Alfabeta - anno VII - n. 78 - novembre 1985

Uno spettacolo di follia G li spettacoli che per un triennio si sono dati col titolo L'Orestea di Gibellina (sulla base fondamentale di tre testi drammatici in varia lingua di Emilio Isgrò) si presentano come un'operazione letterariae artistica che si richiama al mito; alla mitologia, particolarmente greca: e a me pare che non sia propriamente così. Mi spiego fra poco. Ritengo anzitutto che un'operazione così pensata oggi non sia rigorosa, non risponda, pur con l'autonomia dei suoi modi, al livello del/'antichistica nuova. Il mito per noi è documento delle civiltà che anco;a non hanno materiali scritti: ci serve, come i fossili, per la preistoria. È vero che oggi si fa un granparlare del mito, che sarebbe tornato attuale: ma ciò significa solo, o piuttosto, che prevalgono le tensioni mistiche o sacrali, e le osservanze al papa, i gusti arcaizzanti e l'abisso del passatismo. È vero ancora che, contro cio che sto dicendo, c'è un luogo di Marx del '57; egli mette insieme «mito» e «sentimento collettivo» (a cui si lega l'individuo sociale e perciò anche il poeta) trovando così un nesso fondamentale fra un'opera e l'epoca di civiltà che viene nell'opera cristallizzata, in modo tale da durare (relativamente a una certa comprensione complessiva) oltre la sua stessafine di epoca di civiltà. Io penso in breve che questo importantissimo nesso, su cui pure si è esercitata tutta la cultura estetica • del novecento, resta valido, come scoperta teorica, mentre va scisso il riferimento al mito greco come tale. Ma è insensato eleborare ancora i miti attraverso la trasposizione che ne hanno dato le tragedie o i poemi antichi. Tutt'insieme a questa grossa e minima precisazione, io ritengo che l'interessantissimo lavoro di Isgrò, Pomodoro, Pennisi, Crivelli, Benedetti, Nogara, Balistreri (ciascuno con un suo contributo apprezzabile come originale) non ha a che fare con una rilettura attuale del mito (quello trasposto appunto nell'Orestiade). Anche se si èpresentato come tale nel primo testo (1983), prevalevano allora: stra nel passato ponendola di volta in volta sotto l'insegna del «cinema d'autore», del «cinema è vivo» e ora, nell'anno in cui la settima arte celebra il proprio novantesimo anniversario, del «cinema giovane». M a l'identificazione del cinema col mondo pone il problema degli autori in termini radicalmente diversi da quelli in cui si presentavano a Chiarini negli anni Sessanta e la fine del cinema nella spettacolarizzazione della realtà fa sì che esso possa vivere soltanto la propria fine, mentre il rapporto dei giovani col cinema è di norma costituito dalla loro autorappresentazione in c::s prodotti linguisticamente semplifi- -~ cati e tecnicamente modesti (si c::s c:i.. confronti la sezione «De Sica»), o :G dall'identificazione (che è pur O\ -. sempre una forma di autorappre- ] sentazione) nella spettacolarità ~ diffusa di opere, altrettanto sem- ... plificate linguisticamente, ma nel- g le quali la tecnica si rappresenta in ~ tutta la sua ricchezza (si confronti «Venezia giovani»). Così le bandiere innalzate da Rondi rischiano ~ l di rivelarsi simulacri, apparenze di ~ una realtà ormai travolta dai proFuori del mito l'invenzione della memoria di un carrettiere, magari vittoriniano, e la retorica della lamen.tazionedialettale dei mali e dei lutti; insomma c'era un trattamento straniante della materia. (E per tutt'altro esempio avviene così quando oggi Miche/ Serres si riferisce a Hermes). Il secondo testo era già impastato di pretesti, digressioni, svuotando il peso portante del mito. Oggi, mi dice Isgrò, il mito non gli interessa più. Artista d'invenzione eccellente d'avanguardia, e già troskista, nelle lettere ha puntato sempre sulla «trovata», in senso ottimo; e qui sta facendo, mi sembra, un considerevole paradosso teatrale, ora. Mi dice: «Forse in teatro dobbiamo noi ora proporre a piccoli pezzi l'elemento verbale»... Sta perdendosi infatti nella stupidità l'avanguardia teatrale visiva, eccetto Kantor sempre, e l'Amleto di Leo De Berardinis. Si recita pesante e mortuario. Ora Villa Eumènidi è un'azione singolare: sposta al sogno e alla follia la relativa realtà mitica e storica rappresentata prima per due anni, e dunque la cancellao la sospende. Poiché nella ripresa c'era un'intenzione di canto e giudizio sulle pene siciliane e universali, ora, giunti al dunque, allapacificazione, all'eumenidèo, c'è invece una dissolvenza: primo, per non pronunciarsi, che porterebbe guai, secondo, perché l'unica pace possibile è dunque nella follia. Qui tutto va bene o tutto va male, si può sceglieremotto; c'è una clinica di lusso storico e dunque l'inquisitore, i marinai sovietici e i petrolieri texani, e gli altri speculatori, hanno una identità fittizia e comunque indifferente: non perché il tessuto è qui semplicemente linguaggio, il che sulla scena non tiene, ma perché tutti recitano nel manicomio. Non nel mondo, il che sarebbe generico; ma nel manicomio. Bella idea. Non piran- • de/liana. Poiché non ci sono certezze neppure nella scienza, oltre che nella storia, tutti sono somma- . riamente perdonati, nell'ambito della procedura ospedaliera. E viene posto un problema: come giudicare, e chi, oggi? Isgrò dunque se l'è cavata abilmente e bene; tenuto conto che il suo tema era di fondi mutamenti subiti in questi anni dalla produzione cinemato-. grafica, dalla tecnica, dal pubblico e dalla struttura del mercato internazionale (non a caso l'ultimo film del giapponese Kurosawa anziché a Venezia va al neonato Festival di Tokyo e l'italiano Fellini preferisce New York per l'anteprima mondiale di Ginger e Fred). Nonostante Venezia 85 sia riuscita a ottenere un discreto nume~ rodi film interessanti (perfino l'omaggio a Walt Disney dalla omonima casa, notoriamente contraria ai festival, anche se in forma talmente ridotta che forse era meglio rifiutarlo), resta il fatto che la risposta della Mostra ai problemi che la situazione attuale pone con urgenza è stata sostanzialmente quantitativa. Si sono moltiplicate le sezioni (che hanno raggiunto il numero di undici, comprese quella di videomusica e quella televisiva), ci si è prodigati nello sforzo di abbracciare insieme le origini del cinema e il suo futuro elettronico (rivelandosi inadeguati nell'uno e nell'altro caso), si è voluto celebrare i quarant'anni della Liberazione... insomma, come dice Rondi stesso nella presentazione al catalogo, Tutti insieme appassionaFrancesco Leonetti e Eleonora Fiorani far pace... La lingua convince meno. Delle tre satanasse (e una quarta anche) che fanno scorribande sulle scene, bene illuminate, che dire? ognuno le vorrebbe sue in uno spettacolo. La Benedetti è degna di un grande stile, sarebbe capace di portarlo in giro col suo passo. La Nogara è insieme voce assoluta femminile e ginnastica. La Ba- • listreri è l'antichistica siciliana in un assolo. Gli uomini a me-non piacciono. Né i pupi. Tutte le macchine di scena del Pomodoro Arnaldo vanno elencate e illustrate in una pubblicazione speciale: oltre che figurare, certo, in museo a Gibellina Nuova, fra le opere d'arte già sparse dei Consagra, dei Gregotti, degli Scialoia, dei Purini, degli Spagnulo (tutto il «manicomio» dell'arte è qui, mentre quello letterarioè distanziato a Mandello). Ma le portantine di Arnaldo potrebbero servire anche a letture di poesia... Queste stesse nell'originale in forme di sculture sono apparse su Firenze nella mostra al Forte del Belvedere del/'84. Quest'anno, come osserva Quadri con infallibile occhiata, è meraviglioso il drago cinese a centinatura metallicaportato e quindi sparso a pezzi, come giardino, sui cumuli di sassi terremotati (apertura, si direbbe, di tutta la serie dei testi). Lo spettacolo andrebbe firmato. da Isgrò e Pomodoro insieme. Il secondo autore però non coincide nel senso finale di sospensione del giudizio: la sua diversa visione è data allafine da un tiraggio di corde dall'alto, con le comparse correnti sui gradini, in un groviglio sbalorditivo di strappi, conflitti e dialettiche. Nulla c'entra a mio parere, per finire, Gibellina in rudere. Su cui si dà lo spettacolo. Sembra una rovina artificiale come scena. Ma è anzi giusto così: si sa che, per indurre ad andare a teatro, e ricordarsene favoleggiando, il luogo deve essere orrido, difficoltoso, pericoloso nelle strade e gelido dalle gole: perfettamente riuscito. Inoltre, vedendo che il più (lavoro, verità) non si compie, ogni attenzione di lussuosi turisti è bene che sia portata dal sindaco eccellente di Gibellina sul rudere stesso, sul nuovo, e sugli altopiani della stupenda, incomprensibile e tamente. Ma non è detto che lo stare insieme ed essere appassionati sia sufficiente a produrre il nuovo: le sezioni, anche quelle nuove, non sono di per sè innovative, spesso si limitano ad essere dei piccoli festival nel festival («Venezia genti» è un Festival dei popoli ridotto, «Venezia TV» una sorta di Teleconfronto, ecc.) senza riuscire a costituire articolazioni in qualche modo organiche a un disegno unitario. In questo modo gli aspetti qualitativi, che pur non vanno sottovalutati, si disperdono nel tutto in cui sono disseminati lasciando emergere sostanzialmente una immagine della Mostra che la spinge a ridosso del Festival di Cannes, dal confronto col quale non può che uscirne perdente. Anche il fatto che Venezia, a differenza di Cannes, non abbia il Mercato (la sezione, che ha anche Berlino, in cui i produttori possono esibire i loro film agli eventuali compratori), costituisce in questa situazione un elemento di debolezza anziché di qualificazione culturale. Cannes, infatti, ha scelto deliberatamente di essere lo specchio della totalità in cui di anno in anno si manifesta la realtà cinemafatale, Sicilia. Mito e modernità È utile forse in più, in questa occasione, una breve e semplice nota . sul tema della elaborazione letteraria e artistica del mito, ovvero delle stesse tragedie o testi che lo trasmetterebberoa noi. Che cosa è il mito, luogo continuamente e ossessivamente rivisitato dalla modernità? La mitologia, ovvero la scienza del mito, è un'invenzione moderna, ci avverte Detienne (L'invenzione della mitologia, 1981, ed. it. Torino, Boringhieri, 1983). È un'operazione complicata che comincia nella Grecia stessa, già con l'interpretazione e trascrizione del mito, in Esiodo e in Omero, poi con Ecateo e Platone. Ogni interpretazione costituisce inevitabilmente una codificazione, o una presa di distanza, e sempre una trasformazione, in un altro, d'un tessuto antecedentemente vivo e totalizza'}te il modo d'essere di una civiltà. Anche le tragedie, ci avvertono Vernant e Vidal-Naquet (Mito e tragedia nell'antica Grecia, Torino, Einaudi, 1976), prendono avvio quando il linguaggio.del mito non fa più presa sulla nuova realtà, quella della polis. E le tragedie sono figlie della città, del mondo rotondo dell'uguaglianza dei cit~ tadini, della scrittura, del testo, dell'istituzione rappresentàta: è questo mondo che annulla o cancella la funzione dellaparola mantica, della cultura orale, e cioè il mondo del mito, il cui racconto suscita emozione, iscrivendosi nell'ordine del sacro. Entra in antagonismo con esso, lo respinge o se ne appropria, trasformandolo e annullandolo dal/'interno. Dunque la tragedia classica si colloca sempre fra due mondi: l'uno fa riferimento al mito, di cui trasla i significati e sposta i contenuti; l'altro alla nuova realtà cittadina. Diversamente dal mito, che è senza tempo e senza spazio, la tragedia è un evento che ha un tempo e un luogo, è un testo letterario e un'istituzione collettiva. L 'antichistica ha ricostruito questo passaggio, ne ha mostrato la complessità e l'ambiguità. Ha insieme affermato la propria consapevolezza della radicale differenza tra il mondo dell'oralità, tografica e opera conseguentemente in questo senso, mentre Venezia si approssima di fatto, per mancanza di scelte consapevoli, a quel modello e quindi, senza contare che non può raggiungere il rivale francese· sul suo terreno per ragioni storiche e strutturali, appare oggettivamente una rappresentazione incompleta dell'esistente rispetto a quella esibita al nuovo Palais sulla Croisette. 11 rim?sso ritorna e _ritornacome smtomo nevrotico sempre più grave: il problema aperto della radicale critica antistituzionale che nel Sessantotto costituì lo sblocco finale delle avanguardie e la fine del cinema stesso (almeno come fino ad allora lo si era inteso), vale a dire il problema di che cosa deve essere una grande istituzione internazionale di cultura cinematografica dopo la fine delle istituzioni e del cinema, non può più essere disatteso. Continuare ad ignorarlo comporta la totale perdita di identità nella schizofrenia di una manifestazione che volendo contenere il cinema come arte ma anche come spettacolo, come cultura ma anche come mercato, come creatività ma anche codella bocca e dell'orecchio, e quello ·della parola scritta. Dunque siamo di fronte a una presa di distanza dal mondo greco arcaico. Che senso ha allora, da parte dei moderni, l'ossessiva, reiterata rappresentazione nel mito di un luogo delle origini in cui collocare il proprio modo di vivere, di ordinare il mondo e di rappresentare la propria esperienza e la propria emotività? Perché il mito continua ad essere un problema della società moderna? e di che tipo di problema si tratta? E quale ambiguità vi si cela?perché il mito certo non cessa di esercitare il proprio fascino, giungendo di volta in volta dal mondo originario delle pulsioni o degli archetipi, dai sogni o dagli incubi. Non possiamo sottrarci a questi interrogativi, se consideriamo persuasiva la ricerca del/'antichistica che viene dopo Lévi:Strauss e Gernet, quella di Detienne e di V ernant appunto, e di Vegetti in Italia. Forse la risposta è nel ritrovamento angosciante e ambiguo della barbarie dentro la propria cultura. Che la si esorcizzi o la si insegua, in ogni caso incapaci di essere o ritornare selvaggi. Il mito è un riferimento a un altrove: proiettiamo in esso l'altrove della razionalità, l'altrove della civiltà. E in modo improprio esso diviene l'emotivo, il piacevole, il drammatico, contrapposto al logico e al vero. Ora il problema attùale, • a nostro avviso, è che il dualismo civiltà-barbarie, colto-primitivo, razionale-pulsionale, sono creazioni fantasmatiche di un universo reale lacerato. È questo collocare . in un altrove il proprio senso che va considerato dubbio e sospetto: e rivela, a un'analisi che si sottragga all'incanto della mitica parola recitante contrapposta al pensiero concettuale, l'inautenticità del- /' autenticità, e l'ingenuità solo finta. Emilio Isgrò Villa Eumènidi (con note di F. Pennisi, A. Pomodoro, F. Crivelli). prefazione di Ettore Capriolo Milano, Feltrinelli, 1985 pp. 75, lire 6.500 (Rudere di Gibellina, luglio '85) me macchina, come produzione di senso ma anche come tecnica senza coglierne la sostanziale unità teorica, è costretta a ripiegare sull'assemblaggio quantitativo dei prodotti. Si rende necessario un salto qualitativo che, oltre a ridare a Venezia un profilo alto e definito, impedisca la regressione a cui fatalmente è destinato un istituto incapace di muoversi nel senso imposto dal mutamènto del proprio oggetto. Già quest'anno se ne sono visti i segni: dalla patetica parodia della contestazione a quella altrettanto patetica parodia che è stata la cerimonia conclusivaaffollata di ministri. Qui la regressione ha assunto un aspetto inquietante quando !'on. Andreotti ha consegnato i Leoni: certamente il mini- . stro degli esteri sarà ora pentito, ma è difficile associare una •prospettiva futura per il cinema, e in particolare per il cinema italiano la cui attuale condizione è una tragedia nazionale, quando l'atto conclusivo della Mostra viene compiuto da chi a suo tempo si è battuto senza risparmio per soffocare la stagione più alta vissuta dal cinema italiano.

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