Alfabeta - anno VII - n. 78 - novembre 1985

per la sua impresa vastissima di composizione del poema se, come tien fermo Tasso, poetare «altro non è ch'imitazione»? Un'imitazione che ha, come sappiamo, fondamento nella storia ed è dunque imitazione delle azioni umane per ammaestramento della vita; quanto alle azioni divine, che pur reggono la storia, o non si possono rappresentare o, se sono rappresentate, non sono che riduzione a immagini di azioni umane. Su tali basi il poetare dovrà esser capace e di immagini e di concetti, prossimo ad un talento filosofico, ed anzi logico- facendo uso delle figure e degli artifici sillogistici.Dovrà, il che è essenziale, esser capace di teologia, e di teologia non tanto scolastica quanto mistica: il poeta, come il teologo .mistico, volge l'uomo alla contemplazione delle cose divine suscitando quella parte dell'animo che è il «simplicissimo intelletto», indivisibile (Del poema eroico, II). ~ssai trepido invece diviene Tasso quando si tratta di considerare nel poeta il facitore d'immagini: sulla scorta di Aristotele, preferisce per la poesia la raffigurazione icastica, come imitazione di cose che sono, su quella fantastica che è imitazione di cose che non sono. Il tasto della fantasia e delle cose che non sono inquieta profondamente Tasso: ma, si direbbe, non in quanto non sono bensì in quanto si vorrebbe che fossero, e in quanto si dubita che possano essere. Il principio poematico della verisimiglianzaallora sembra essere il salvacondotto, più o meno inconscio, alle operazioni della fantasia. Al riparo di quel principio, le universali certezze del passato, di un umano ben ancorato, vengono come fruite per un'ultima volta mentre già stanno sfuggendo di mano. Il desiderio spasmodico di incurvare cose e azioni in un solo mondo armonioso evoca puntualmente le cose che sono state già dette del manierismo, anche pittorico: svuotamento da dentro di una realtà profonP er l'idealismo la «poesia» era il modo proprio ed assoluto di «dirsi» del fanciullo, nel quale il suo mondo interiore traspariva e si realizzava pienamente. Qr+estaconcezione totalizzante in chiave estetico-espressiva ha poi dovuto fare i conti con altre considerazioni che, a loro volta, non hanno mancato di proporre i loro particolari tagli interpretativi con pretese di assolutizzazione (non è difficile riandare, per esempio, alle elaborazioni concernenti il «bambino filosofo sociale» ed a quelle, attualmente predominanti, sul «bambino scienziato»). Il ritorno della poesia, allora, può essere visto come una sorta di spia di un possibile desiderio di «idealismo» di fronte al prevalente «scientismo»? In che modo va inteso? Ritengo, per quanto mi riguarda, che due siano i significati da prendere in considerazione, uno di ordine più generale ed uno di carattere più specifico. Il primo si riferisce all'indubbio valore di recupero riequilibrativo di fronte ad un troppo corrivo protendersi verso un'accettazione acritica nella centralità della scienza. Il sec_ondo rimanda, in termini più ristretti, ali'opportunità di non rinunciare ad una potenzialità linguistica (ad un uso di «forme») costitutiva anch'essa dell'umanità dell'alunno. La poesia nell'educazione, quindi, si giustifica in nome di un recupero di valori e in relazione all'ac- . quisizione di strumenti: che sono damente conosciuta e amata, di una realtà fondata sul modello classico temprato nella fede cristiana. A Diirer, a Griinewald, ai Rosso e Pontormo, a Tasso la saldezza di tale realtà si muta in vivo nel suo contrario: si apre loro - entro il modello classico- la sperimentazione del venir meno, dell'informe, del nulla. Materia, limiti e proporzioni corporee, spessori di nomi e concetti si torcono e tendono, si rarefanno e librano, come per prepararsi a passare in altri mondi; mentre si assesta la terribile modernità - terribile nel suo recidere il contatto dell'uomo col cosmo, o nel far l'uomo cosmo a se stesso. A Tasso il meraviglioso - l'intervento calibrato e costante del soprannaturale nelle azioni umane - impallidisce nel mondo delle cose che sono per riapparire fantasma di luce e parola (che è poi «fantasia»), e non così agevole da calibrare, nel mondo delle cose che non sono. Giustezza dell'apostrofe di Leopardi a Tasso: «Ombra reale e salda ti parve il nulla ... ». Del resto, se l'arte di «mover maraviglia» deve passare, come sappiamo, alla testura del poema, ciò proprio è il sintomo di una perdita di favoloso da parte dell'oggettività. Il criterio di verisimiglianza favolosa ne risulta dunque svuotato, l'imitazione del reale non regge: e anzi la prima a perder di senso è la storia, cui tanto si teneva. Come vive Tasso la storia? Si nasconde alla sua insensatezza? Può anche non avvertirla, perché il suo sentimento delle cose è eccessivo, eccessivamente pieno di se stesso scambiato con le cose. 0eccessivo, come dice Leopardi, è il suo «genio» e «il troppo, spesse volte, è padre del nulla» (Zibaldone). Esatto è, in proposito, per il genio o per la mente ciò chè dice Clorinda nel XII della Gerusalemme liberata, guano sente la sua mente inquieta per bramosie insolite ed audaci: «o Dio l'inspira, I o l'uom del suo voler suo Dio si face». Certo, Tasso sta male in questo mondo, crede ch'esso gli rechi ingiustizia, magari ingiustizia a lui solo, non comprende che tutto sta male intorno a lui e fuori di lui. Cosa fa con la sua opera, in specie con la Gerusalemme liberata così furiosamente corretta, così accarezzata e insistita? Voleva erigere un monumento di storia, e non fa che erodere la storia, mostrarne i vuoti incolmabili- il vuoto di Dio, il vuoto di Gerusalemme, il vuoto e l'impossibilità d'amore. Altresì mostrando il sottrarsi ad essa della mente e della sua diretta arte o poesia. Ma, col mostrare tali vuoti, indica verso altri luoghi, o altri mondi nel mondo. Qui si fa strada il «mitico» che vorremmo proporre come ipotesi per la «Gerusalemme» - del Tasso e nostra. Se tale mitico non è, in Tasso o in noi, evento (mitico) originario, è almeno un suo agire da lontano o lontanissimo, un suo urtare, vuotare e riempire i nostri linguaggi, pitture, poemi. Non vorrei incorrere in ire dei mitologi, e perciò sarà meglio fornire qui un'accezione puntellata di «mitico» in rapporto all'oggetto «Gerusalemme». Per curiosità, per paura, per meraviglia, intenderei con «mitico» (l'evento? no) il movimento o il carattere capaci di raccordare più mondi, di comporre l'incomponibile, di unire per esempio esistente e inesistente - la mia esistenza con diverse inesistenze! - visibile e invisibile, naturale e soprannaturale: fondazione e perpetuazione della Gerusalemme celeste, arca della Gerusalemme celeste-terrestre flagellata da acque di diluvio... Gerusalemme potrebb'essere un carattere di tensioni e inclinazioni della mente. Kerényi parla anche di theos - quale un darsi a conoscere con cui comincia il mythos - in termini di un «predicato» di cose e avvenimenti (es. deus est mortali iuvare mortalem, da Menandro forse, in Plinio il Vecchio). Leopardi ora ci ricorre un po' troppo, ma come non ricordare a questo punto ciò ch'egli dice della mente che «ella si sente più capace d'immaginare e penetrare nel modo [o nel mondo?] in cui Dio esiste che in quello delle altre creature» (Zibaldone)? Ma quale sarà la condizione per avere tale «mitico»? Viverlo nel tempo, nella memoria - o nell'immemorabile, per vie forse di s~- gno, conscio e inconscio in differenti combinazioni - del tempo. Spostare le geografie nel tempo, vivere i luoghi del tempo. La nostra Gerusalemme è un luogo del tempo: il poema appunto. Ma se per noi «Gerusalemme» è il poema ed è nel tempo, non siamo semplicemente tornati al punto di partenza? Forse sì, ma svelando un senso, un «mito», del testo che potrebbe offrire un testo del tempo. Partire dalla poesia: si inizia dalla ricerca di poesia per, girando, tornare alla poesia che è tempo. Non c'è forse che questo movimento di vortice sotto le preliminari finzioni, o idoli, di storia. Ne segue che il muoversi del poema e nel poema non potrà che essere visionario e produrre effetti-fantasma (o affetti-fantasma). Infatti la Gerusalemme è luogo di entità, di azioni, di contatti straordinari e ambigui. L'ambiguità è il segno principe della fantasmicità visionaria in Tasso: esseri angelici o demoniaci s'impossessano tèmporaneamente ·di aspetti e lingue d'uomini reali per ottenere persuasioni o inganni, e con la massima naturalezza; un episodio esemplare è la scomparizione dell'immagine sacra nel canto secondo, che resta incerta tra azione soprannaturale e rapimento umano. Assistiamo a un soprannaturale che è tutto da inventare; che non è dietro ie nostre spalle, rassicurante. Tasso non sa d'essere un visionario, di vivere la Gerusalemme del tempo, la quale può incontrarci in qualunque luogo in cui ci diPoesianellascuola poi le due fondamentali giustificazioni che hanno senso in pedagogia. L'emanazione dei nuovi programmi per la scuola elementare si introduce ora come un punto di particolare interesse e di specifica attenzione in merito al nostro problema. Può quindi essere opportuno chiedersi quali siano gli spazi che, a questo riguardo, paiono aprirsi (o chiudersi). Credo che per dare una pertinente risposta alla domanda occorra collocarsi a tre livelli, considerando distintamente i principi orientativi generali, i passaggi specifici ed infine il quadro culturale complessivo. La scuola elementare - si dice - attraverso un «intervento... intenzionale e sistematico» persegue un «compito specifico di alfabetizza- • zione culturale», intesa come «acquisizione di tutti i fondamentali tipi di linguaggio» ad «un primo livello di padronanza dei quadri concettuali, delle abilità, delle modalità di indagine essenziali alla comprensione del mondo umano, naturale e artificiale». Si tratta appunto di vedere se, e in che modo, il linguaggio poetico possa venir fatto rientrare in questa collocazione. In particolare, occorre chiedersi se esso possa o meno essere considerato, da un punto di vista scolastico, «fondamentale» in relazione a quanto viene poi specificato. Ad esempio: è fuori dubbio che la poesia sia uno strumento di «comprensione del mondo« (per lo meno di quello umano), ma lo è in virtù del Cesare Scurati possesso di «quadri concettuali», di «abilità» e di «modalità di indagine»? La questione - come si vede - è più complessa di quanto potesse sembrare. La tendenza prevalente è stata, infatti, quella di non includere la poesia fra i linguaggi fondamentali de~'alfabetizzazione, tanto che il testo della Commissione incaricata della revisione dei programmi (novembre 1983) non vi faceva alcun cenno. Il testo finale (DPR 12 febbraio 1985), nella parte riservata alla lingua italiana, richiamando le caratterizzazioni fondamentali della lingua («strumento del pensiero», «mezzo per stabilire un rapporto sociale», «veicolo» per l'espressione del/'esperienza, «oggetto culturale»), afferma che essa è anche «espressione di pensieri, di sentimen- ~ di stati d'animo, particolarmente nella forma estetica della poesia». In termini più analitici, i programmi parlano poi di «offrire i mezzi linguistici progressivamente più articolati e differenziati per portare ad un livello di consapevolezza e di espressione le esperienze personali» e di «promuovere le manifestazioni espressive del fanciullo e il suo approccio al mondo della espressione letteraria». La «poesia», poi, è inclusa in una lista di «forme di scrittura» intorno alle quali si precisa che «sono valide se scaturiscono da un effettivo interesse del fanciullo a comunicare le proprie esperienze»; d'altra parte, però, si ribadisce che nella «scrittura» è compresa soltanto la produzione di «testi di tipo descrittivo, narrativo, argomentativo». Sembra di poter dire, in sostanza, che l'accento rimane calcato soprattutto sul versante della comunicazione, dell'utile, della razionalità. In definitiva, quindi, gli «alfabeti» cui si pensa sono prevalentemente quelli dell'esattezza e della esteriorità, nei confronti dei quali la poesia può proporsi come alfabeto della verità e della interiorità. E qui incontriamo l'interrogativo centrale: possono avere cittadinanza, nella scuola, alfabeti della verità o dell'interiorità? Se pensiamo che essa sia soltanto ed esclusivamente una funzione dell'organizzazione sociale esterna, no; se crediamo invece che essa sia anche un luogo della umanizzazione compiuta dellapersona, allora si aprono altri spazi. È evidente, pertanto, che ciascuno deve trovare, a questo punto, le coordinate della propria interpretazione culturale ed educativa, entro la quale collocare anche il problema della poesia. Sono due punti in merito ai quali il pedagogista si sente talvolta a disagio di fronte al linguaggio ricorrente fra i poeti ed alle esperienze didattiche illustrate. In che rapporto stanno le tecniche del fare poesia con l'effettiva maturazione di una «poeticità»personale autentica? Non vorrei che si credesse che si fa rientrare in campo l'idea di una rivendicazione di natura spontaneistico-lirica (sulla linea della più incontrollata divulgazione di stampo sponiamo al viaggio nel tempo: lo sappiamo noi postmoderni, più manieristi di lui. Darò ora una mia accezione di «manieristi»: scontenti che cercano e insistono nel cercar~, che insistono in ira di parole e battiti di danza finché, in qualche esplosione della mente causata dà questo insistere, trovano, trovano senza possedere. E perdono, di continuo. Trovano a due condizioni: della distan_za, che produce flutti e aloni d'aria mentale, d'acqua mentale, come un medium per vedere, per toccare in vita - mediumche allontana le cose vicine e avvicina le cose remote; e, seconèla condizione, del movimento, per cui nulla si fermi mai in se stesso- movimento, se si vuole, marino d'impermanenza e fluttuazione. Una messinscena della Gerusalemme non può immaginarsi che distante, e mossa, ondeggiante - adatta a una percezione voluminosa e insieme sottile di fantasmi. Nella realizzazione di Teatro Hotel Centrale a Gubbio c'è stato qualcosa di simile- un movimento tra l'illuminazione subitanea e lo smorzamento ombroso delle visioni, favorito dal flusso musicale delle ottave che scorrono come acque, ora fresche ora roventi, portando velocemente via le cose che contengono. S e Tasso non sa d'essere un visionario, perché vuole tener uniti i mondi delle figure di lotta e d'amore nel mondo della storia, ha però quella percezione voluminosa e veloce di fantasmi, che infonde esattamente in noi dal suo poema. Ed anzi sembra sia per lui una funzione essenziale della mente quella di veder gli spiriti: nel dialogo Il Messaggiero parla di un vedere le intelligenze e le idee in forma di spiriti divini - sostenendo che il veder fantasmi è una sorta di purificazione di sensi e d'immaginazione. E lo stato di fantasmi non impedisce agli affetti d'essere esuberanti, alle cacce di gloria e d'amore, d'essere sfrenaidealistico), poiché il principio di una «organizzazione della spontaneità» (che vale, ad esempio, anche per l'educazione ludica) può ritenersi un punto di arrivo ben consolidato della riflessione pedagogica. Mi pare, però, che esista il pericolo di andare oltre i limiti fisiologici, soprattutto quando si pensi che, in ogni caso, il curricolo scolastico non può certo venire colonizzato ed invaso dall'esercizio poetico. La curricolarità, insomma, impone vincoli di identificazione del- /' essenziale e di evitamento degli eccessi, a pena di squilibri che si rivelano, allafine, controproducenti e dannosi. Quanto al tema della «trasgressione», esso pone certamente sul tappeto un altro spunto rilevante di riflessione. Non credo che si possa chiedere alla scuola di essere il luogo dell'insegnamento ·della trasgressione (ammesso che abbia senso una idea del genere), nel senso che essa sorge per trasmettere le «regole» (o alfabeti o strutture che dir si voglia). Tuttavia, essapuò anche non essere il luogo dove la trasgressione viene mentalizzata come assolutamente improponibile. In altre parole, vuol dire che si tratta certamente di acquisire i «codici» senza per questo inibirsi esperienze di «invenzione». In questa linea, mi pare che si possano individuare delle valide piste di lavoro.

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