tamente vitali. E però per loro natura esse sono destinate a restare senza compimenti, o prive di compimenti durevoli. Gli amori vivono per Tasso in una regione sospesa, nella malinconia umana della loro impossibilità. Ma tale impossibilità è d'altro canto il vuoto, il cavo rivelatore dell'essenza d'amore per se stessa, della sua non appartenenza a questo mondo della storia. De Sanctis dice che Tasso ha «la faccia elegiaca e torbida di un uomo che cerca e non trova». Ma non è che Tasso non trovi: non trova il luogo e la sostanza di un mondo, questo, se inteso in un senso compatto, assoluto. Trova, nella distanza e nelle onde mosse dei sogni, varchi per altri mondi, ab-soluti. Ma allora appunto in fantasma, nella fantasia di cui temeva. In altri termini: in tempo, in mito. Trovare in tempo e in mito: lasciare sciogliersi, diffondersi l'esperienza figurabile. Slegare le esperienze della verisimiglianza perché vi sia più piacere e più mito - una miticità diffusa. Dicevamo all'inizio di slegare in più mondi i mondi che Tasso vuole tenere uniti: bisogna precisare. Tasso aveva ragione di comporre insieme, nel poema, l'inconciliabile: divinità ed uomini, tangibile e intangibile e, perfino, guerra e amore. Ed anzi lo sforzo di composizione è forse proprio lo sforzo dalla qualità mitica. Ma come legare, nel mondo della storia, il guerriero datore di morte con l'eroe d'amore? (come legare il guerriero atomico all'amante?) O queste essenze (guerra, amore) si riducono a una sola - sotto specie di morte - o vanno fatte lievitare sciolte tra di loro, e poi incurvate insieme in un mondo non storico ma temporale. E allora è da chiamare in scena, a questo punto, un altro termine oltre a tempo e a mitico, i quali resterebbero incompleti senza di esso: e cioè il simbolo. Simbolo (e simbolico) è un contenitore più vasto di mito (e mitico). Assumo «contenitore» nel senso (l'unico interessante) di contenimento eccessivo, dunque destinato ad esplodere, a rompersi, a far nascere qualcosa. Il simbolo è un contenitore di contenitori che in quanto plesso di nulla e di figura contiene e proietta distanza, fantasia, tempo, mito come forme in parte piene in parte cave o, meglio, come setacci universali e cosmici o, ancora, come movimenti incessanti, vorticosi ed eccessivi. Il simbolo, e i movimenti che discendono da lui, sono plesw di «nulla»,perché la presenza delle cosepoetate manca, e di «figura», perché quelle stesse cose grazie al molteplice disegno della· fantasia, all'emanazione della distanza ci affluiscono in apparizioni, che indicano ad altri spazi in cui - stando qui in questo mondo - sperimentiamo altri mondi. Altri mondi raggiungibili in simbolo. Ecco infatti il nostro tassesco mondo di eroi, cavalieri di fede, amanti - fantasmi. E questa è una miticità diffusa: nulla e figura come densità in luoghi sparsi - benché sia un po' ostico al nostro senso comune dello spazio e del tempo il concepire una «densità in luoghi sparsi», figurale e affettiva. Ma tale è il simbolo, che ravvicina e confronta dimensioni disperse e disformi - senza per questo necessariamente e sempre ridurre in forma domestica o annullare le distanze. Nel poema per esempio il cielo dove è Dio è sfiorato in qualche modo dalla terra ma non è la terra, e la terra dove gli uomini esercitano le loro passioni terrestri-celesti tocca un divino e però non è il cielo. Abbiamo dunque frammenti di fantasia e di mitico in un continuum che forniscono il tempo e la distanza. Il teatro di Tasso potrebbe essere in questo senso capostipite di un teatro della mente per imprese simboliche, eccessive. Un'altra conseguenza potrebbe essere che la nostra contemplazione del mito e movimento col mito, piuttosto che farci vivere a spese e a ridosso del mito o mitico.,porti il mito o mitico a rivivere a ridosso del presente. Abbiamo potere, un difficile delicato potere, di far vivere l'arcaico, o forse anche di più il mai ancora vissuto, il primordiale mai ancora nato o finito di nascere. Ma è proprio ciò che significa l'esser simbolici: alterare le sostanze temporali arcaiche proiettandovi le nostre tensioni e conoscenze e le affezioni d'osservazione - come accade nelle osservazioni fisiche dei fenomeni. Vivere all'ombra delle megalopoli e dei continenti e mari della terra rifoggiati dall'uomo ma, senza parere, forare la storia e penetrare nelle cavità del tempo, nel simbolo. Tutto si gioca sotto il segno di un'iniziazione di tal fatta, per noi uomini della fine, se accettiamo l'avventura d'essere simbolici: dalla fine saltiamo - è tempo - negli inizi, o primordi che non sono arcaici ma di sempre, o l'arcaico di sempre. Cfr. Torquato Tasso Gerusalemme liberata a c. di Lanfranco Caretti Bari, Laterza, 19671 Discorsi dell'arte poetica e del poema eroico a c. di Luigi Poma Bari, Laterza, 1964 I Dialoghi a c. di Cesare Guasti Firenze, Le Monnier, 1901 Giacomo Leopardi Tutte le opere a c. di Walter Binni e Enrico Ghidetti Firenze, Sansoni, 1969 Manzonimicrostorico I n Italia si è discussomolto sulla «nuova storia». Ma di «nuova storia», tranne qualche importante eccezione, come Il formaggio e i vermi di Carlo Ginzburg (Torino, Einaudi, 1976), gli storici italiani ne hanno prodotto poca. Il grande pubblico la conosce soprattutto attraverso le traduzioni dei lavori di Le Goff, Le Roy Ladurie, Duby. Ora, però, la pubblicazione d_ell'operadi un giovane storico, Alessandro Manzoni(/ promessi sposi, Microstorie, Torino, Einaudi, 1985) dà alla cultura italiana un libro che può reggere il confronto con i maggiori capolavori stranieri, per la complessità degli argomenti trattati e dei metodi adoperati, e anche per l'originalità della prospettiva in cui Manzoni colloca la sua ricerca. Nei Promessi sposi ci sono demografia storica e microstoria, analisi dei comportamenti individuali e di gruppo, storia religiosa e storia sociale, studio delle ideologie e delle mentalità. Le influenze sono molteplici e tutte facilmente riconoscibili. Il Manzoni fa ricorso a strumenti di ricerca elaborati da tendenze storiografiche assai diverse: se, infatti, nella ricostruzione dei tumulti e delle loro cause si avverte la lezione delle classiche opere degli Ernest Labrousse e dei Georges Lefebvre sui rapporti tra carestia, andamento dei prezzi e movimenti popolari (ma Alessandro Manzoni ha letto attentamente, pur senza condividerne l'impostazione, anche Richard Cobb e George Rudé), nelle pagine sulle norme ecostumi che regolano i rapporti tra i membri della classe dominante (si pensi, tra i molti esempi che si potrebbero ricordare, al pranzo da Don Rodrigo o al colloquio tra il • padre provinciale e il conte zio) egli utilizza ampiamente le indicazioni che provengono dai lavori di un Norbert Elias (soprattutto La civiltà delle buone maniere, Bologna, Il Mulino, 1982). È poi fondamentale l'influenza della demografia storica, dallo stesso Le Roy Ladurie a Wrigley, dai vecchi lavori di Mols a quelli recentissimi di Cipolla. Si può senz'altro affermare che le pagine di Manzoni sulla peste sono tra le più acute scritte finora, sia per l'accurata ricostruzione dei processi demografici specifici, come il fortissimo incremento dei matrimoni alla fine della pestilenza (quando avrebbe potuto trovare marito anche Perpetua, se non fosse morta), sia lo studio dell'incidenza dell'epidemia sulle strutture sociali. Ma questo nuovo capolavoro della storiografia italiana va oltre i modelli, possiede una sua forte originalità. A differenza dei Le Goffe dei Duby (o, per l'Italia, a differenza di Franco Cardini), Alessandro Manzoni non privilegia il Medioevo, ma il Seicento. In realtà, in. un suo saggio giovanile sulle origini dei Longobardi, cedendo un po' alla moda, anche lui aveva indicato il Medioevo come terreno d'elezione per la «nuova storia»: esso consentiva lo studio dei «desideri, timori, patimenti», dello «stato generale dell'immenso numero di persone che non ebbero parte attiva negli avvenimenti, ma ne provarono gli effetti», tutta una «serie di generazioni che passa sulla terra, sulla sua terra, inosservata, senza lasciarvi traccia». Quest'ultima è indubbiamente una parola chiave. È stato Carlo Ginzburg a dire che lo studioso dovrebbe essere come il cacciatore che insegue la preda attraverso le «tracce infir.itesimali» lasciate sui terreno («Spie. Radici di un paradigma indiziario», in Aa.Vv., Crisi della ragione, a cura di A. Gargani, Torino, Einaudi 1979). Tutta la ricerca che Renzo fa di Lucia è un mirabile esempio di questa caccia, condotta, insieme, dal personaggio di cui Manzoni ricostruisce le vicende e dallo storico stesso. Le tracce lasciate da Lucia servono a Renzo per ritrovarla ma servono anche al Manzoni, per ricostruire, sfruttando ogni minimo indizio, la società lombarda del Seicento. Manzoni si distacca però da Ginzburg, che è uno storico laico, in un punto fondamentale: insieme alle tracce lasciate dalla storia degli uomini senza nome egli vi cerca anche, e soprattutto, quelle lasciate dalla Provvidenza. Aurelio Lepre E qui arriviamo al nucleo centrale della concezione storiografica di Manzoni. Ma, prima di trattarne, è necessario qualche accenno alla sua formazione culturale e politica. Il Sessantotto, sebbene egli vi abbia più assistito che partecipato, ha influito profondamente anche su di lui. Come il suo amico Federico Confalonieri, uno dei membri della buona società milanese attratto per qualche tempo dalla contestazione e dalla cospirazione, ha creduto che «le masse e non i lumi fan le rivoluzioni». Confalonieri, com'è noto, è finito poi, come molti altri del suo gruppo, nell'esaltazione della società tecnologica degli Usa, con qualche punta di reaganismo, schierandosi decisamente contro la «licenza fatalmente prossima alla libertà» e contro «l'oligarchia de' molti, forse più terribile che quella de' pochi». Manzoni, in questo, non lo ha seguito. Il suo percorso ideologico postsessantottesco è stato più vicino a quello di un piccolo borghese, anche lui cattolico, il dissociato Silvio Pellico. La crisi personale ha portato il Pellico a rifugiarsi nel privato: «Datemi onde nutrire i miei vecchi genitori e remunerarli degli affanni che ho loro costato ed io rinunzio a tutte le idee più favorite della mia opinione». Quella generale ha rafforzato questa scelta: «Ma se i colossi delle nazioni, prima di trovarsi..solidi sopra una base, devono a forza di tentennare schiacciare milioni di uomini, che importa del riposo avvenire dei colossi a chi intanto deve essere schiacciato da loro?». Morte delle ideologie, immersione nel privato: il Manzoni è assai vicino agli approdi del Pellico. A livello storiografico questo tipo di soluzione della crisi trova espressione soprattutto nella mi~ crostoria. Carlo Ginzburg e Carlo Poni («Il nome e il come», in Quaderni storici, gennaio-aprile 1979) hanno sottolineato l'emergere di ricerche storiche caratterizzate dall'analisi estremamente ravvicinata di fenomeni circoscritti, una comunità di villaggio, un gruppo di famiglie, addirittura un individuo. Per poterle svolgere è necessario seguire dei nomi, quelli di una qualsiasi Lucia Mandella o di un qualsiasi Don Abbondio. È possibile, così, la ricostruzione del vissuto e, nello stesso tempo, l'indagine della struttura in cui quel vissuto si articola. Ma la microstoria di Manzoni non è quella di Le Roy Ladurie. A lui non interessa la comunità, ma la famiglia. Egli non scrive la storia di Montaillou, come ha fatto lo storico francese (Storia di un paese: Montaillou, Milano, Rizzoli 1977), ma della futura famiglia Tramaglino. E per ragioni che non coincidono con quelle della maggior parte dei sostenitori della microstoria. Ha scritto Pierre Chaunu, forse il maggior storico cattolico di oggi: «il primato del nucleo familiare ristretto è, molto di più di quanto non si fosse supposto, una dominante di ogni società» (La durata, lo spazio e l'uomo nell'epoca moderna, Napoli, Liguori, 1983). E Giovanni Levi: «la famiglia, una cellula sociale minima, le cui caratteristiche sembrano così poco mutevoli nel lungo periodo, è più che mai la protagonista dei processi di strutturazione delle identità personali, in un mondo in cui altre identità politiche di gruppo, di classe sembrano essere entrate in crisi profonda» (in Passato e presente, gennaio-aprile 1975). Si tratta di posizioni solo apparentemente eguali. Per Levi, la storia della famiglia è storia di uomini; per Chaunu è ricerca dell'impronta di Dio. / promessi sposi sono la microstoria della costruzione di una famiglia cristiana in un periodo, come il Seicento, in cui il di-. scorso sulla vita e sulla morte ha raggiunto, come ricorda lo stesso Chaunu, i livelli più elevati. Le ragioni della scelta del Seicento da parte del Manzoni sono evidenti: muoiono le ideologie, la politica si rivela solo una tecnica per esercitare il potere (anche Manzoni sente l'influenza di Cari Schmitt che definisce «mariuolo, sì, ma profondo»). Resta non tanto la comunità (il passato democratico di Manzoni sembra tenerlo lontano da Comunione e Liberazione) quanto la persona. In questo, è più vicino a Paolo VI che a Giovanni Paolo II. D i molti altri aspetti e influenze si potrebbe parlare. Alla ricostruzione delle vicende della trasformazione del filatore di seta Renzo Tramaglino in padrone di filanda non sono estranee le ·suggestioniprovenienti dall'opera di Franco Ramella su Terra e telai. Sistema di parentela e manifatture nel biellese nell'Ottocento, Torino, Einaudi, 1984. Lo studio dei caratteri del nascente capitalismo italiano, col denaro necessario all'avvio di un'impresa che proviene, in genere, dal dono di un potente più che da una precedente attività, si giova di una lunga serie di ricerche di carattere economico e sociologicodi cui non è possibile qui ricordare nemmeno quelle fondamentali. Infine, l'ironia. Manzoni la esercita contro un certo tipo di storiografia del movimento rivoluzionario (ed è, in parte, anche autoironia), convertitasi allo studio dei problemi dell'assistenza (si ricordi la metafora della conversazione a casa dei parenti del nobile ucciso da Lodovico: «In vece di soddisfazioni prese, di soprusi vendicati, d'impegni spuntati, le lodi del novizio, della riconciliazione, la mansuetudine, furono temi della conversazione»). Contro il potere, per i suoi riti ridicoli eppure efficaci per l'arte inarrivabile di «sopire e troncare». Ma soprattutto contro la storia stessa, intesa come inacrostoria, dominata da avvenimenti fortuiti e da personaggi importanti quanto inconsistenti, capace solo di provocare 00 terribili sciagure. A considerarla c:::s .s attentamente, l'opera di Alessan-. ~ . dro Manzoni è una delle più in- ~ quietanti degli ultimi tempi: attra- ~ O\ verso il rifiuto delle ideologie, il -. ritorno e la celebrazione del priva- 1; to, finiremo tutti nelle capaci brac- !:: <u eia della Provvidenza? Dopo aver 5 perduto di vista Marx e Weber, i.:: non ci troveremo a dover scegliere ~ tra Maritain e Ratzinger?
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