una I n una lettera a Karl Jaspers del 1°gennaio 1933, riprodotta in queste stesse pagine, Hannah Arendt dichiara il suo legame con la lingua, la filosofia e la poesia tedesche, ma prende le distanze da quella germanità che aveva abbagliato tanti intellettuali dell'epoca guglielmina e della repubblica di Weimar. A trent'anni di distanza, divenuta cittadina americana dopo l'espatrio e l'esilio, Hannah Arendt avrebbe ribadito nel corso di un'intervista, 1 rilasciata alla radio della Germania Occidentale, questo rapporto esclusivamente spirituale con la sua antica patria. Questa posizione, tuttavia, non era l'effetto di una vicenda personale, ma l'espressione di un universalismo politico, secondo cui il patriottismo - nell'era del declino delle nazionalità - poteva produrre solo forme perverse di azione politica. Al contrario, essere ebrei, vivere come ospiti sgraditi ed estraniati nelle patrie dell'Europa, come dei pariah, era una condizione marginale che permetteva uno sguardo d'assieme, sereno e critico, sulla società ospitante. Alla condizione di pariah consapevole, 2 che accetta di essere tale e rifiuta l'assimilazione nella società borghese, Hannah Arendt aveva dedicato, proprio negli anni in cui iniziava il suo rapporto personale e filosofico con Jaspers, il suo primo libro,3 la biografia dell'ebrea Rahel Varnhagen, figura rilevante n~lla Berlino del primo romanticismo. Questa rivalutazione dell'essere ebrei contro il patriottismo e il nazionalismo valeva per Hannah Arendt anche nel caso della recente patria degli ebrei, Israele. Al tempo delle polemiche suscitate dal suo libro sul caso Eichmann, Gershom Sholem le aveva rimproverato aspramente una mancanza di Herzenstakt, di riguardo e di amore per gli ebrei e la loro causa. Hannah Arendt gli rispose con una lettera che potrebbe fare da epigrafe a tutta la sua opera: «Hai proprio ragione - io non sono mossa da alcun amore di questo tipo, e per due ragioni: non ho mai amato nella mia vita alcun popolo o collettività - né il popolo tedesco, né il francese o l'americano, né la classe operaia o qualunque altra cosa. In realtà amo solo i miei amici e il solo tipo di amore che conosco e in cui credo è l'amore delle persone. In secondo luogo, questo 'amore per gli ebrei' mi sembrerebbe, proprio perché sono ebrea, qualcosa di piuttosto sospetto. Non posso amare me stessa o qualunque cosa che io so essere parte essenziale della mia persona». 4 Q ueste prese di_rosizione, rimaste coerenti per tutta una vita, esprimono molto più di una reazione, anche aspra, ai periodici appelli ai patriottismi di ogni genere. Uno dei principi della filosofia di Hannah Arendt è infatti la coscienza dello sradicamento che colpisce l'uomo moderno per effetto della storia dell'Occidente: uno sradicamento per cui alla perdita delle comunità politiche originarie, delle tradizioni, delle culture, si sostituisce il legame con le astrazioni, con la società e le collettività. Di fronte alla realtà della tradizione perduta, tuttavia, l'atteggiamento di Hannah Arendt non è certamente nostalgico, né porta a quello che Max Webei: avrebbe chiamato «il sacrificio dell'intelletto». Nella sua filosofia - in cui è rilevante l'influsso di Heidegger e di Jaspers - il nichilismo moderno è un dato di fatto, qualcosa beyond dispute or argument. 5 Ma la coscienza del nichilismo non è in Hannah Arendt né reattiva né apologetica della potenza e della tecnica moderne - come ad esempio nel primo Jiinger. Ciò che infatti rimprovererà al suo maestro Heidegger, o meglio alle opere di Heidegger suecessive alla Kehre,6 è una specie di cedimento al mito nietzscheano della volontà di potenza, espresso ad esempio nei saggi dedicati alla tecnica come Ereignis. In Hannah Arendt invece, lo sradicamento, il fatto di non potersi più riferire alla tradizione (nella vita, nella cultura, nel pensiero) non impedisce una fragile e rischiosa possibilità di condurre un'esistenza politica e interumana autentica. Definire il pensiero di Hannah Arendt come esistenzialismo politico è però riduttivo. È vero che le sue tesi di filosofia pratica più note, espresse in The Human Condition, definiscono la prassi politica come un'attività umana più degna del fabbricare dell'homo faber o dell'inattività della mera speculazione. È vero anche che l'attività politica, il cui modello ideale è costituito dalla polis greca al suo apogeo, è per Hannah Arendt la manifestazione più alta della condizione umana. Ma queste posizioni, che potrebbero sembrare il frutto di un atteggiamento aristocratico e astorico, sono comprensibili solo nel quadro di una concezione filosofica più ampia, che trascende l'etichetta di esistenzialismo politico. L'aspetto più rilevante di questa concezione consiste in una filosofia dell'apparenza, nel doppio senso di apparire e di comparire (espresso dal verbo tedesco erscheinen). Rifacendosi alle riflessioni dell'ultimo .Merleau-Ponty ne Il visibile e l'invisibile, Hannah Arendt ricorda come «non possa darsi Schein senza Erscheinung». L'apparenza non è soltanto la facciata dell'essere, l'inganno associato alla conoscenza del mondo oggettivo, ma la condizione in cui l'essere può manifestarsi nella sua chiarezza (Schein). Non solo, ma la storia della metafisica occidentale è precisamente la storia di una battaglia condotta contro le apparenze, quindi contro l'apparire dell'essere alla luce, in favore di un nucleo di verità nascosta nel mondo fenomenico. In realtà, in questa battaglia interminabile e in fondo perduta, la metafisica cerca di imporre una preminenza del pensiero sull'accettazione dell'apparenza: «Il cogito ergo sum è una fallacia non solo nel senso che, come aveva osservato Nietzsche, dal cogito si può dedurre soltanto l'esistenza delle cogitationes; ma anche nel senso che il cogito è soggetto allo stesso dubbio del sum: l' 'io sono' è presupposto nell' 'io penso'. Il pensiero può cogliere questi presupposti ma non può essere provato o confutato (... ) La realtà non può essere derivata dal pensiero; il pensiero o la riflessione possono accettarla o respingerla: il dubbio cartesiano, muovendo dalla nozione di Dieu trompeur non è che una forma sofisticata e velata di rifiuto della realtà.>>7 L'ultima opera incompiuta di Hannah Arendt, The Life of the Mind, costituisce in questo senso un vero e proprio elogio dell'apparenza. A questa non viene contrapposta la realtà come sfera opaca e oggettivata di ciò che esiste indipendentemente dal pensiero, ma come sfera di ciò che si mostra al pensiero, di ciò che sta nell'ombra e che il pensiero può rischiarare ma non dissolvere o rifiutare. Mondanità e pensiero sono dunque coestensivi: essi possono sussistere solo in una sorta di equilibrio non distruttivo. La preminenza del pensiero sulla realtà dell'apparenza ha significato, con la metafisica occidentale, l'ipostatizzazione del cogito e la dissoluzione oggettivante e scientistica della realtà. Ma la preminenza del mondo delle apparenze sul pensiero significherebbe l'accettazione della processualità e della fatalità connaturate al mondo estraneo alla riflessione umana. Non si tratta tanto per Hannah Arendt di rovesciare una gerarCarteggiAorendt-Jaspers1933 Pubblichiamo alcuni passi di tre lettere tratte dal carteggio tra Hannah Arendt e Karl Jaspers. Il carteggio (Hannah Arendt/Karl Jaspers, Briefwechsel, a cura di L. Kohler e H. Saner, Miinchen, Piper Verlag, 1985), apparso recentemente nelle librerie tedesche, copre, con la sola interruzione della seconda guerra mondiale, il periodo 1926-1969. Berlino, 1 gennaio 1933 Stimatissimo e carissimo professore, La ringrazio veramente di cuore per il suo libro su Max Weber1,con cui Lei mi ha dato una grande gioia. Il fatto che io la ,·ingrazi solo oggi ha un motivo preciso: una presa di posizione mi è stata fin da principio difficile a causa del titolo e dell'introduzione del suo libro. E questo non perché Lei vede in Max Weber un grande tedesco, ma perché rappresenta in lui «l'essenza tedesca» e la identifica nella «razionalità e umanità scaturite dalla passione». Questa presa di posizione mi causa la stessa difficoltà che mi ha provocato il giudizio sull'impressionante patriottismo di Max Weber. Lei comprenderà perciò che io, come ebrea, non posso essere né favo revole né contraria e che il mio consenso o la mia disapprovazione sarebbero ugualmente sconvenienti [. ..] Per me la Germania è la lingua materna, la filosofia e la poesia. Per tutto questo io posso e debbo sentirmi obbligata. Ma sono costretta a tenermi a distanza, a non essereperciò né favorevole né contraria, quando leggo la grossolana affermazione di Max Weber secondo cui egli si alleerebbe perfino col diavolo in carne ed ossa per favorir.e la rinascita della Germania. Su tale questione mi sembra decisivo essere chiari. Le vorrei comunicare questa difficoltà, benché essa diminuisse mentre procedevo nella lettura. Per me rimane una divergenza tra l'introduzione e la continuazione del libro. Nel libro (e questo mi sembra decisivo) la libertà non può essere identificata con l'essere tedeschi, mentre nell'introduzione Lei identifica «la razionalità e l'umanità» come una peculiarità del- /' essenza tedesca. Con stima e gratitudine, Hannah Stern Heidelberg, 3 gennaio 1933 Cara e stimata signora Stern, Che problema fatale è l'essenza tedesca! Per me è singolare che Lei, come ebrea, voglia distinguersi dai tedeschi. E allora, per cominciare, vorrei tentare di interpretare per Lei il senso della mia affermazione, nella speranza di guadagnare la sua approvazione, se non ora, almeno in una conversazione futura. Io non considero l'essenza tedesca come un genere contrapposto ad altri generi. Non è un concetto generale o adatto per delle generalizzazioni, ma l'indicazione di una totalità storicamente indefinita. Quando dico che l'essenza tedesca è razionalità ecc., non voglio dire che la razionalità sia soltanto tedesca. Perciò posso dire con piena coscienza che l'affermazione contenuta nell'introduzione non è in contraddizione con quella successiva, e che la razionalità ecc., non deve essere identificata con lo spirito tedesco [... ] La parola «tedesco» è così malintesa che dovrebbe perciò essere usata a malapena. Io ho fatto f orse il tentativo disperato di attribuire ad essa un significato etico mediante la figura di Max Weber. Se questo tentativo fosse riuscito, anche Lei avrebbe potuto dire: È così, voglio essere tedesca. Quando parla di lingua materna, di filosofia e poesia, Lei vuole conformarsi a un destino storico-politico, e qui non c'è più alcuna differenza. Questo destino oggi è legato al fatto che la Germania può esistere solo in una Europa unita, e che una rinascita dell'antico splendore può essere possibile solo mediante l'unità europea[ ... ] Saluti cordiali a Lei e anche a suo marito Il suo Karl Jaspers Berlino, 6 gennaio 1933 Stimatissimo e carissimo professor Jaspers, La ringrazio di cuore! Anch'io spero molto in una conversazione e tuttavia voglio tentare, pur in modo del tutto provvisorio, di scambiare qualche opinione con Lei. Ciò che mi ha lasciato ad un tratto perplessa è l'espressione «essenza tedesca». Lei stesso dice come questa espressione sia malintesa. Per me essa coincide pressoché con un malinteso. Ma ciò è inessenziale. Rimarrei altrettanto perplessa se sentissi pronunciare da Lei queste parole per la prima volta{. ..} Nondimeno sono naturalmente una tedesca nel senso in cui Le ho già scritto. Il fatto è che io non posso semplicemente conformarmi a un destino storico-politico. Io so fin troppo bene quanto tardi e in modo incompleto gli ebrei abbiano aderito ad esso, e quanto casualmente essi siano entrati alla fine in una storia che era per loro estranea [. .. ] La sua Hannah Stern ~ °' ...... (Traduzione a cura di ] Alessandro Dal Lago) E -~ Nota (1) Karl Jaspers, Max Weber. Deutsches Wesen im politischen Denken, Forschen und Philosophieren, Oldenburg, Stalling, 1932; tr. it. Max Weber politico, scienziato, filosofo, Napoli, Morano, 1969. ~ ~ I:! .s cu -e ~ - '----------------------------------------------------------------------------'<:::!
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