...... r-ri U n certo stile di danza con una certa tendenza teatrale? Non credo che il tema dell'incontro e dell'interdipendenza fra danza e teatro si risolva in quello dell'incrocio o degli ibridi fra generi o sottogeneri diversi. C'è, invece, da pensare un grosso problema teorico e pratico; «scientifico», direi, nel senso di una scientia del teatro: individuare e dipanare la continuità della danza nelle diverse forme dell'arte teatrale. Altrimenti, si continua a credere che danza e teatro siano forme espressive che poggino su materie diverse, come pittura e scultura, musica e architettura, teatro e cinema. E si finge di trovare la «materia» della danza nell'una o nell'altra isola, nella tradizione del balletto o del tango, nella scuola. di Marta Graham o in quella di Rukmini Devi, o nella loro somma incongruente. L'arte teatrale ha facoltà generali, ma abitudini insulari. E quando queste ultime sono impropriamente generalizzate, il teatro viene suddiviso in una geografia falsamente ordinatrice: ci si immagina che un abisso culturale separi le pratiche orientali dalle occidentali o si prestano valori profondi a distinzioni di comodo come quelle fra danza, teatro, mimo e pantomima. Distinzioni che possono essere utili, ma a patto di non esagerare a crederci. Alla distinzione fra teatro e danza, invece, nella nostra cultura ci si è creduto e ci si crede troppo, fino al punto di meravigliarsi per i loro episodici incontri superficiali, che ad alcuni paiono incontri fra cose sorelle ma diversissime. Occorre allora esercitarsi a ricordare che la distinzione fra teatro e danza, fra attore e danzatore è un laccio peculiare quasi soltanto al moderno pensiero occidentale sullo spettacolo. E per comprendere da dove venga tale distinzione apparentemente «normale» bisognerebbe probabilmente cominciare dall'atteggiamento dei primi inventori del teatro moderno, preoccupati da manoscritti da cui traevano l'idea senza esperienza del teatro (niente di più chiaro, per risalire a questi inizi, di quanto racconta e documenta Franco Ruffini in Teatri prima del teatro, Roma, Bulzoni, 1983). In ultimissima analisi, la distinzione quasi essenzialistica fra danza e teatro poggia su un effetto ottico derivato da due diverse linee di trasmissione: «teatro» apparendo ciò che si trasmette attraverso i testi letterari, e «danza» ciò che può trasmettersi solo attraverso usi codificati. E così, nel fondo del ragiona- . mento, il cuore della danza già si vede sciogliersi e immedesimarsi con tutti quegli aspetti dell'arte dell'attore che non riguardano la sua facoltà di parola. ~ Può esserci spettacolo di pura -~ dizione (non erano forse spettacot:).. lo t,eatrale le pubbliche letture di Copeau? Non lo sono quelle di Bene? Non Io sarebbero quelle di Costa?); o di pura scenografia in movimento (non era forse teatro la danza delle scene realizzata in miniatura da Craig?); così come può esserci teatro di pura danza dell'attore, accompagnato o no ~ dalla musica. In questo campo le l specializzazioni si sono fatte parti- ~ colarmente esclusive ed insulari. Teatroe danza Ma elevarle a regole per ragionare, a norme per agire, significa rendere sempre più sciapo e traballante il pensiero teatrale, che già fatica abbastanza a non perdersi nella chiacchiera. Se Enzo Cosimi, per esempio, o Animali sorpresi e distratti di Giorgio Barberio Corsetti non vengono cercati ed accolti nelle rassegne e nei festival di danza, così come non lo furono Il Milione ed Il libro delle danze dell'Odio Teatret, è per un semplice malcostume, per una ristrettezza mentale che merita il rimprovero, ma non l'indugio di troppi ragionamenti. Certe distinzioni che paiono ben fondate svaniscono non appena si passa dalla degustazione delle superfici, dallo sguardo attratto dalle macchine spettacolari, allo studio dell'arte che le muove. Critici teatrali e critici di danza, divisi sui giornali, non si illudono certo d'essere specialisti di forme teatrali diverse. Se così fosse, vorrebbe dire che a forza di vedere spettacoli non hanno fatto che ottundere la propria esperienza del teatro. Non solo, infatti, chi conosce il No ed il Kabuki o l'Opera di Pechino, non solo chi ha visto «danzare» Sanjukta Panigrahi, ma anche chi ha guardato «recitare» Carlo Cecchi ha l'esperienza sufficiente per intendere quanto sia inutile il pensiero della fissa distinzione fra teatro e danza. Il È. ~n ballett~!», dis_se i! '' cntico Beno1s e npete Volkonski, ex direttore dei Teatri Imperiali, quando videro il Don Juan di Molière messo in scena da Mejerchol'd al Teatro Alexandrinski, nel novembre del 1910. Era, nelle loro teste, un modo per dirne male. La distinzione dei generi giustifica l'inesperienza. O la pigrizia: «Troppa pantomima e poca danza», si lamentava Rossini con Stendhal di fronte a uno spettacolo di Viganò. Lo ricorda Luciano Bottoni in un bel libro a più mani, curato da Ezio Raimondi e pubblicato l'anno scorso dal Mulino (Il sogno del coreodramma - Salvatore Viganò, poeta muto, p. 45). Lo si scorra, e Ferdinando Taviani si troveranno infinite occasioni di indagine (tutte a portata di mano, senza bisogno di cercare Noverre o Delsarte, Dalcroze o von Laban) sul tema dell'identità sostanziale delle arti che, nel nostro linguaggio, possiamo chiamare dell'attore o del danzatore. Nel saggio di Fabrizio Frasnedi, per esempio, il vecchio ed oggi francamente insostenibile pregiudizio che sottovaluta l'arte dell'attore italiano dell'Ottocento si trova, però, incastonato in un'idea intelligente e di grande portata: il gesto ed il ritmo della pantomima tragica del Viganò non si ripercuotono, dice Frasnedi, nella danza, ma in «un'immagine in caricatura» (il corsivo è nostro) nel «gesto che faceva il mattatore o la divina nel teatro all'antica italiano» (p. 245). Lo stesso Frasnedi (p. 308) riporta un testo cruciale in cui Stendhal esamina l'uno accanto all'altro i balletti di Viganò, la danza della Essler e la recitazione di Talma, per riflettere sul rapporto fra composizione e velocità d'esecuzione del gesto in relazione alla percezione dello spettatore. Questo tema è essenziale per capire la profonda inconsistenza della distinzione attore-danzatore. Si potrebbero addurre esempi antichi e moderni, orientali o occidentali. Ne ricorderemo uno non immediatamente evidente, anch'esso dell'inizio Ottocento. Antonio Morrocchesi, il più importante attore italiano dell'età alfieriana, nel 1832, ormai vecchio, pubblicò un trattato sul modo di recitare. Vi disegnò, fra l'altro, una serie di pose sceniche corrispondenti ad altrettante battute. In un caso, abbiamo tutte le attitudini che l'attore dovrebbe assumere per recitare i.tncorto brano alfieriano. Morrocchesi ha disegnato una serie di statue neoclassiche. Immaginiamo, naturalmente, una recitazione fatta di grandi pose ... statuarie, austera e retorica come le figure in marmo nei palazzi o nelle chiese. Ma se prestiamo un poco più d'attenzione, ci rendiamo conto che ognuna di quelle attitudini corrisponde a poche o pochissime parole, e se ci immaginiamo declamati, sia pur lentamente, quei versi o parti di versi, comprendiamo che la sfilza di statuein realtà scompone un'azione di pochi secondi, un rapido passaggio «recitato» o «danzato», formato dal montaggio di nuclei minimi, elaborati in ogni dettaglio, ma invisibili ognuno per sé dagli spettatori, per i quali era solo percepibile un'azione fluida, magari irruente e appassionata, quasi spontanea. L'attore, insomma, contrariamente a quanto i disegni lasciano immaginare, avrebbe dovuto imparare quelle pose sceniche per potersi muovere liberamente lungo una 'partitura fisica duttile come «una lingua completa in ogni sua parte». Quest'ultima espressione deriva da quello che è forse il libro più bello e più profondo scritto su un attore: l'Henry Irving di Gordon Craig (pubblicato a New York, Green & Co., nel 1930- la traduzione italiana vedrà la luce nella collana «Memorie di Teatro» di Bulzoni). Alle pp. 57-58, Craig parla di come Irving costruiva un personaggio, ed usa queste espressioni: «... Dava quindi inizio ad un nuovo passo di danza», oppure: «... Così si chiudeva uno dei momenti di quell'enorme e toccante danza, solo uno. Subito ne cominciava un altro e poi un altro ancora ... ». A proposito di Irving, il grande critico William Archer aveva esclamato: «Che dire del suo modo di camminare? Non era camminare!». Risponde Craig: «Una volta tanto hai ragione, caro Archer. Non era camminare. Era danzare!» (p. 71). Non si tratta di metafore. Craig, infatti, qualche pagina prima, aveva già spiegato come le camminate di Irving andassero descritte, appunto, «come una lingua completa in ogni sua parte». Qui sta la radice dell'identificazione: in una segmentazione artificiale, ma posseduta fino a divenire una seconda natura, e quindi a permettere composizione, variazioni, ritmo. E ra danza o teatro Min Fars . Hus? Sono danza o teatro non solo gli spettacoli di Pina Bausch o di Bob Wilson, ma quelli di Tadeusz Kantor? Danzava o recitava Cieslak, quand'era con •Grotowski? O continua forse a danzare anche ora, comprimendo la sua partitura in minuti gesti «realistici», facendo Dhritarashastra nel Mahabharata? E Torgeir Wethal nell'ultimo tragico e grottesco numero del Librp delle danze? Danza o recita Iben Nagel Rasmussen in Matrimonio con Dio? Danzava o recitava Julian Beck, in Antigone? Danzavano e recitavano, danzano e recitano, naturalmente. Ma qui i culturi della danza si sentiranno tratti fuori tema. Troppo facile trovare esempi, cercando fra i massimi. E facilissimo, passando ai grandi attori-danzatori orientali: Parrà a lc,ro, ai culturi della danza, che qui «danzare» sia usato in senso analogico, che abbia poco o nulla a che vedere con i generi codificati di danza nella nostra cultura. Hanno ragione ed hanno torto. Non è vero che sia un'analogia, ma è vero che ha poco a che vedere con i generi codificati. Il vero problema, infatti, non è la danza o la nçm danza, ma i generi codificati. E se è vero che molti fra i più alti momenti del teatro passano sopra le distanze fra i diversi generi, è vero anche che vi è qualcosa che per così dire passa loro sotto. Fra il teatro e la danza è successo un po' come per l'incontro fra il teatro occidentale e quello orientale: la distanza sembra enorme, l'incontro difficileo impossibile se non a patto di compromessi e reciproci inquinamenti finché sono le diverse macchine spettacolari a confrontarsi e non l'arte e il sapere degli uomini che le fanno. Le macchine sono diversissime, quelle arti e quei saperi no. In questo campo ~nonsi può prescindere dalle ricerche condotte ormai da vari anni da Eugenio Barba nell'International School of Theatre Anthropology (si veda il libro che egli ha pubblicato, assieme a Nicola Savarese: Anatomia del teatro, Firenze, Casa Usher, 1983e, più recentemente, Il corpo dilatato, Roma, Zeami libri, 1985). Ma per giungere ad un modo di pensare il teatro che permetta di impostare con tutta serietà il problema del rapporto teatro-danza occorre fare un passo ulteriore, di tipo metodologico, il più difficile, forse, perché tocca riflessi mentali così condizionati da apparire «naturali». È facile non credere ai ge- . neri. Difficile è comprendere con che cosa sostituirli per rovesciare il ragionamento non rinunciando alle necessarie distinzioni, senza le quali, appunto, non si può ragionare. Il passo consisterà nel riuscire ad immaginare l'intero teatro non diviso per confini ma per livelli. Il problema del rapporto teatro-danza non si porrà, dunque, come quello della distanza o dei contatti fra complessi insulari a se stanti, generi che possono essere fusi o incrociati, ma come quello dell'affiorare maggiore o minore del livello-danza, della sua più o meno esplicita evidenza. Il livello-danza del teatro non conduce ad inquadrare, per rendere più agevole la degustazione, determinate scuole o tendenze di spettacolo. Indica semmai un percorso di conoscenza e d'esperienza che non può tener conto dei confini.
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