Alfabeta - anno VII - n. 78 - novembre 1985

è qui la sua forza: nel suo esitare. Oscilla e cerca, perché riconosce la sua incerta condizione, ma è proprio l'incertezza che lo costringe ad andare sempre più a fondo. Così, scavandosi, non fa che dilatarsi: fino a risolvere la sua profondità in scrittura orizzontale; ovvero, in una scrittura che lo rappresenta come spazio plurale, come polifonia d'immagini sogni memorie visioni, tanto da lasciare apparire all'improvviso, quasi in sincronia, i possibili rimandi della mente; da darli a vedere a chi legge come fossero incisi tutti insieme su una grande lavagna (Su fondamenti invisibili e Al fuoco della controversia, in Tutte le poesie, Milano, Garzanti, 1979, vol. 2°). Non solo. Questo pensare-sentireimmaginare tocca contemporaneamente lo smarrimento e la vertigine: fino a perdere sia il tempo che lo spazio (categorie della ragione) e a implodere in un «punto» o in un «gorgo» dove ogni cronologia e spazialità·vengono come risucchiate; fino a bruciare anche il corpo dei ricordi. Giacchè la memoria, non soltanto smarrisce il filo degli eventi e non riesce più a concatenarli fra loro, ma è fatta ormai più di vuoti e di assenze che di accadimenti e realtà. Credeva di avere «un potere unificante» e invece, anziché ricomporre il molteplice in unità, si perde nel continuo fluire e tramutare delle cose, si disfa fin tanto che del ricordo resta solo un «punto nero» e per di più intrecciato e confuso col desiderio. Eppure il passato non è «assolto in nulla»: di esso ricorre un barlume senza tempo nè luogo, senza quando nè dove; riaffluisce un lampo che fa tutt'uno col presente e si moltiplica in miriadi d'immagini o si frammenta «in una rissa di lucciole e faville» (Per il battesimo dei nostri frammenti, p. 44). Sembrano non esistere più nè cose nè fatti, solo «un senso oscuro di appena captato avvenimento», che risale come da un lungo sonno. Di qui, un dubbio echeggia in forma di domanda: l'intera storia umana òon è che questa «profondità latente» o questo brivido a fior d'acqua? Forse non si può dire com'è andata; forse non c'è più alcuna realtà da narrare. Al suo posto è l'attesa, tutto quello che il senso desidera ci sia: parlata dalla natura, «detta dall'erba», c'è la vigilia, senza nessun avvenimento. Ricordo e desiderio sono a tal punto fusi, che il passato non è più conoscibile e il soggetto, incapace di definire e definirsi, di istituire confronti, di raccontare, rammemora - all'esplodere della vita - solo «l'esserci stato». Eppure, anche se la sua materia si è come incenerita, il ricordo impera ugualmente: senza limiti, senza corpo nè ombra. Nell'annullamento di ogni suo confine, di ogni sua concreta realtà, lasciarlo insorgere dentro e parlare, significa già voler attendere che qualcosa ritorni, desiderare «il non ancora, / il prima della primavera, quella / luce piovigginosa, quella grigia I fabbriceria di gemme nell'aria acquosa» (p. 102). A 1 pari della memoria, così priva di fatti e disabitata persino dall'oggetto del ricordo, anche la vita «canta la sua deserta profondità». Entrambe, per quanto inaridite, resistono e intonano una canzone, che non è che un invito a vivere e a essere. La vita tuttavia registra fino in fondo la violenza del nostro tempo: è un «alfabeto infernale» che si articola in spari e in uccisioni a freddo, anziché in una lingua; che sopraffà l'innocenza e deruba gli incolpevoli della loro persona, strappando e svendendo l'umanità dell'uomo. Ma, insieme, è una vita in cui l'azzurro del cielo s'incrocia con il desiderio di felicità («desiderio d'uomo lasciato dalla sua storia») e, per quanto soffocata e stravolta, a tratti vibra intimamente e, come un retaggio antico, riaffiora. Anche il grande Codice, che gli animali e la natura seguono, rinvia ad essa: a quel «lievito» che percorre gli alberi e muove il fiume dalla sua «quasi estinzione» verso un nuovo cammino. Internato nell'anima degli uomini e del mondo, anziché perdersi, forse indica un'eventualità; fa segno alla vita non in un oltre, ma in un semplice ascolto e in un ritornare: «o no, non scopre niente / lei, risale lungo il ramo I della sua memoria, bruca I l'albero di sapienza della sua 'famiglia/ ed è felicità, quella, / forse, ma solo nostra / e per lei vita soltanto?» (pp. 153-154). La poesia luziana, radicando il . suo movimento nell'umiltà del dubitare - perché il vero non si possiede, sfugge ed è il mistero - si era già aperta al molteplice dell'esistenza, alla tolleranza dell'umano, alla frantumazione del pensare e del vivere, ed era già arrivata a dirci che in ogni frammento in cui la vita si dissemina, ,·ive la vita nella sua interezza. Ma senza accettare alcuna mimesi del reale. Anzi, sempre con una lingua intera, con una sintassi rotonda e perfetta. Invece di mimare linguisticamente lo sgretolarsi del soggetto, l'andamento rotto del pensiero, la sua diramazione in mille rivoli o il suo perdersi, Luzi tenta di comporli in linguaggio. Non perché in esso la violenza possa placarsi e guarire (il poeta non è «il medico di un male suo ed altrui»), ma perché la poesia aspira al senso, perché «chi parla la parola, chi versa il discorso/ latino o chequa? ha un solo accento» (p. 33). Così, quella parola che all'inizio del viaggio esprimeva il gelo e il grido soffocato; che, per via, di fronte all'enigma della realtà portava alla significazione i suoi balbettamenti, alla fine, non più chiusa dentro e interdetta come in anni ormai lontani, si offre mostrando anche la sua oscurità; torna al grande zero, caricandosi persino dei segni dell.'elocuzione del pensiero (lo rivelano le innumerevoli tracce fàtiche: sospensioni, esclamativi, interrogazioni, vocativi). Ma, pur dicendo il venir meno della lingua di fronte all'accadere («Accade, accade inverosimilmente»), resta intatta, anzi, a conclusione del tragitto, ne esce glorificata. Proprio come avviene nel teatro; in quel teatro luziano che, portando in scena la parola, marca la sua apoteosi e, insieme, quella del pensiero, perché situa entrambi in uno spazio rituale e tuttavia non li cristallizza, non li espone già conclusi, ma ne sottolinea le pause e lo sconcerto, li coglie in atto, affinché chi legge e chi ascolta possa sorprendere il dire e il pensare in cammino, e così sentirli scorrere. D al poema, al frammento, alla cosa stessa. Al fuoco della controversia aveva preannunciato: «Non più lunghi poemi, suppongo. / L'anima brucia rapidamente la sua scorza, / la mente divora la metafora, / il significato è fulmineo» (p. 167). In Per il battesimo dei nostri frammenti, dove alla scansione poematica si sostituiscono versi netti e brevi, Luzi esprime l'inadeguatezza epocale e storica del linguaggio a cogliere il senso delle rnse o i brandelli di vita da cui ricominciare il cammino: la metafora è ormai superflua, la vita non si cerca in altro, ma «dentro di sé». Da un lato, ciò che di essa resta, sfugge al linguaggio; dall'altro, la violenza dei fatti lo sbigottisce e lo esautora. La lingua non regge al suo compito; dinanzi al cumulo di cose, la «pattuglia delle parole» appare tramortita: «Nessuno s'è avveduto I del subdolo / profetizzato capovolgimento. Ed ora / sopravanzano le cose il loro nome» (p. 10). Tuttavia il dubbio, che da sempre ritma la poesia luziana, riapre il discorso su una nuova domanda, che suona come una preghiera: forse, non è la vita senza più parole, ma è l'uomo incapace di captare il suo messaggio. Forse, questo tempo di «non parola» verrà squarciato e il linguaggio tornerà ad aderire al corpo della cosa, a trattenere il suo «caldo», o almeno il suo ricordo. Forse la lingua, come l'acqua che «diroccia», si perderà e riapparirà «tra le rupi» per ritrovare la sua consonanza con la vita. Giovanni Raboni, a proposito di Rosa/es, affermava che in Luzi «la disperazione è ambigua, a doppio taglio» (Introduzione a Rosa- /es, p. 7). Ebbene, quell'ambiguità arriva a invertire di segno ogni sconfitta; a ribaltare il silenzio del messaggio nel gorgoglio di «qualche frase quasi umana»; la deriva della lingua al rimorchio delle cose in una parola in cui mormora l'origine; la fine in un nuovo inizio: «Così resta muto l'avvenimento. / Chiusa la profezia. impossibile l'annuncio?/ Infranta la parabola? I o è questa, I negata dal suo rovesciamento, parabola / anch'essa, oltrepassata la lingua e il testo?» (Per il battesimo dei nostri frammenti, p. 10). Luzi ci aveva già abituato· alla feconda identità di scrivere e pensare, ma quel pensiero che all'inizio del cammino aveva espresso un'ambizione d'integralità, poi- la rinuncia al giudizio per far parlare le cose, l'abbandono di ogni concatenazione concettuale, l'esilio della ragione di fronte all'eccesso della vita, ormai, per lasciar posto ai suoi frammenti e sentir vibrare appena una nota «di non so che perduto monocordio» ha finito per sgretolare ogni certezza, addirittu- ,ra per rovesciare il senso stesso: «Dissipato? qualcosa / le dice sì, questo I indubitabilmente è il senso: / ... o intende male ed è inverso il canto?» (p. 34). Lo stile semplice e profondo, il ritmo teso e rallentato che sembra trattenere la naturalezza di una pensosità «diffusa e onnipresente», il tono dubbioso e sapienziale, toccano lo smarrimento e il tramonto del linguaggio, ma insieme inseguono una parola che vuol essere «luce» abitata dal corpo, dall'oscurità, dalla cosa; attraversano il negativo fino all'azzeramento, ma a un tempo guardano all'eventuale, al possibile, sapienza estremamente necessaria, soprattutto oggi che ci stiamo dimenticando persino di pensare. Poesia scritta dentro il mondo, che mi pare si muova in sintonia con quel pensiero, la cui novità consiste - per dirla con Rosenzweig - «nel bisogno dell'altro o, che è lo stesso, nel prendere sul serio il tempo»; nell'aver imparato ad attendere; nel sapere «proprio come sa il pensiero più remoto del senso comune»; infine, nel «parlare a qualcuno» (Il nuovo pensiero, pp. 54, 55, 58). Il Tassof:radistanzaevisione e os'è per noi «Gerusalemme»? Domandarci in che modo può essere vicina a noi la Gerusalemme liberata di Tasso equivale a domandarci cos'è per noi Gerusalemme, dov'è Gerusalemme. Qualunque siano state le intenzioni prossime della mostra dedicata a Torquato Tasso negli scorsi mesi a Ferrara e dell'ipotesi di messinscena della Gerusalemme liberata a Gubbio, la scorsa estate, ad opera del gruppo Teatro Hotel Centrale, vi sono, fra il testo della Gerusalemme e noi, suggestioni a distanza che danno da pensare, che accendono contatti sorprendenti, percezioni che non possono non essere comuni a tutti noi uomini d'oggi. L'ambizione di Tasso circa il poema epico e il poema eroico non è, in effetti, da meno di un intero universo di enti, di argomenti, di parti in movimento, di tempi e di luoghi in rapporti diversi tra di loro, alla ricerca d'armonia che non deprima ma anzi esalti la diversità. Giacché «la materia poetica pjire amplissima oltre tutte l'altre, però che abbraccia le cose alte e le basse, le gravi e le giocose, le meste e le ridenti, le pubbliche e le priva~e, !'incognite e le conosciute, le nuove e !'antiche, le nostre e le straniere, le sacre e le profane, le civili e le naturali, l'umane e le divine» ed i suoi termini non sono regioni, né nazioni, né continenti della terra «ma il cielo e la terra, anzi l'altissima parte del cielo e la profondissima del più grave elemento: perciocché Dante, innalzandosi dal centro, ascende sovra tutte le stelle fisse e sovra tutti i gm celesti; e Virgilio e Omero ci descrissero non solamente le cose che sono sotto la terra, ma quelle ancora che a pena con l'intelletto possiamo considerare» (Discorsi del poema eroico, Libro Secondo). Una tale amplitudine della materia poetica comporta una grandissima varietà delle opinioni e contrarietà dei giudizi e mutazione delle favelle, dei costumi, leggi e cerimonie e repubbliche e regm e «quasi del mondo istesso, il quale pare che· abbia mutata faccia, e ci si rappresenta quasi in un'altra forma e in un'altra sembianza» (ibid. ). Così Tasso pare ci abbia previsti e inglobati nel suo poema, o almeno nella sua concezione e materia, e a noi spetta - in occasione di un riproporsi del poema - di districarcene, prendendo atto del nostro Rubina Giorgi rapporto con esso e del suo con noi. Il poeta, rassomigliandosi nell'operare al «supremo Artefice», deve cercare di comporre il suo poema in un picciolo mondo dove: «qui si leggano ordinanze d'esserciti, qui battaglie terrestri e navali, qui espugnazioni di città, scaramucce e duelli, qui giostre, qui descrizioni di fame e di sete, qui tempeste, qui incendii, qui prodigii; là si trovino concilii celesti e infernali, là si veggiano sedizioni, là d~cordie, là errori, là venture, là incanti, là opere di crudeltà, di audacia, di cortesia, di generosità, là avvenimenti d'amore or felici, or infelici, or lieti, or compassionevoli; ma che nondimeno uno sia il poema che tanta varietà di materia contegna, una la forma e la favola sua, e che tutte queste cose siano di maniera composte che l'una l'altra riguardi, l'una all'altra corrisponda, l'una dall'altra o necessariamente o verisimilmente dependa, sì che una sola parte o tolta via o mutata di sito, il tutto mini>>( Discorsi dell'arte poetica, II). Accordare insomma le cose disformi, le aspirazioni discordi, i saperi dissonanti in un solo mondo: sintesi supremamente vagheggiata da Tasso, e impossibile nel suo tempo di passaggi e tramonti, come nel nostro. Impossibilità ch'egli non comprende, o non vuole comprendere. E tuttavia il suo poema ci offre promessa di un diletto: di un piacere diffuso, forse di una miticità diffusa - ma a condizione che sleghiamo in più mondi i mondi che esso vuole tener legati in uno solo. Quel non comprendere, da parte di Tasso, l'impossibilità dell'unico mondo armonioso, quel riluttare ad entrare nel mondo diviso della modernità, ha fatto sì che, sforzandosi egli di tenere uniti il meraviglioso e il verisimile, la qualità del meraviglioso finisse dagli oggetti od azioni (in cui dà luogo a troppe contraddizioni) con lo spostarsi all'operazione del poema in quanto lavoro di testura, composizione formale. La materia del poema eroico si fonda sulle istorie, la cui verità la forma del poema tempera modellandola in verisimile e in possibile od universale. La forma del verisimile o possibile è la favola. Ora Tasso stabilisce un rapporto tra l'arte di «p:10vermaraviglia» e la «novità», poiché «la maraviglia è delle cose nuove»: ma «nuovo sarà il poema in cui nuova sarà la testura dei nodi» (Del poema eroico, I e II). E cos'è la «testura»? La favola stessa: «favola chiamo la forma del poema che definir si può testura o composizione degli avvenimenti» (Dell'arte poetica, II). Con ciò Tasso offre tra l'altro un ponte alla favola come tema del possibile - quale appare nel Miirchen della Friihromantik dove si rivela un possibile che è il favoloso della stessa vocazione poetica del poeta e il favoloso della peripezia dello spirito che attinge l'autoconoscenza. O, a un altro capo, offre un paradossale possibile al sentimento leopardiano delta noia, come ragnatela infinita della solitudine che appresta un meraviglioso nel conversar se- 'O co medesima della mente, la qua- ~ .s le, esercitandosi a mirar da lungi ~ le cose, ricrea il mondo a suo mo- t::).. do, ringiovanendo l'animo e rav- ~ °' valorando l'immaginazione, già -. tenuta in disincanto (in Operette 1; morali, Dialogo di Torquato Tas- 5 so e del suo genio familiare). 5 In effetti Tasso ha in sospetto, i::: come Leopardi in disincanto, l'im- ~ maginazione sotto specie di fanta- i::: sia, sognante le cose che non sono. ~ Ma, prima di tutto, di quali talenti l artie cognizioni si avvarràil poeta ~

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==