Il «gold standard», ricorda il giornale, fu travolto dopo il 1929dalla Grande Crisi; ma per un secolo aveva assicurato la stabilità e la crescita degli scambi e del c:redito a livello internazionale, sotto la leadership politica ed economica della Gran Bretagna. «Nel 1929la Gran Bretagna non poteva più» svolgere questo ruolo, come osserva Charles Kindleberger nel suo studio della Grande Depressione, «e gli Stati Uniti non volevano». Ma verso la fine della seconda guerra mondiale, a Bretton Woods, nel 1944 l'inglese Keynes e l'americano Harry Dexter White (morto di attacco cardiaco dopo la guerra, il giorno prima di comparire davanti a una commissione del Congresso per difendersi dall'accusa di essere una spia comunista, ricorda l'editoriale) riuscirono a disegnare un sistema monetario basato sulle parità fisse e agganciato, attraverso il dollaro, all'oro: «la prevista depressione postbellica fu scongiurata- scrive The Wall Street Journal - e si aprì una generazione di sviluppo e di progresso» durante la quale gli Stati Uniti giunsero alla maturità come leader finanziario mondiale. Il 15 agosto 1971Richard Nixon decideva di troncare la parità fissa del dollaro con l'oro, togliendo l'ultima ancora del sistema monetario. «Non fu un fulmine a ciel sereno», ma l'ultimo di una catena di atti. In ogni caso, le riserve monetarie internazionali raddoppiarono fra il 1968 e il 1971, raddoppiarono ancora entro il 1973, e di nuovo entro il 1979. «Il mondo fu imbarcato nella grande inflazione. I suoi sintomi includevano l'Opec e i petrodollari, e la saggezza maniacale diceva che la crosta terrestre ·stava esaurendo le proprie risorse. In effetti iI problema era il collasso del sistema monetario internazionale», scrive lapidariamente il quotidiano di New York. Secondo il Wall Street Journal, la grande inflazione è finita con gli anni Ottanta e con la designazione di Paul Volcker alla presidenza della Federai Reserve: la crescita delle riserve internazionali è cessata, ed anzi vi sono i segnali di una certa deflazione. «Ora abbiamo a che fare con la pena della cura, ciò che chiamiamo crisi agricola, crisi del debito internazionale, deficit commerciale e così via. Il nostro problema è fronteggiare i valori finanziari costruiti dall'inflazione e sgonfiati dalla sua fine, un compito delicato nel corso del quale il paziente potrebbe essere ucciso sia dalla malattia sia dalla cura». Quest'ultima frase racchiude un po', a nostro giudizio, il «senso» della delicata fase in cui versa oggi il sistema economico e finanziario mondiale. La malattia monetaria ereditata dagli anni Settanta non è risolta, può anzi sfociare in una nuova Grande Depressione, innescata da un'ondata protezionistica e/o da un collasso finanziario; la «cura» deflazionistica di Volcker, lascia capire The Wall Street Journal, alla lunga è altrettanto mortale della malattia. L'economia mondiale è al bivio. Secondo il quotidiano, gli Stati Uniti debbono assumere la leadership e condurre il mondo verso un nuovo sistema monetario, una «nuova Bretton Woods», verosimilmente ripristinàndo l'oro nella ~ sua funzione di «ancoraggio» delle •5 monete. La conclusione dell'edi- ~ ~ :G °' ...... toriale è suggestiva, anche se un po' criptica: «Sarebbe un conforto se fosse più facile credere che da qualche parte nel governo (americano) c'è un Harry Dexter White che sta indagando la crisi attuale e tentando di disegnare un ordine più stabile». ~ Abbiamo detto che l'editoriale ~ del W ali Street Journal è sorpren- 1 dente. Per valutarne meglio la ~ portata si tenga presente che gli osservatori hanno parlato di una «svolta» (o addirittura di un «dietrofront») nella politica economica di Reagan quando all'Hotel Plaza, il 22 settembre, gli Stati Uniti hanno concordato con i propri principali partner un intervento comune per tenere sotto controllo le parità monetarie (sia pure in termini piuttosto ampi e secondo obiettivi che non sono stati resi pubblici). Per anni, l'amministrazione Reagan sembrava fare dei cambi fluttuanti una specie di vangelo, indicando nel «libero mercato» l'unica sede appropriata per stabilire le parità monetarie. Per anni, gli europei - à dire il vero soprattutto i francesi 7" hanno insistito invano sul ritornello degli effetti devastanti che i cambi fluttuanti avevano sui flussi finanziari internazionali e sugli scambi commerciali, quindi sulla necessità di negoziare un nuovo accordo monetario mondiale. Ora, un giornale come The Wall Street Journal, che verosimilmente riflette non trascurabili interessi nel mondo economico e finanziario Usa, giunge a fare l'apologia di Jacques Rueff, l'economista francese di ispirazione gollista, implacabile critico della posizione del dollaro e dei cambi fluttuanti, instancabile profeta di un nuovo sistema monetari0 internazionale basato sull'oro. S arebbe errato considerare la presa di posizione del Wall Street Journal come un segnale univoco della strada che la politica americana imboccherà in futuro. Tuttavia è un segnale non trascurabile. Il survey dell' Economist riflette un punto di vista diverso (altrettanto autorevole) e giunge a conclusioni diverse; tuttavia, è significativo che anch'esso muova dal presupposto che il regime monetario basato sui cambi fluttuanti ha fatto il suo tempo. È un ulteriore indizio che potenti forze sono dirette verso una riforma monetaria di qualche tipo e che le sofisticate discussioni all'interno del «Gruppo dei 600»stanno erompendo in ambiti più vasti, politici e finanziari, se non ancora nella pubblica opinione più vasta. Si pone un duplice quesito: quale sarà la natura della riforma in discussione? La sua applicazione giungerà in tempo per impedire che, secondo l'espressione del Wall Street Journal, il paziente perisca per la malattia o per una cura impropria? The Economist sottolinea il fattore tempo. Secondo il settimanale inglese, ciò che chiedono i francesi e «l'occasionale scivolone di una lingua americana» (riferimento un po' oscuro, forse diretto al Wall Street Journa[) - cioè una conferenza .monetaria internazionale - «sarebbe un disastro». Una conferenza monetaria, infatti, solleverebbe aspettative troppo vaste, provocherebbe incertezza nei mercati, sarebbe verbosa e destinata a concludersi con un comunicato pieno di stereotipi: «la causa della riforma monetaria subirebbe un arresto per anni». Invece, già durante il 1986«pochi governi potrebbero fare di più per la riforma monetaria qi quanto riuscirebbero a combinare una dozzina di conferenze nel resto del secolo». Questi «pochi governi» dovrebbero essere tre, quelli degli Stati Uniti, del Giappone e della Germania Occidentale; o al massimo cinque (aggiungendo Gran Bretagna e Francia) come nella riunione dell'Hotel Plaza. Secondo The Economist, questi paesi dovrebbero coordinare strettamente le proprie politiche monetarie e fiscali. I governi dovrebbero guidare i tassi di cambio secondo obiettivi fissati in comune, senza però renderli di pubblico dominio; viceversa, dovrebbe essere reso esplicito il quadro delle politiche fiscali e monetarie concordate, «poiché sono queste a far muovere i capitali». Nella visione del survey, la questione cruciale è: i mercati valutari e i tassi di cambio devono servire il commercio internazionale oppure i flussi finanziari? Il sistema varato a Bretton Woods era inteso soprattutto al primo scopo; il sistema basato ~ui cambi fluttuanti ha servito soprattutto il secondo, ai danni del ppmo. Il fatto è che il sistema di B~etton Woods implicava un notevole grado di controllo sui movimenti internazionali di capitale. A partire dalla creazione del mercato. dell'eurodollaro negli anni Sessanta, una massa sempre più ingente di capitali si è «ii,.ternazionalizzata» ed è sfuggita al controllo delle banche centrali e dei governi. ,Imovimenti di capitale da un paese all'altro hanno cominciato a soggiacere sempre più a ragioni finanziarie, più che a ragioni inerenti al commercio internazionale. La pressione risultante sui cambi è cresciuta a dismisura: il sistema di Bretton Woods è saltato; solo un sistema di cambi fluttuanti poteva tener testa ai movimenti erratici di capitali. Ma la conseguenza è che il mercato valutario tende a sottovalutare o a sopravvalutare una moneta senza una relazione apparente con le ragioni di scambio, cioè con i costi di produzione dei beni e dei servizi scambiati. Si ha così il fenomeno. di overshooting delle monete, che vengono «sparate» in basso in alto da movimenti di capitale che rispondono a logiche più finanziarie che commerciali. Secondo il survey dell' Economist, oggi è impossibile cancellare l'esistenza di un mercato finanziario su scala planetaria che grazie alle nuove tecnologie opera ormai 24 ore su 24; ritornare ai controlli sul movimento dei capitali previsti dal sistema di Bretton Woods è quasi impossibile. «Questo survey sostiene che la scelta fra servire il commercio e servire la finanza non è necessariamente estrema. Ignorate gli effetti sul commercio dell'overshooting delle monete, e il mondo scivolerà in una depressione protezionistica. Ma i controlli sui capitali sono finiti, e non potrebbero essere reintrodotti con efficacia. Così i governi dovrebbero abbracciare ciò che era implicito nel sistema di Bretton Woods: il coordinamento delle politiche, . con lo scopo di incoraggiare i movimenti di capitale a produrre tassi di cambio tali da sostenere il commercio internazionale». The Economist riconosce che «non c'è una strada facile per arrivare a questa situazione», perciò il «prossimo anno sarà critico». Assumendo un punto di vista ottimistico, si può pensare che i governi respingano le pressioni protezionistiche, riescano a gestire la crisi del debito, a promuovere a casa propria le politiche economiche necessarie a evitare una recessione e a mantenere i tassi di cambio vicini allo schema più adatto a sviluppare il commercio internazionale. Ma «sei mesi dopo» le monete riprenderebbero l' overshooting, cioè a puntare nella direzione •sbagliata sotto la pressione dei movimenti di capitali: «durante quei sei mesi - conclude il survey - pochi governi potrebbero essere altrettanto determinanti di quanto lo furono 44 governi a· Bretton Woods. Se essi perderanno la chance, nessuno lo noterà immediatamente. Ma tutti, alla fine, ne soffriranno». N on è difficile notare che l'approccio suggerito da The Economist è p~ù pragmatico di quello suggerito dall'editoriale del Wall Street Journal, e più preoccupato di quanto potrebbe o dovrebbe accadere nel breve periodo. Se il quotidiano americano sembra sostenere che occorre una nuova Bretton. Woods e un ritorno ai cambi fissi (probabilmente ancorati all'oro o a qualcosa di analogo), il settimanale inglese sostiene che, nelle condizioni attuali, il mondo non si può permettere una conferenza stile Bretton Woods: non ne ha il tempo. Forse, non ha neppure gli strumenti indispensabili. Come si vede, i margini di incertezza sono ancora notevoli. Non è detto che gli approcci suggeriti dai due giornali siano incompatibili o contrastanti. Ma è anche possibile che ciascun approccio si basi su visioni ed interessi che, alla fine, potrebbero risultare inconciliabili. In maniera molto approssimativa, sembrerebbe che il Wall Street Journal ritenga che il sistema monetario dovrebbe servire innanzitutto lo sviluppo del commercio internazionale, mentre The Economist ritiene che esso dovrebbe servire anche il mercato internazionale dei capitali, e che le politiche dei governi dovrebbero rendere compatibili le due cose. Tuttavia, i punti di coincidenza fra le due diagnosi sono degni di nota. Sembra emergere una consapevolezza generale che il sistema dei cambi fluttuanti abbia fatto il suo tempo e comporti una minaccia mortale al commerciq e all'economia mondiale. E che perciò è urgente stabilire un nuovo ordine nelle relazioni monetarie che non anteponga le realtà puramente finanziarie alle realtà della produzione, degli scambi e dello sviluppo. È singolare che sia The Economist sia The Wall Street Journal abbiano avvertito il bisogno di inquadrare analisi e proposte in un'ampia prospettiva storica, in una vera e propria «rilettura» della storia monetaria ed economica di questo secolo. Naturalmente, in questa sede abbiamo dovuto ridurre a una sintesi estrema problemi molto complessi, non solo per il lettore, ma anche per noi. Tuttavia riteniamo che The Economist abbia ragione nel dire che si tratta di un «everybody's business», di un affare d,i tutti. Sarebbe importante stabilire un background che renda più leggibili le notizie che, di volta in volta, i media propongono su questo o quell'evento valutario, su questa o quella riunione di «monetièri». Può darsi che i governi scelgano una strada di accordi riservati, più vicina a quella suggerita dall'Economist; in questo caso sarebbe più difficile pet l'opinione pubblica rendersi conto della portata degli avvenimenti in corso. Ma può anche darsi che le differenti visioni di ciò che dovrebbe costituire la «riforma del sistema monetario» emergano in un contrasto più aperto. In questo caso, l'opinione pubblica verrebbe probabilmente «mobilitata>>dai media a sostegno di una o dell'altra tesi, e potremo apprezzare in pieno il «terribile gap» fra le discussioni «serie ed intelligenti» del Gruppo dei 600 e l'ignoranza dei più. Per ora ci basta sapere ch,e, dietro le quinte, si sta preparando qualcosa che deciderà il corso degli avvenimenti mondiali nei prossimi decenni. 6hertani editore Via S. Salvatore Corte Regia, 4 37121 Verona - Tel. 045/32686 ADELINO ZANINI KEYNES: UNA PROVOCAZIONE METODOLOGICA Il «Continente Keynes» e l'Europa del '900: metodo e norme Saggio introduttivo di Siro Lombardini GEORGEBERNARDSHAW LE RAGIONI DELLA PACE I Fablanl, Il Socialismo e la Guerra A cura di Vincenzo Ruggiero il LUDOVICO GEYMONAT SCIENZA E STORIA Contributi per uno storicismo scientifico A cura di Fabio Minazzi DISTRIBUZIONE: RETI REGIONALI bertani editore GUIDA EDITORI Archivio del romanzo STIG DAGERMAN L'isola dei condannati A cura di V. Monaco Westerstahl pp. 270 Lire 18.000 OIN LING HUANGLUYIN BING XIN Tre donne cinesi A cura di M. Biasco Pref. di E. Masi pp. 208 Lire 18.000 CARLOTENCA Ca' dei cani A cura di Marinella Colummi Camerino pp. 156 Lire 15.000 ----------------------·---------------- -----------•
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