Alfabeta - anno VII - n. 78 - novembre 1985

Gianni Celati Narratori delle pianure Milano, Feltrinelli, 1985 pp. 150, lire 15.000 Antonio Tabucchi Piccoli equivoci senza importanza Milano, Feltrinelli, 1985 pp. 150, lire 15.000 Pier Vittorio Tondelli Rimini Milano, Bompiani, 1985 pp. 267, lire 16.500 L a stagione narrativa che ci sta alle spallé è stata particolarmente fertile di opere che non si sono segnalate soltanto per singoli e sporadici risultati qualitativi. Questi, evidentemente, non erano mai mancati, in qua e in là, nelle stagioni precedenti. Ma il fatto interessante è che queste opere valide cui ci riferiremo hanno costituito un tessuto, hanno rilanciato una presenza e incidenza di problemi, di linee, portando fuori la narrativa dal ghetto o dal limbo di una semplice cucina in cui si confezionano prodotti di consumo, con qualche ricetta d'accatto. In primo luogo, si è avuto un gradito ritorno di un narratore che taceva già da molti anni, Gianni Celati, a sua volta una delle voci più compatte e omogenee uscite dalla fucina della neoavanguardia. È un ritorno che sembra porsi nel segno della discontinuità e del cambio radicale di maniera, ma si tratta solo di ùn'apparenza. Certo, Celati si è reso conto che il modulo adottato in precedenza, nei quattro saggi narrativi offerti, dalle Comiche del 1971 al Lunario del paradis_o, 1978, rischiava di degenerare nella ripetizione manierata, nonostante la sua indubbia efficacia. Celati, lo si ricorderà, si immedesimava nel flusso di coscienza (per modo di dire) di soggetti diversi, di esistenze alienate, non troppo in sintonia con le buone abitudini della vita linguistica, sociale, professionale. Ed è per questo che può essere eccessivo parlare di «coscienza», nel loro caso, o quanto meno era una coscienza obnubilata, degradata. Di un tale continente della diversità psichica, Celati effettuava un'abbondante e compiaciuta trascrizione, rifacendone i vari meccanismi, che come ben si sa sfiorano di continuo le rive del comico e di ogni altro effetto derivato. All'abbondanza quasi mimetica delle prove di allora, il narratore ha sostituito ora una secchezza per così dire implosa, un linguaggioda referto «povero», che nulla concede alla retorica, o semmai concede alla retorica dell'antiretorica, e sfiora così le tonalità delle più celebri raccolte di novelle di origine arcaica. Nel risvolto del libro sono espressamente menzionate L~ mille e una notte, ma il nostro ricordo potrebbe andare anche al Novellino, per una medesima magrezza dell'esposizione, per una scrittura che si compiace di essere tutta cose, tuffata per intero nell'azione, o in magre battute di dialogo. Eppure, i protagonisti di questa nuova narrativa di Celati, cmne di quella di qualche tempo fa, continuano ad essere degli emarginati, dei «diversi», o per età (i minorenni, protagonisti del racconto Bambini pendolari che si sono perduti) o più di frequente per sottocultura, per menomazioni psichiche, Sipertrt.lcirescite per povertà, malattie, torti sociali. Ma in ogni caso emerge in loro un'accettazione totale dei guai subiti, e quindi l'esclusione di qualsivoglia forma di protesta. Apparentemente, essi vivono «alla pari» il mondo dell'efficienza tecnologica che si è ormai imposto dovunque, allargandosi dall'originario epicentro delle grandi metropoli fino a invadere la provincia, le piccole località quasi disperse nelle campagne. Infatti la maggior parte di questi racconti sono collocati in paesini della Padania, lungo un itinerario che da Milano porta verso le valli del Po. Ma la campagna, la natura sono state sepolte dall'invasione del modo di vivere conforme alla società industriale avanzata; vista dalla porta di servizio, dalle coulisses, questa si annuncia solo attraverso detriti, inquinamento, rumori, in un trattamento sostanzialmente omogeneo per cui non c'è molta differenza tra il villaggio più sperduto e certi panorami urbani, nei quali di tanto in tanto siamo riportati dal filo del racconto. I picari di quest'universo non contestano, non reagiscono, ma si avvalgono del diritto di ritagliarsi zone franche, di sorprendere questo paesaggio con angolazioni rare, stravolte. In sostanza, siamo a un'applicazione sistematica del motivo fondamentale delle epifanie, quasi come esso era all'origine, nel primo Joyce dei Dubliners; o come era stato ripreso, più che da altri narratori, da alcuni registi cinematografici: basti pensare al nostro Antoniani, con particolare riferimento a un film coraggioso quale fu Il grido, non per niente anch'esso di ambiente padano, e con un protagonista di modesta estrazione sociale, cui tuttavia era accordato il titolo d'onore di provare l'esperienza dell'epifania. Naturalmente, il narratore si guarda bene dal prevaricare, su quei suoi soggetti così asciutti e poveri, di reagire con qualche segnale emotivo ai loro racconti. In fondo, egli ci invita a discendere assieme ad essi, a farci altrettanto aridi e spogli quanto il panorama oggettuale circostante; ma per trarne bellissimi spunti di un'estasi fredda, di un delirio a occhi aperti, lucido, stoico, senza enfasi. I n sostanza, dunque, Celati ha confermato alcuni caratteri che sono stati della sua generazione e delle poetiche della neoavanguardia: il rigore perfino programmatico, l'estremismo nello scegliere un modulo e nell'applicarlo fino in fondo; anche se, come concessione ai tempi, ci si presenta oggi con uno sforzo maggiore di leggibilità, di scorrevolezza, che tuttavia è più che altro apparente. Il problema più arduo e intrigante è di vedere che cosa succede presso alcuni «nuovi», per i quali si è interrotta la continuità con la stagione della neoavanguardia. Le opere di Tabucchi e di Tondelli offrono in proposito un test molto indicativo, come poche altre in questi ultimi tempi (si potrebbero aggiungere tutt'al più quelle di De Carlo e di Antonaros). Diciamo subito che le concessioni alla leggibilità aumentano di qualche grado, mentre si attenuano il progetto, il programma, il rigore, la ferrea coerenza stilistica, cui in fondo, lo si è appena visto, un autore come Celati è rimasto fedele. Ma per fortuna è confermata l'adesione a certe radici della narrativa contemporanea che sono da considerare dei veri e propri sine qua non, anche se tutti i nostri imperterriti coltivatori del «romanzo ben fatto» continuano a ignorarle. C'è insomma, in questi giovani autori, una coscienza della contemporaneità che appare ormai sicura, non più rimessa in causa, ma anzi allargata, potenziata. Essi infatti dimostrano molta maestria e abilità nel maneggiare alcuni strumenti di base: il monologo interiore (se non proprio la corrente di coscienza), il punto di vista dal basso, pronto ad afferrare i dettagli minimi (dunque, anche qui, le epifanie) e a trascurare i fatti maggiori, attraverso una pratica sistematica dell'understatement. Certo, non ci sono ardimenti linguistici, che non siano le ormai inevitabili concessioni a uno scorrevole parlato, al «far presto» della conversazione quotidiana. E non risulta nessuna voglia di saggiare l'altro grande fronte della sperimentazione, quello che condurrebbe alla citazione, al pastiche, alla narrativa alla seconda. Sotto questo aspetto, sembra che gli esempi illustri di Calvino e di Eco non abbiano fatto alcuna scuola, presso i nostri giovani, i quali insistono sulla via di un impegno verso la realtà, seppure, per fortuna, affrontato con strumenti decenti, avveduti, degni del nostro secolo, anzi, con quella maturità e disinvoltura che si deve pur pretendere dall'autunno del Novecento. G li undici racconti che Antonio Tabucchi pone sotto il titolo complèssivo di Piccoli equivoci senza importanza non sono molto lontani, nel loro nocciolo, dalle novelle magre di Celati; anche qui, ne risultano protagonisti soggetti «diversi», almeno quanto a capacità di sentire, che però..,conmolto stoicismo virile intendono soffocare il loro sensibilismo contro le dure scorze della realtà oggettuale, nascondendo a noi, a se stessi gli argomenti maggiori che li fanno soffrire, e portando invece lo sguardo, con lunga carrellata, sulle circostanze minori. Gli spunti drammatici, insomma, sqno abbassati al rango di «piccoli equivoci», in nome di una virile capacità di sopportazione, di una forma di pudore, o di orgoglio, e anche di stima verso il lettore, che non deve «sapere» che cosa sta accadendo, al livello macroscopico dei fatti, ma lo deve arguire sottilmente da aloni, frange, dissonanze. In luogo dell'asciuttezza di referto propria di Celati, abbiamo allora un fine trattamento del materiale, molto letterario e retorico, ma nell'accezione buona di entrambi i termini, cioè in linea con le esigenze tecniche di una narrativa contemporanea, e di certi risultati ormai classici, per esempio del primo nouveau roman, come si offriva in alcuni suoi cultori mediani del tipo di Claude Simon. Tra gli impegni in direzione di una nuova classicità che Tabucchi si sente di assumere, ce ne sono due che tuttavia forse non sempre gli riesce di rispettare nel modo migliore. In fondo, l'analogia col mondo di Celati continuerebbe anche nell'obbligo che gli spunti di partenza provengano dal qui e ora, da una grigia prosaicità di esistenze in atto. Ma Tabucchi ricerca una tastiera più ampia e più ricca collocando le sue vicende in ambienti lontani nel tempo o nella geografia: in Rebus, per esempio, viene ricostruito un fondale da belle époque, in Aspettando l'inverno si svolge la confessione, attraverso un lungo monologo interiore debitamente oggettivato, della vedova di un dittatore sudamericano. A questo desiderio di varietà tematica se ne aggiunge un altro di costruzione romanzesca. Nel già ricordato Rebus è possibile indovinare una vicenda di spionaggio, o di loschi traffici internazionali. Cambio di mano sfrutta il filone delle spy stories. Ma un certo rischio di prevedibilità è in agguato, su questa strada: una prevedibilità, beninteso, non voluta e calcolata, come sarebbe nella «narrativa alla seconda», e che dunque viene a insidiare l'intento di delicatezza, l'esprit de finesse cui Tabucchi sembra volersi affidare. Tipico in tal senso appare / treni che vanno a Madras, con una troppo puntuale restituzione di una storia di vendetta differita, messa in atto da una vittima dei campi di tortura nazisti contro un criminale superstite, che era riuscito a celarsi in panni irreprensibili nella lontana Madras. In primo piano, ovviamente, c'è solo un delicato dialogo sul tipo del calssico Silence de la mer, che si svolge nel segno dell'assenza-presenza, nella reticenza del dire e non dire. E dunque, in definitiva, anche per Tabucchi il meglio è dato da scene e trame dell'oggi: i postsessantottini del primo racconto, dispersi tra chi è rimasto invischiato nel terrorismo e chi è rientrato nel1 'ordine; un fratello e una sorella giunti all'ultimo atto delle loro grigie esistenze parallele; un intellettuale che ricostruisce i .suoi banali amori, inestricabilmente allacciati alle ricerche su Machado; un carceriere affascinato dallo squarcio di vita sentimentale che indovina in un suo png1oniero, cui quindi non nega un favore, benché pericoloso e compromettente. Beninteso, ripetiamo, la modalità di trattamento che Tabucchi accorda a questi nuclei è pressoché opposta, rispetto a quella di Celati: volta ad amplificare, a estendere, ad analizzare. P er questo verso, risulta un buon grado di congruenza con Pier Vittorio Tondelli, giunto con Rimini alla sua terza prova, che è anche la più impegnativa, in senso quantitativo e qualitativo. Di nuovo, dobbiamo parlare di un pieno possesso di dignitosi strumenti contemporanei: il monologo interiore, il parlato basso, l'attenzione epifanica al materiale circostante, che funziona anche come correlativo oggettivo alla trama dei sentimenti, per evitare la trappola di dirli direttamente, in modi impudichi, di facile patetismo. Naturalmente, variano poi, a un esame più ravvicinato, le scelte particolari cui ciascuno dei due perviene, sia nell'ambito dei contenuti che in quello delle soluzioni tecniche. Se Tabucchi si specializza in un ambito di coscienze adulte, quasi autunnali, Tondelli, fin dagli inizi, è il cantore della condi- ' zione giovanile, così come questa si dà nella attuale società postindustriale: liberazione dell'eros e del desiderio, superamento dei pregiudizi sessuali, fascino per l'universo della cultura, volontà di successo e di carriera. Dai suoi romanzi è certamente più facile estrarre referti sociologici monocordi, laddove, lo si è visto, Tabucchi ama tastiere più ampie ed evasive. Tutto ciò comporta anche differenze di tecnica, poiché l'adesione totale al mondo giovanile, da parte di Tondelli, lo induce a uno stile più estroverso e «comportamentista», e dunque a un accostamento al romanzo nordamericano, o più in genere anglosassone, comprendendo in esso anche la grande variante del giallo o del poliziesco. Laddove Tabucchi risu_ltapiù crepuscolare, europeo, introspettivo. La novità di Rimini, rispetto alle .due precedenti prove di Tondelli, è posta nel segno di una volontà di cresc;ere, di raggiungere traguardi di clàssicità, di normalità, come già si è visto anche nel caso di Tabucchi. E quindi se Altri libertini e Pao pao apparivano come delle «non storie», delle lunghe causeries «fatte di niente», in quest'ultima opera l'autore ha cercato una struttura robusta, vistosa, plastica. È come se, delle sue tipiche «non storie», ne avesse scritte contemporaneamente sei o sette, portandole poi a scorrere in parallelo, a intrecciarsi all'ombra di un enorme contenitore, la tipica capitale delle vacanze nella nostra società postindustriale, Rimini appunto, luogo ove trionfa lo statuto ambiguo caratteristico della nostra at- ..,,. tuale condizione, sospesa tra natu- c::s .s ra e cultura, povertà e ricchezza, ~ afferm~ione di sé e invece repres- ~ sione, patimento di ingiurie, di de- ~ °' privazioni. In fondo, anche gli an- -. tieroi, i protagonisti «sottozero» di 1; Celati potevano avventurarsi fino ~ a Rimini, lungo la loro rotta pada- ~ na. Ma certo vi si sarebbero ancor i:! più chiusi in un arido esercizio di ~ epifanie fredde, implose. Tondelli t: tenta invece, con successo, la via ~ dell'esplosione, della dilatazione Ì smisurata. ~

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