità del tempo. Ma nella fragile possibilità di questo cuneo risiedono le nostre residue speranze: «La collocazione del pensiero nel tempo costituirebbe l'in-between tra passato e futuro: il presente, questo adesso misterioso e sfuggente, una mera lacuna nel tempo, verso cui nondimeno si precipitano i più massicci tempi del passato e del futuro, che denotano ciò che non è più e ciò che non è ancora. Ma che essi siano, ciò si deve all'uomo che ha inserito se stesso tra loro e ha stabilito la sua presenza... In questa lacuna tra passato e futuro, troviamo il nostro posto nel tempo quando pensiamo, quando siamo sufficientemente separati da passato e futuro per poterci affidare alla ricerca dei nostri significati, per assumere la posizione di arbitri e giudici sugli affari molteplici e interminabili dell'esistenza umana nel mondo, senza arrivare mai a una soluzione definitiva dei loro conflitti, ma pronti a dare risposte sempre nuove alle domande che essi sollevano».10 Note (1) Pubblicata in Gespriiche mii Hannah Arendt, a cura di A. Reif, Miinchen, Piper, 1976. (2) Si veda H. Arendt, The Jew as Pariah, a cura di R.H. Feldman, New York, Grove Press, 1978. (3) H. Arendt, Rahel Varnhagen, The Life of a Jewess, London, East and West Library 1958. (4) Vedi H. Arendt, The Jew aspariah, cit., pp. 246-247. (5) Sul nichilismo e la tradizione cfr. soprattutto H. Arendt, The Life of the Mind, voi. I, Thinking, London, Secker & Warburg, 1978. (6) Cfr. H. Arendt, «Martin Heidegger at Eighty», in AA.VV., Martin Heidegger and Modem Philosophy, Cambridge, C.U.P., 1978. (7) H. Arendt, The Life of the Mind, cit., Thinking, p. 49. (8) H. Arendt, The Human Condition, Chicago, Chicago University Press, 1958, tr. it. Vita activa, Milano, Bompiani, 1964, p. 293. (9) Si veda M. Heidegger, Nietzsche, Pfullingen, G. Neske Verlag, voi. II, pp. 31 e sgg. (10) F. Kafka, «Egli», in Confessioni e diari, Milano, Mondadori, 1972, pp. 811-812. (11) H. Arendt, The Life of the Mind, cit., Thinking, pp. 209-210. Il coraggiodill'insicurea ...._ ~ c::s U n segno della complessità della riflessione di Hannah Arendt è dato dalla difficoltà con cui, nonostante uno stile inconfondibile, la critica si scontra quando si tratta di definirne la specifica prestazione ìntellettuale: mentre la stessa autrice si è in più occasioni mostrata perplessa nell'accettare la qualifica di «filosofo della politica», il suo magistero è stato fecondo - soprattutto nell'ambito accademico - proprio nell'impresa di ricostituzione della «filosofia pratica» (e il mediatore è stato Vollrath), cioè del più recente tentativo di risposta filosofica alla dissoluzione moderna della tradizionale concezione della filo- -S sofia. Concetti come quelli aren- ~ d dtiani di azione e di giu izio sono ~ stati in quest'ambito utilizzati, in- ~ sieme ad altri di diversa origine, per rifondare uno spazio coerente - non modernamente scientificizzato, e quindi vuoto e nichilisticodell'agire politico. D'altra parte, è facile - ed è stato fatto, anche autorevolmente - ~ leggere nella Arendt un intento ~ propositivo di tipo liberale, ten- ~ dente cioè a liberare la politica, nella sua purezza, dalle contami- non significherebbe dunque necesnazioni sociali in cui è stata coin- sariamente rifiutargli la qualità di volta, fino ad annichilirsi in quel accurato interprete del reale. Al grado supremo di confusione che è contrario - e solo su questo concostituito dal totalitarismo: in que- 'cardo con Habermas, per quanto st'ottica, la concezione arendtiana concerne l'interpretazione della della politica come ambito specifi- Arendt - l'utopia si configura in co della libertà - distinto in linea effetti come un'unilaterale estredi principio dal dominio della ne- mizzazione di alcuni tratti semplicessità, dal lavorare e dal fabbrica- ficati del presente, che vengono re - viene ad assumere il valore di proiettati all'infinito con assoluta una protesta e di una proposta. assenza di fantasia speculativa e di Ma, su questo punto, è stato age- .. vole, ad Habermas e ad altri, accusare la Arendt di scarsa presa sulla realtà, di mancata individuazione di un agire strategico, insomma di utopia (restando indeciso se questa si configuri come «utopia della polis» o come negazione ebraica della moderna impresa di dominio). Ora, si è soliti accreditare al pensiero utopico una grande capacità critica ed un alto grado di penetrazione analitica nella realtà; anzi, proprio queste caratteristiche sarebbero le condizioni che pe_rmettono all'utopia di presentarsi realmente come altro rispetto al proprio spazio e al proprio tempo. Definire utopico un pensatore apertura sull'alterità. Piuttosto che un genere ottimistico, quello utopico pare-·dominatodall'incubo della necessità, costituito com'è dalle operazioni fondamentali del semplificare, del rovesciare e del contrapporre: di qui l'ambiguità di tante costruzioni che 1vorrebbero parlare d'altro e eh~ finiscono in realtà per parlar~ sempre dell'identico, e qùindi per confermarlo. ·n punto è che il pensiero di Hannah Arendt n<;Hi è utopico, come non è propositivo: proprio perché si sforza di individuare una possibilità di politica che non sia schiacciata sulla necessità nel cui segno è iscritto il «moderno», la riflessione arendtiana rifugge esplicitamente dai rovesciamenti in cui consiste la tradizione della filosofia politica occidentale, e particolarmente quella degli ultimi tre secoli («La tradizione e l'età moderna», in Tra passato e futuro, Firenze, Vallecchi, 1970). La tradizione filosofico-politica, rispetto alla quale la vera frattura è data soltanto dal totalitarismo - che è così sottratto a letture troppo facilmente continuistiche rispetto alla forma/Stato, a differenza di quanto avviene in ambito francofortese o presso i «cnhc1 della civiltà» -, è assunta dalla Arendt in modo complesso, con finezza d'analisi e pathos di scrittura: non di una negazione si tratta, ma della ricognizione attenta delle principali categorie del politico, che vengono assecondate nelle loro ambigue e contraddittorie sfaccettature e costrette infine, senza violenza ermeneutica e quasi maieuticamente, ad esibire la propria consunzione. Quello arendtiano è un pensiero realistico e altamente politico poiché del tutto consapevole della modernità: le sue analisi hanno la stessa capacità esplicativa di riflessioni che, come quelle di Max Weber o di Cari Schmitt, sono generalmente riconosciute il frutto maturo ed estremo del pensiero politico moderno e contemporaneo. Di quelle riflessioni la Arendt condivide il terreno e la problematica di partenza, pur non volendosi qui affermare che Weber o Schmitt siano le sue fonti dirette; solo, nelle categorie della moderna politicità Hannah Arendt non sta «a casa propria», ma le sottopone ad uno sguardo
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