Alfabeta - anno VII - n. 78 - novembre 1985

re in una certa maniera i piedi per terra ... Non ho nessuna ragione per invidiare le armonie esistenziali di un operaio cinese: mi sembra tuttavia fuori discussione il fatto che i nostri comportamenti sono meno armonici, più complessi e più diversificati dei suoi. La sfera d'azione dell'uomo occidentale è tendenzialmente segmentata in dimensioni separate fra loro. Se un operaio di Liverpool o di Milano si mettesse gentilmente a danzare prima di entrare in fabbrica - ammesso che sapesse come e cosa danzare - farebbe certamente accorrere l'ambulanza e verrebbe rapidamente internato in un istituto per le malattie nervose. Perché il nostro operaio di Milano verrebbe tranquillamente accettato se invece di danzare cantasse? La danza è un'arte giovane: ha acquistato una vera autonomia professionale ed espressiva da meno di un secolo, da quando cioè ha cominciato ad uscire dal ghetto operistico e coreodrammatico. A differenza della musica, arte vetusta, che è inserita in tutti gli interstizi della coscienza collettiva, la danza nella nostra cultura non ha ancora potuto dissodare quel terreno intermedio che permette ai dilettanti illuminati, ai non danzatori, di farne l'esperienza diretta, evitando loro di guardare alla danza come a qualcosa di intoccabile, come a una sorta di inimitabile acrobazia mistico-poetica. La musica ha sempre avuto ed ha ancora questo terreno intermedio, questo ponte che collega concretamente chi produce e chi riceve la musica. Sino a circa la metà del secolo scorso gli ascoltatori di musica, il pubblico dei concerti, era per la maggior parte costituito da esecutori potenziali, l'interesse musicale dei quali era fondato anche sulla loro stessa possibilità di eseguire in privato le musiche che ascoltavano. La ragione delle trascrizioni così in voga nei secoli scorsi era in D ue pittori celebri, Poussin e Pourbus, entrano nell'atelier di un terzo pittore, loro maestro. Lui è vecchio, geniale, sembra folle, forse è immaginario. Ha nascosto a tutti, per tutta la sua vita, il suo capolavoro, La belle noiseuse. Un velo di sargia verde maschera la tela. Poussin e Pourbus sono entrati. Sollevano il velo. Davanti a loro la tela non è altro che un caos delirante di colori, di toni e di forme, un disordine che nulla fa vedere né comprendere. In un angolo, tuttavia, rimane di questa distruzione un piede vivente, delizioso, bello. Poussin e Pourbus, protesi, sconcertati, guardano. Dietro di loro Gillette, modella, nuda, silenziosa, abbandonata, si mette a piangere. Balzac ha raccontato nel Chef d'reuvre inconnu come la nudità si erge di fronte al disordine. L'incognito è il nudo e la moltitudine del confuso. Visi e corpi Talvolta incontriamo dei corpi singolari, che non lasciano alla . convenzione il loro viso. Il loro gesto non appartiene che a loro. Li riconosciamo sempre e dappertutto, tanto sono bizzarri. Sono loro e solo loro, sono quello, nient'altro. Se questi tipi particolari, così parte basata sul desiderio di possedere concretamente, col corpo e con l'intelletto, una musica che interessava e piaceva (sono poche le sinfonie classiche che non sono state trascritte per pianoforte). La danza, invece, non può esser trascritta, non può essere adattata ad altri «strumenti», non può essere semplificata o parafrasata. Il corpo non è sostituibile. Una stessa coreografia mal sopporta, il più delle volte, di essere trascritta in notazione; la forma del movimento non è cioè trascrivibile {ntermini astratti. In effetti una definizione stessa della danza è difficile, se non impossibile. Diventa addirittura difficile parlarne, tant'è vero che una grande quantità di discorsi sulla danza diventa spesso un esercizio di cattiva prosa poetica. L a musica di questo secolo ha modificato la sua struttura e le sue funzioni armoniche e la sua articolazione nel tempo. Il musicista si è spesso trovato a lavorare intuitivamente come un linguista: ha cercato di segmentare le sue operazioni musicali in morfemi e quindi in unità fonetiche non significanti ma tuttavia partecipi del significato. Si è trattato talvolta di un'operazione piuttosto astratta che non mirava forse alla possibilità di fondare una nuova «sintassi» e una nuova «fonetica» musicale (in musica non c'è la doppia articolazione né vige il rapporto langue-parole o lingua e letteratura) ma che ha senza dubbio aiutato il musicista a mettere le mani, analiticamente, nel microcosmo dei processi musicali e acustici e gli ha permesso di controllare in maniera più coerente e organica - cioè non aneddotica - fenomeni sonori armonicamente complessi che non trovavano posto nella musica costruita su prospettive tonali. Il rumore, nel senso più ampio del termine, è entrato a far parte della musica e con esso, fra le innumerevoli cose, anche lavoce che parla e i gesti vocali della vita di tutti i giorni. La musicavocale diventa sempre più indifferente al fatto che un testo possa essere poesia o prosa: il quotidiano e gli stereotipi vocali possono partecipare a pieno diritto alla costruzione di senso musicale. La musica, aperta alle discontinuità, può diventare strumento di osservazione della realtà acustica e gestuale e strumento di trasformazione e di trascendenza. Più profondo e sottile è lo sguardo sulla realtà e più significativi saranno, appunto, i processi della trasformazione e della trascendenza. Un ideale, questo, che era già presente nell'ultimo Beethoven quando, per esempio, nelle Variazioni Diabelli per pianoforte, un semplice ed elementare valzer viene trasfigurato e trasceso in dimensioni musicali fra le più alte di tutti i tempi. E la danza? Non sono certo uno storico della danza e posso quindi solo affermare che oggi mi interessa soprattutto quella danza che si pone quello stesso obbiettivo: di assimilare, sviluppare e trasformare - attraverso il grande tesoro di tecniche acquisite - situazioni, movimenti e spazi che recano il ricordo di esperienze familiari e quotidiane. Mi interessa la danza che riesce a percorrere in maniera significativa ed espressiva la distanza fra un dato reale e concreto, un modello, un archetipo e la scoperta di un altro mondo nel quale non possiamo né vogliamo evadere ma per il quale possiamo forse solo nutrire il desiderio di penetrarvi sempre più profondamente. Un .tipo di danza che non mi interessa, quindi, è quella priva di autonomia, che non trova in se stessa ma solo nella musica le sue ragioni espressive. È il caso questo della danza che cerca di tradurre· in movimento del corpo una percezione ovvia ed elementare della musica, che ne mima cioè i contorni e la retorica esteriore: nei casi peggiori abbiamo allora una musica veloce con movimenti veloci, una musica legata con movimenti legati, una musica discontinua con movimenti discontinui e così via. Vorrei però aggiungere, en passant, che se questo avviene deve essere il risultato (o la causa) di processi di identificazione più profondi fra danza e musica. Come può accadere a due interlocutori che si trovano momentaneamente d'accordo nel corso di una discussione e, per un istante, usano parole e inflessioni analoghe. N utro, in fondo, lo stesso disinteresse per quella musica vocale il cui fraseggio e la cui struttura mettono in evidenza, seguendola pedissequamente, la prosodia, la metrica e i procedimenti allitterativi (cioè gli aspetti più ovvi) di un testo poetico. Ma non sono neanche un fautore dell'indifferenza fra la dimensione strutturale della danza e della musica la cui unione è, a priori, sempre arbitraria (com'è d'altronde arbitraria l'unione fra parola e musica e, seppure di natura un po' diversa, anche l'unione fra suono e significato nella lingua che parliamo) per quanto sia perfettamente consapevole che l'arbitrarietà è, come spesso il caso, talvolta dotata di una stupefacente immaginazione. Sono invece un fautore dell'autonomia programmata delle due dimensioni e di una coordinazione dei loro diversi graIl ball od'Alba originali, non portassero su di sé nessuna traccia di banale, li giudicheremmo un po' più che eccentrici, saremmo un po' inquieti, forse li spingeremmo verso gli asili. Dobbiamo al convenzionale anche la possibilità di comunicare tra di noi. Ci vuole un po' di stereotipo su ogni viso. Con ogni probabilità il vecchio pittore del capolavoro sconosciuto è stato detto folle per essere arrivato a capo delle singolarità della belle noiseuse. Fino al dettaglio più infinitesimale di ciò che cambia. Chi non è altro che se stesso è un autista. Questa insularità fa scorgere una generalità simmetrica. Incontriamo anche puttane o sensali in politica, o uomini di Stato. Di rado esaminiamo il loro viso e i loro corpi. Esse camminano e loro passano, si offrono e non si danno. Contrariamente a quanto lascia supporre il caricaturista o l'imitatore, l'uomo pubblico è irric.onoscibile,non è più un tipo particolare. Non è altro che un operatore per il mimetismo. Cancella dal suo corpo ogni spigolo singolare, è modellato di rilievi lisci. Il suo sguardo non si ferma su nessuno, la sua maschera spiana le sue rughe, addolcisce verso il banale ogni originalità. Corpo pubblico inespressivo, abitato di convenzionale, stereotipo, è un concetto, una classe, un quasi-oggetto. Gli asili psichiatrici ospitano 1 super-soggetti, le istituzioni politiMiche/ Serres che ricompensano gli infra-soggetti. Questi habitat sono simmetrici, l'ho già detto. Basta avere in mente lo schema stellato uno-multiplo perché queste cose, già semplici, siano chare. La puttana o l'uomo di Stato hanno rapporti solo con la moltitudine. Devono diventare un denominatore comune. La truccatrice copre di crema viscosa il volto da vedere alla televisione, e non è, come si crede, una semplice questione di luce, è che l'uomo pubblico calza la maschera di teatro, che i latini chiamavano persona. Voi che entrate qui, cancellate ogni differenza, abbandonate ogni singolarità. Come averle cacciate una volta..per tutte, e dare alla pelle questa pura capacità di molteplicità. Come non essere più nessuno, (personne), puro fantasma astratto che ogni osservatore crede di riconoscere. Questo uno che si lascia vedere dalla moltitudine è anche alla ricerca di un'iconografia. Ogni voyeur deve potervi prendere il suo piacere. I greci chiamavano simbolo un frammento di terracotta rotto, sbrecciato irregolare, che si adattasse con precisione solo al secondo frammento della stessa rottura. Il rapporto unico tra due unità singolari fa vedere la specificità nello spazio. Una chiave ben lavorata ha lo stesso rapporto con la sua serratura originale. Non ha nessun rapporto con le altre serrature. Cancellate le dentellature della chiave, del simbolo, e si cancella tutta la loro stereospecificità, questa entra in un numero crescente di serrature, quello si adatta a un numero crescente di frammenti. Liscia, la chiave diventa passe-partout. Il rapporto uno-multiplo è tanto più facile quanto più l'uno è indeterminato. Se è determinato, esclude molto, nega, il simbolo non si adatta a nessuno, la chiave non serve quasi a niente. Moltiplicate la dentellature: la chiave diventa autista, solipsista. Se l'uno è indeterminato, se non è prossimo a nulla o vicino a nessuno, esso si adatta molteplicemente. Il viso fantasma avanza verso l'astratto. Più è liscio e bianco, più attira clienti nel suo vuoto. Svetonio diceva di Cesare che era la moglie di tutti i mariti, e il marito di tutte le donne. Cesare era più uomo di Stato in questo che non nelle campagne di Gallia. Ecco su questo viso liscio la capacità del multiplo che si può chiamare il possibile. C'è il possibile complesso e intrigante, c'è il virtuale bianco. C'è caos per sovrabbondanza di presenza, caos per assenza bianca. La puttana dal trucco livido è la donna, una donna possibile, il seduttore vago e biancastro è un uomo possibile, l'uomo di Stato, viso pallido e verbo grottesco, è promessa di qualsiasi di di complessità. Una dimensione musicale complessa non può essere degradata da una concezione coreografica elementare così come una coreografia di grande spessore semantico non può essere messa a contatto (né può esser generata da) con una musica triviale. Parlo di concezione generale e non di momenti puntuali. Un pensiero coreografico sufficientemente complesso può anche giustificare la contiguità di Bach e di un tango argentino; può anche giustificare il silenzio o l'immobilità. La musica che lentamente si spegne e poi muore mentre la danza aumenta di intensità ed esplode (o viceversa) può essere un processo molto significativo ed espressivo (l'ho osservato anche nell'opera cinese tradizionale) solo a condizione di far parte di una concezione globale molto articolata e complessa. Dov'è adesso l'operaio cinese? È in fabbrica che lavora, con quelle stesse mani e con quelle stesse braccia con le quali aveva prima dolcemente danzato. Ha in comune con un grande ballerino occidentale un fatto fondamentale: lo strumento della sua danza è lo stesso corpo che, terminata la danza, compie i gesti e le azioni della vita di tutti i giorni. Terminata la danza, il corpo non viene chiuso in un armadio così come un cantante, terminato il canto, non mette la voce in un astuccio. Questo dualismo indissolubile fra la dimensione estetica e la dimensione quotidiana che si incontrano nel corpo (o nella voce) fa sì che ogni gesto del danzatore sia (come ogni gesto vocale), per sua natura, tendenzialmente espressivo e significativo: esso viene sempre implicitamente illuminato dal comportamento quotidiano del corpo recandone continuamente e sottilmente le tracce. È questa consapevolezza che fa evolvere la danza. (Traduzione di Isabella Pezzini) cosa, la banderuola gira secondo i capricci della brezza. Al limite chi è capace di tutto deve chiamarsi «nessuno» (personne). I rilievi singolari, livellati, sono annegati dall'ondata delle acque bianche. La puttana e l'uomo di Stato sono capaci di tutto. Ulisse re e amante di Circe, la donna delle metamorfosi, Ulisse si chiama «nessuno» (personne). Porta in giro a caso la propria maschera sulle acque. Ulisse è scaltro, si adatta: Ulisse è scaltro, è capace di tutto e di tutti e di tutte. Ulisse è possibile, è liscio, si chiama nessuno, è bianco. Pensieri Chi sono, io, mentre penso? La risposta a questa domanda dipende dalla sua indeterminatezza. O io pen~o, o io penso qualcosa. lo penso non significa che io pensi qualcosa. Io penso significa l'attività stessa che pensa, che si muove, cresce e mi risveglia, che si sviluppa come edera in un luogo mal assegnabile che pare abbia una qualche collocazione in me. Posso pensare senza pensare a qualche cosa? Certo. Ma quando penso un certo oggetto, un certo soggetto, non c'è alcun dubbio che io sia questo soggetto, questo oggetto, se veramente io li,penso. Quando penso un certo concetto, io sono tutto intero questo concetto, quando penso l'albero sono albe-

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