Danzarec, o-ned!irevivere e 'è una frase a cui sono affezionato, l'ho detta centinaia di volte in trent'anni: «La danza è l'arte del ventesimo secolo». Dietro a questa formula drastica c'è una verità che mi ha insegnato il mio corpo, che si è fatta lentamente strada (Diaghilev ne ebbe l'intuizione) e che vorrei mettere in evidenza in questa occasione. Il nostro secolo ha visto nascere e crescere due «fenomeni» che sono sicuramente eterogenei, ma che collegherei per la loro funzione essenziale di modificazione del pubblico: il cinema e lo sport. (Un film o una manifestazione sportiva modificano il pubblico che vi assiste, ma il cinema e lo sport hanno modificato, con la loro apparizione, la nozione stessa di pubblico). Diciamolo: il cinema ha rimescolato tutto. Ha influenzato tutto. Al di là della distrazione, ha consentito al più gran numero di persone di sognare su delle immagini, e, dato che queste immagini erano in movimento, di nutrirsene. Negli Stati Uniti, gli emigranti di tutte le razze vedevano insieme gli stessi film, fin dall'inizio del secolo. (Non è il caso qui di trarre conclusioni sulla fine del cinema muto, che era un cinema accompagnato da musica, avvenuta nel momento in cui era finalmente padroneggiato dal genio di qualche artista). Insomma, il cinema ha risposto a un desiderio quasi immemorabile. Si rivolgeva più al sistema nervoso che all'intelligenza. Fu il veicolo di certi miti. Scosse l'arte del romanzo, eredità del secolo precedente. Diede alla gente questo gusto delle immagini che si.muovono, preparandola così alla danza, una volta che si fosse sgrezzata. Quanto allo sport, parallelamente a una riscoperta del corpo da parte di noi occidentali (bisognerebbe scrivere un elogio del costume da bagno), appassionò il pubblico attraverso la competizione, suo ingrediente esplicito, ma anche per affinità più segrete con il virtuosismo, le difficoltà tecniche, il salto, la muscolatura, e così via. Nel frattempo la danza in Occidente era diventata un'arte minore, un elemento decorativo aggiunto ad altri spettacoli, un divertissement. La danza è un fenomeno di origine religiosa e un fenomeno sociale: se la si considera come un rito, adempie alla sua funzione. Fa avvenire il Sacro. (Io sono coreografo e non scrittore. Il mio mestiere è scrivere con i corpi, non con le parole. Tutto quel che Heidegger ha scritto sulla poesia di Holderlin, mi sarebbe piaciuto saperlo scrivere a proposito della danza, e spero di aver lasciato trasparire questo mio desiderio in qualcuno dei miei balletti, questo Sacro che è al di sopra degli dei e degli uomini, che non è sacro perché è divino ma è ciò per cui il divino è divino). Paradossalmente la danza, che appai;tiene alla religione, fu combattuta proprio dalla religione, in particolare da quella cristiana, e proprio nel momento in cui ispirava i maestri d'opera delle cattedrali. Quando Luigi XIV creò l'Accademia Reale di musica e di danza, una danza ipocritamente scissa dalle sue origini non poté che essere caricatura di se stessa, a corte e in qualche salone. Separata dalle sue origini e per forza separata dal popo~. ~- Un linguaggio, una tecnica malgrado tutto finiscono per elaborarsi, ma al servizio di che, e di chi? Per molti secoli la danza accumulò ritardi rispetto alle altre arti. Si trovò a essere completamente asservita, e finì per rappresentare solo un passatempo, lei che-ka il dovere di discorrere sul tempo, cioè accoglierlo. Ridotta a niente, a subire prima le galanterie e poi le licenze. Sulla situazione della danza nel XIX secolo ci apre gli occhi la testimonianza di Baudelaire nell'opuscolo redatto dopo lo scandalo del Tannhiiuser: «Gli uomini che possono permettersi il lusso di un'amante scelta fra le ballerine dell'Opéra desiderano ·che si mettano in luce il più possibile i talenti e le bellezze del loro investimento ... » Quanto alla rivoluzione portata da Diaghilev, fu l'opera di un esteta. L'importanza storica di Diaghilev è anzitutto nel fatto che rifiutò di considerare la danza come una parente povera. Anche se i suoi spettacoli, fastosi e costosi, furono riservati a élite «molto parigine». Poi gli artisti europei cominciarono a ascoltare le lezioni dell' Africa e del!'Asia. Tutto era finalmente pronto perché la danza potesse ritrovare il suo posto, che, ne sono convinto, è il primo. Dico proprio la danza. Spero sia chiaro che sono lungi dal pensare a quelle che vengono chiamate «le mie opere». Ho sempre meno la sensazione che questa o quell'opera siano o no importanti. Io voglio, tramite i balletti che firmo, ma che non creo certo da solo, che la danza si manifesti, che ci sia «della danza» e che essa agisca sul pubblico senza di me. Perché la danza è un rito. Io l'organizzo. Spero che vada al di là di me. La danza deve elevare e arricchire. Verticale e orizzontale. Sacra e sociale. ., l corpo: strumento di lavoro del coreografo? Bisognerebbe definire con precisione ognuno di questi sostantivi! Non è il mio mestiere. E il corpo è assai più del mio strumento di lavoro. Se immagino un movimento strampalato che il corpo del ballerino si rifiuta di eseguire, a cosa mi sarà servita la mia immaginazione? È con l'aiuto del corpo che devo immaginare. In un lavoro coreografico, il ballerino conta molto più della coreografia. È il corpo del ballerino ad essere il vero autore dell'opera. Ho detto spesso che la coreografia si fa in due, come l'amore. Il corpo dell'interprete ha sempre ragione. È cercando di indovinare la volontà e i ritmi di un corpo che si rischia di veder apparire una sequenza interessante. Quando parlo del corpo, penso all'esseré totale dell'interprete, intuitivo e spontaneo. Bisogna sempre seguire la volontà inconscia del ballerino quando si sente che il suo essere profondo desidera esprimersi in questo o quel modo, al di là di ogni sciocca valorizzazione • d~l proprio piccolo «io». Ascoltando simultaneamente la musica dei corpi e quella delle opere musicali cerco di cogliere l'occasione di fare un'opera che in fondo non è la mia, perché esiste solo attraverso elementi che mi sfuggono, ma che ho avuto la gioia di percepire perché amavo. Questo desiderio di percepire e di fissare, questa attenzione, questo amore, per una sorta di alchimia che è al centro della stessa nozione di spettacolo il pubblico la sentirà, la condividerà-, la reinventerà. Ma perché «reinventerà»? La inventerà. Chiedo al pubblico di inventare : mie opere. Mi sono sempre rifiutato di «seguire» il pubblico. E nemmeno lo precedo. Sono orgoglioso di essere suo contemporaneo. Ventesimo secolo! Oggi! e hiedo al lettore di rileggere con me queste parole: «Un ballerino si aspetta dal suo nutrimento il vigore e la più grande agilità, non la pinguedine - e non saprei cos'altro possa augurarsi di meglio un filosofo se non di diventare un buon ballerino. La danza in effetti è il suo ideale, oltre che la sua arte, e infine la sua unica devozione, il suo 'culto divino' ... » (Nietzsche, La gaia scienza). . E perché mai solo il filosofo dovrebbe augurarsi di diventare un buon ballerino? Dove siamo - noialtri nietzschiani ... - tutti filosofi? Dunque, tutti ballerini? Credo che tutti abbiano bisogno di ballare. È una delle grandi lezioni di questo tempo. Non dico che tutti debbano diventare ballerini professionisti e partecipare a spettacoli. Ma credo che la maggioranza degli occidentali abbiano perduto la conoscenza del loro corpo e mantengano con lui solo dei rapporti molto poveri, come in una coppia dove non ci si intende più. È urgente reimparare il posto che il corpo occupa nello spazio, come le differenti membra agiscono le une sulle altre. E il ritmo, che è capitale. Uno dei primi esercizi da fare sarebbe dare alla gente un ritmo a tre tempi: si direbbe loro di fare i gesti che vogliono ma ci sarebbe un movimento da fare sulle due prime misure e un salto sulla terza. Oppure altre combinazioni. In seguito si farebbero cose più complicate. Si arriverebbe a sequenze molto belle perché sarebbero spontanee e costruite insieme. La danza è fatta di libertà e di matematica. (Ricordatevi di Voltaire: «Serviva un calcolatore, fu un ballerino che l'ottenne»). Ho fatto recentemente l'esperimento di far danzare il signor e la signora Chiunque. Avevamo re- • clutato una cinquantina di persone che non avevano nessuna conoscenza coreografica per uno stage di tre settimane. Avevano visto dei balletti, certo, ma non avevano mai praticato nessuna forma di dariza. Avevano tra i diciotto e i trent'anni (non bisogna mescolare_ troppo le età perché le possibilità fisiche variano molto). Ho fatto loro lezione per due o tre ore tutte le sere. C'era gente di tutte le classi sociali, professioni molto diverse. Si sono trasformati, trasfigurati. È ancora qualcosa di molto sperimentale, più un tentativo che non un metodo, ma mi sono reso conto che è possibile far danzare «la gente» partendo dall'essere umano di fronte allo spazio e al ritmo. Una ragazza mi ha detto: «Quando camminavo per la strada, quando prendevo il metrò o il treno ero incapace di guardare qualcuno negli occhi, di affrontare gli altri. Ora posso». Un ragazzo di trent'anni: «Avevo sempre paura e adesso di colpo non ne ho più». Ero turbato. Se è possibile dare questo agli altri, senza «parlottii», senza tranquillanti, senza ambigue carità ... Q uesta esperienza si ·è svolta nei locali della scuola Mudra, dove la base dell'insegnamento è la danza, ma dove ci si sforza di allargare il campo della conoscenza dei futuri interpreti. Perché abbiamo separato il teatro, il canto, la musica, l'opera, la danza? Perché l'architettura dei teatri allontana fisicamente e psicologicamente il pubblico dall'interprete? Perché la nostra cultura occidentale si è recisa dal fondo più espressivo, più umano dell'uomo? Credo che questi «perché» mi abbiano intuitivamente condotto a volere Mudra. Bisogna ritrovare l'attore totale. Bisogna ritrovare l'essenza della danza, che è unione là dove le parole sono in disaccordo. Danzare è anzitutto comunicare, unirsi, raggiungere l'altro nelle profondità del suo essere. Ancora, danzare è avvicinarsi al linguaggio degli animali, ritrovare la comunicazione con le pietre e i vegetali, comprendere il canto del mare, il respiro del vento. È partecipare integralmente alla vita del cosmo. E queste affermazioni, che a qualcuno sembreranno ingenue, mi hanno mostrato la loro verità quando ho avuto la rivelazione della danza africana. Ho voluto (idea forse folle?) dare all'Africa la fede per credere nella sua danza. Il mio contributo a qùesta costruzioné è stato collaborare alla creazione della scuola Mudra-Africa a Dakar. Tutto ciò ci allontana dalle opere personali di un certo Maurice Béjart, artista coreografo. Ne sono felice. In India il dio del tempo, il distruttore Shiva Nataraja, è anche il dio della danza. Il mondo vive grazie al suo ritmo e ad ogni colpo di piede crolla per rinascere. La danza oggi esiste con forza. Il pubblico è sempre più numeroso. Ci sono sempre più spettacoli, compagnie, fra cui molte giovani. So che un giorno, anziché interrogarci come adesso su «il pubblico, la danza», la virgola sparirà, diventerà un verbo e si potrà dire «il pubblico danza». (Traduzione di Isabella Pezzini)
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