.Merz,l'igl~!oaltat~spirale Mario Merz a cura di Harald Szeemann Kunsthaus Ziirich estate 1985 L a forza che dispiega l'opera riunita di Merz consiste nell'obbligarci ad una presa di possesso unitaria, nel costringerci a sperimentarla con sensi non divisi. Ecco una delle rare volte in cui, a contatto di un'opera che appartiene pure alla dissipazione di questi anni, lo sguardo lavora assieme al tatto e l'intelligenza, fin nelle -·· sue sottigliezze analitiche, colla- ~ bora con l'immaginazione, ~er far onte a questa nuova espenenza. osì, con una punta di confusa meraviglia, prendiamo possesso dell'opera di Merz come si prende possesso di un continente sconosciuto, con le sue siepi di arbusti e la sua fauna di animali favolosi, con le sue rotonde costruzioni di vetri e le sue insistite sequenze di segni fluorescenti, col suo spessore materico che uno sfondo visionario esalta e corrode. Non malgrado ma, con maggiore penetrazione, a ragione degli scarti e delle riprese temporali che la caratterizzano, come dei vuoti e delle deviazioni che la segnano, qui, come in ogni vivente territorio geografico, tutto si tiene, anche le dispersioni e le rotture concorrono a comporre un insieme unitario. Di questa unità resta facile, all'astrazione della nostra mente, segnalare il centro e i confini. Il centro si trova disperso in ogni luogo mentre la periferia ha per orizzonte 'la vertigine di ciascun punto dell'infinito. Non ci si affatica per così tanti anni attorno alla spirale e alla proliferazione interminabile ·dd numeri, e, al tempo stesso, non ci si china per una somma pari di anni su quel complicato edificio che disegnano l'igloo e il guscio della lumaca, se non si è attratti internamente da due forze opposte: l'una verso il centro e l'altra verso la periferia, ma che poi l'infinito, intervenendo con prepotenza, scardina e complica, moltiplicando le forze in ogni direzione. Poiché l'infinito, si sa, agisce sempre come un principio di disordine. Se collochiamo ai suoi estremi l'igloo e l'iguana, che possono rappresentarlo entrambi, ci troveremo di fronte a due segni egualmente contraddittori. L'igloo è sì centro, fulcro, dimora, punto infinitesimale del cosmo, ma è anche circonferenza, orizzonte, mondo, simbolo cosmico nella circolarità e nella perfezione della sua struttura. L'iguana, non il lacertile che sonnecchia nelle vetrine a temperatura costante dei rettilari, ma l'iguana che abita il continente Merz, può apparire in ogni punto dello spazio, lungo la parete o sospesa a capo all'ingiù dal soffitto, presenza enigmatica di ubiquità, sciolta dalla costrizione spaziale del centro e della periferia o, meglio, collocante il suo centro nel luogo stesso dove si trova appostata. E tuttavia l'ordinata serie numerica in cui viene disposta nel continente Merz, colloca questo rettile in un punto preciso dentro una espansione infinita. Ma è possibile distinguere realmente con cifre e misure un punto nell'infinito? Attraversiamo un'epoca di mutazioni, nella quale la scienza e la tecnica sono intente a scardinare il mondo. La scienza in quanto biologia e in quanto fisica sta premendo contro la griglia organica e la griglia materiale, la prima sui geni e la seconda sugli atomi. Dal canto suo la tecnica, come ha spinto molto avanti il suo attentato all'equilibrio ecologico del pianeta, così ha modificato il nostro rapporto con l'universo. Mentre si sta delineando un conflitto fra ordine umano e ordine naturale, l'accelerazione tecnologica non ci ha fatto uscire dal sistema copernicano, ma ci ha permesso di prende.rei numerose libertà nei suoi confronti. Usciamo e rientriamo nel veicolo che ci è stato assegnato, la Terra, con una facilità che fino a ieri era consentita soltanto all'immaginazione. Non so bene come risponda il pensiero o solo in qual modo faci particolari, l'immaginazione a cui fa guida l'idea dell'ordine e del senso collega i singoli dettagli dentro una totalità ordinata. «Il mio traguardo è il tutto non come idea generale ma come visione», ha scritto Merz. Partendo dal mondo dell'arte e forzandolo al massimo, con grande originalità e autonomia, l'artista italiano ha dato vita a una cosmogonia organica in cui fa da sostrato, nel senso presocratico del termine, l'energia, nelle sue interne divisioni: ombra e luce, opaco e trasparente, nord e sud, pieno e vuoto, aperto e chiuso, naturale e artificiale. Adesso sono la matematica e l'antropologia culturale a sostenere il lavoro e la registrazione scientifica, mentre un'immaginazione congestionata e potente spinge manifestandosi negativamente come cattivo infinito nel numero e positivamente come apeiron in Anassimandro, l'infinito tiene il centro della cosmogonia di Merz. La serie numerica di Fibonacci, questa serie che possiamo definire qualitativa, condizionata contemporaneamente dal passato e dal futuro, dalla cifra precedente e dalla seguente, si distingue certo dalla semplice progre~sione lineare, puramente quantitativa e che conosce una sola direzione per volta e sempre lo stesso scarto di una unità. Tuttavia anche la serie di Fibonacci appare ancorata irrimediabilmente all'infinito. 1 1 2 3 4 5 8 1321 34... si distingue da 1 2 3 4 5 6 7 8 9... ; ma si direbbe, in maniera paradossale, che la prima sia calamitata con maggiore preciIgloo di Giap - Se il nemico si concentraperde terreno se si disperde perde forza, 1968. eia fronte agli interrogativi sollevati da questa radicale mutazione. Conosco bene invece come rispondano l'arte e la letteratura, qualche isolato esponente di esse e, in questo momento, mi sembra di intuire come risponda Merz. Pur lavorando con segni mutati in un universo mutato, egli procede però sopra una griglia molto antica: quella di un pensiero cosmogonico che, partendo dal V millennio a.C., arriva fino ai presocratici e ai pitagorici, e che gli studi di Giorgio de Santillana, fra gli altri, stanno rendendo familiare alla nostra cultura. Si direbbe che, pur intervenendo a grande distanza di tempo, l'uomo faccia fronte con i medesimi strumenti alla pressione che esercitano sopra di lui le epocali mutazioni. E chi oggi se non l'arte, con la sua capacità di mettere in moto facoltà dell'uomo che la specializzazione tiene ancora separate, poteva tentare di occupare quel terreno conservato sgombro dalla scienza, ma dal quale sono nate le antiche visioni cosmogoniche? L e cosmogonie sorgono dall'attività di una immaginazione scientifica, nella quale, mentre la scienza osserva e calcola ciascun dettaglio osservato verso la totalità. Così due discipline distanti tra loro quali la matematica e l'antropologia hanno preso il posto che l'astronomia occupava nelle cosmogonie antiche; e se il numero appare centrale allora come ora, i numeri nel pensiero arcaico risultavano modellati sul moto degli astri, mentre il numero di Merz possiede un'origine organica. Si tratta della serie di Fibonacci, di questo monaco italiano del medioevo, che l'opera di Merz ha fatto conoscere al di fuori della cerchia òella specializzazione scientifica. Sempre in ogni cosmogonia si rivela dominante l'idea del tempo, dei suoi cicli ritornanti; ed anche in Merz il tempo svolge un ruolo più importante dello spazio. L'organico, e il numero organico, sono di per sé temporalità in atto, espansione, proliferazione. Ma non sta ancora qui la differenza decisiva o, inquadrato altrimenti, il problema grave a cui la cosmogonia di Merz sa e tenta di far fronte. L'ordine totale si presenta come universo limitato, finitezza, mentre la totalità che orienta il continente Merz nasce dalla violenta irruzione dell'infinito. L'infinito che marginava solo il pensiero antico, pitazione della seconda dal buco nero dell'infinito. Queste osservazioni solo per porre il problema, non già per risolverlo; ma anche per affermare come sia attuale ed autonoma la visione cosmogonica di Merz, presa nella morsa dell'infinito come lo sono il nostro pensiero e il nostro universo. Accingersi a creare una cosmogonia con i mezzi dell'arte è certo possibile, a patto di servirsi di quelle rotture e di quelle dilatazioni che il sistema dell'arte ha subito nel corso del Novecento, soprattutto col futurismo, dada e le sue filiazioni, non già per distruggere ma per costruire, non già per negare ma per affermare. Per questi, come per altri punti, un chiaro precedente di Merz si riscontra nell'epica positiva e grandiosa del futurismo di Boccioni e del neodadaismo di Rauschenberg. Poiché il continente Merz si presenta sicuramente affermativo, percorso da accenti eroicamente epici. È sufficiente, per rendersene conto, avere un'esperienza concreta di una mostra dell'artista, disposta proprio nello spazio convenzionale di un grande museo. Il museo non è fatto per contenere una cosmogonia: aggredito con forza da un'opera in espansione, che si esprime ' con qualsiasi mezzo, sia con la povertà delle materie che con la ricchezza dei materiali tecnologici, e che invade. eccessiva tutto lo spazio, dai pavimenti ai soffitti, dalle sale interne alle scale, il museo sostiene a fatica simile assalto. Ma questa aggressione è condotta per affermare. Affermare che cosa? Come ogni cosa risulti collegata con l'infinito, percorsa, attraversata da una corrente di energia, di cui si ignora il principio e dove sia l'approdo. O come l'infinito sposti, spiazzi, metta in tensione e in movimento ciascuna cosa. Oppure per affermare come ogni cosa rappresenti una sosta provvisoria, una manifestazione, una concretizzazione, materiale ed astratta ad un tempo, di un'energia circolante ed interminabile. M erz non ci pre~enta sol~ una cosmogoma, ma c1 documenta anche la sua elaborazione, quasi la sua grandiosa messa in scena. Ripercorrendo l'itinerario ormai trentennale dell'artista italiano, ripercorreremo affascinati le tappe, e quasi le stazioni, di questa elaborazione, con le sue illuminazioni subitanee, le incertezze, il procedere a volte per assaggi e tentativi. E se dovessi indicare chi sta al centro di questa costruzione, il demiurgo o l'epico artefice, il deus faber, non potrei indicare che lo stesso Merz, una sorta di demiurgo nomade che ha tirato le fila della sua cosmogonia traversando e disordinando le gallerie e i musei di mezzo mondo. In quel gruppo selezionato di artisti che la cultura europea di questi anni ha allevato sontuosamente, Merz tiene con forza la figura del demiurgo, come Beuys quella del predicatore utopico e romantico, Kounellis quella del mitologo, erede e vivificatore di miti. L'antico artefice lavorava con la materia originaria, traendo il mondo dall'informe; Merz, artefice dei nostri tempi di transizione, lavora con materiali già elaborati e logorati, di seconda mano. Con lamiere, vetri, stucco, tubi al neon, pacchi di giornali, lampade, aste di ferro e pure con colori industriali. Solo quando lega gli arbusti in fascine o modella in cera o raccoglie la terra in cumuli, Merz si sposta dall'uso dei materiali all'uso di materie naturali e, addirittura, di materie prime, quale è la terra. Ma è soprattutto quando lavora con materiali di scarto come un mucchio di vetri rotti, che cogliamo senza più timore di errori il significato fondamentale del suo lavoro. Non già l'essenza, bensì l'apparenza e dunque la veste formale del mondo che si trova davanti l'artista Merz, si presenta consumata, preda della frammentazione e della ·inerzia. Ebbene il compito che si è proposto Merz, e a cui ha genialmente corrisposto, è di opporsi all'inerzia in cui è caduta la nostra visione del mondo, di e:> far sprigionare di nuovo l'energia :; latente in ogni cosa, di superare la -5 frammentazione, di elaborare infi- [ ne configurazioni formali forte- ~ mente energetiche e significative. ~ Merz, lontano dall'impiegare ~ come un dadaista gli oggetti e le E stesse materie per quel che sono, -~ le impiega sempre a fini esplicita- "'Cj mente costruttivi e significativi. Ci ~ sono sempre un àrchitetto e un co- ~ struttore potenziali in Merz. Così ~ non si limita ad una semplice pre- l sentazione, ma manipola, rettili- ~
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==