Alfabeta - anno VII - n. 78 - novembre 1985

Il buonpa~r@lo~industria Fabio Levi L'idea del buon padre. Il lento declino di un'industria familiare Torino, Rosenberg & Sellier, 1984 pp. 292, lire 24.000 Il Certo, l'uomo comprende '' l'uomo, ma solo perifericamente: egli percepisce l'azione, il discorso, il viso dell'altro uomo, ma sempre solo quella singola azione, quel singolo discorso, quel momento; non può dimostrare di averlo compreso e per intiero. Altro è che l'amico creda all'amico, che nell'amore l'uno colga il vero io dell'altro come sua immagine: "così tu devi essere, poiché così io ti comprendo". Questo è il segreto di ogni educazione» (G.G. Droysen, Sommario di /storica, Firenze, Sansoni, 1943, p. 28). Queste parole di Droysen potrebbero probabilmente porsi accanto a quelle di Montaigne, concernenti l'opposizione tra la conoscenza che muove di causa in causa e la verità delle cose, che aprono questo denso volume di microstoria familiare di Fabio Levi, giovane storico torinese, studioso della storia italiana tra Otto e Novecento. Si tratta della storia dei Mazzonis, una potente famiglia d'industriali tessili torinesi, che si affermò nella seconda metà del secolo scorso e descrisse un itinerario secolare che ha l'aspetto di una sorta di destino, come sottolinea anche il sottotitolo del volume nel quale si accentua l'aspetto declinante di questa vicenda che ebbe invece, per lungo tempo, momenti di solidità e fulgore. Nelle parole di Droysen è deposto il messaggio della mai completa penetrabilità degli intenti umani e ciò ci rimanda all'interrogativo riguardante l'arbitrarietà dell'inizio e della fine di una storia (e di una storia nella Storia). Si tratta di interrogativi e problemi che non sono estranei al libro di Levi che infatti sceglie spesso il piacevole tono della narrazione, quasi a sottolineare l'autonomia fittizia (di finzione) della quale è dotata la sua vicenda. Si tratta di un tono che del resto si adatta bene alla natura vagamente obsoleta e ottocentesca del suo oggetto: la lunga vicenda e la lenta decadenza di una compagine industriale condotta secondo rigidi criteri paternalistici, riaffermati tenacemente per più di un secolo, sino quasi ai nostri giorni. L'attenzione micrologica alle vicissitudini dell'industria familiare non è del resto fine a se stessa ma coincide con l'intento di «sottoporre il mio oggetto di ricerca ad un esame ravvicinato, di guardarlo come attraverso una lente d'ingrandimento, individuando ogni volta i legami concreti con l'ambiente circostante ... Tutto questo al prezzo di una costante rinuncia a trarre conclusioni generali, ma con il vantaggio di offrire punti di vista inediti o::s da cui guardare, oltre l'universo -~ limitato dei Mazzonis, un settore 1::1, significativo dell'industria torine- ~ se, una parte non indifferente del- °' -. la classe dirigente cittadina e, in definitiva, una componente essenziale della cultura piemontese fra '800 e '900» (pp. 12-13). Questo complesso di avvenimenti viene ricostruito muovendo dalla peculiare ottica secondo la ~ quale i Mazzonis concepirono il l loro potere e il loro ruolo di indu- ~ striali, quella che viene riassunta nell' «idea del buon padre». Si trattò di un modo di concepire i legami tra l'industria e la famiglia come un vincolo strettissimo, avito, come il valore ispiratore e la fonte di giustificazione dell'agire dei singoli, in particolare di quelli tra i Mazzonis che, nel succedersi di tre generazioni, si trovarono alla guida dell'azienda di famiglia. Il potere veniva dunque concepito secondo la modalità di un legame organico tra la famiglia e l'industria, rigorosamente riposto, per lo meno per ciò che concerneva le decisioni ultime, nelle mani del capofamiglia, con l'esclusione di qualsiasi figura che esercitasse un effettivo potere manageriale. Si trattava quindi anche di una modalità di esercizio del potere che poteva affermarsi completamente solo in un ambiente relativamente chiuso e impermeabile come la Val Pellice, ove effettivamente il dominio dei Mazzonis non soffrì di una concorrenza significativa, mentre a Torino, già a partire dai primi anni del '900, lo sviluppo dell'industria meccanica li condannò al ruolo di comprimari. Questa idea-cardine - affidata da Paolo, creatore dell'azienda, ai suoi figli nel testamento - omologava l'unità familiare alla solidità della compagine industriale, in modo tale che i capitali e le energie dei singoli venissero indirizzate allo sviluppo delle aziende. Non si può tuttavia in questo caso parlare di un'ascesi mondana, ma di una rigida fede liberistica sorretta da un ideale patriarcale. A questo tratto fondamentale se ne accompagnavano molti altri, tutti coerenti con l'assunto principe, quali il rifiuto di vincoli esterni di ogni tipo, che si trattasse di dazi o interventi del potere pubblico nelle attività delle industrie, il sospetto nei riguardi del capitale finanziario e anche della politica mentre, accanto a tutti questi dinieghi, si poneva la fede nei confronti del mercato inteso come l'unico vero interlocutore dell'imprenditore. Questo atteggiamento di orgogliosa autosufficienza costituisce il filo che permette di percorrere tutte le vicende della politica industriale dei Mazzonis, sempre minacciata, all'interno, dall'eventualità della secessione di questo o quel membro della famiglia che volesse rifuggire dalle responsabilità nei confronti dell'azienda depauperandone così il capitale, all'esterno invece dal rischio di un progressivo isolamento dinanzi all'affermarsi dell'intreccio tra politica ed economia negli ambienti capitalistici torinesi. Q uesta mentalità ispira con fermezza l'azione dei sue- • cessori di Paolo, ormai da tempo entrati a pieno diritto, anche grazie a un'abile politica matrimoniale, a far parte della cerchia dell'alta borghesia e dell'aristocrazia piemontese, in essa legittimati anche dal titolo di baroni ottenuto nel 1880. Si trattò di un titolo che venne accolto dai Mazzonis nel segno della continuità con quella tradizione borgheseimprenditoriale che li aveva portati al successo, come testimonia anche il motto Labor et honor che coronava lo stemma di famiglia. Ma è il modo nel quale questa tradizione venne intesa che qui interessa precisare e ciò si rivela nel ruolo distaccato assunto da Ettore, il successore di Paolo a capo dei Mazzonis, nella Torino di fine Ottocento. Una Torino filtrata con gusto e precisione dalla descrizione di De Amicis, che si andava disponendo architettonicamente secondo il concetto di decoro, ossia della rigida determinazioue dei ruoli sociali anche nel modello del tessuto urbano. Ettore dunque, pur svolgendo un incarico di particolare rilievo nel mondo della finanza, essendo divenuto consigliere di sconto della Banca Nazionale, fu sempre restio, così come i suoi familiari, a impegnarsi direttamente nelle istituzioni politiche, culturali o negli enti di beneficenza della città. Si trattava di un distacco o di una rivendicazione di autonomia, che lo segnalava nel mondo imprenditoriale torinese, rendendolo anche oggetto di critiche, critiche che comunque non potevano allora intaccare la compagine salda dell'azienda sulla quale il nuovo capo dei Mazzonis esercitava sicuro la sua autorità. Questo modo di concepire il proprio ruolo non poteva che trasfondersi nell'immagine pubblica della Casa: «Solidità patrimoniale e finanziaria, serietà nella gestione, scarso amore per l'avventura, innata propensione all'ordine, vocazione all'autonomia sino a sfiorare l'isolamento: tutti questi elementi ricorrevano invariabilmente nell'opinione che concorrenti, grossisti, fornitori e clienti si erano fatti, in Italia e all'estero, di una Casa che, forse con qualche forzatura ma non certo senza motivo, veniva assunta ad emblema di un modo tutto torinese di vivere e fare gli affari» (pp. 122-123). Anche il rapporto con i dipendenti veniva condotto secondo criteri analoghi, particolarmente nella Val Pellice ove il controllo e il potere economico della famiglia erano quasi esclusivi, anche se dal punto di vista culturale essi venivano bilanciati o addirittura oscurati dalle figure di spicco della Chiesa valdese, intellettuali, medici, pastori. Tra il padronato torinese e i valligiani correva comunque un vincolo comune, la fede liberale, anche se fondata su motivazioni ben diverse a seconda che essa venisse testimoniata da una famiglia d'industriali come i Mazzonis o da una comunità valdese gelosa di preservare i diritti faticosamente acquisiti. Si tratta di un vincolo e di un'affinità che probabilmente contribuisce a spiegare il fatto che qui privilegiatamente i Mazzonis riuscirono a sviluppare il loro potere come un vasto tessuto organico che si dipartiva dalla famiglia per comunicarsi all'azienda ed infine al tessuto sociale circostante. Da parte dei Mazzonis poi questi elementi, associati strettamente al piccolo mosaico delle loro caratteristiche che si è prima tracciato, possono spiegare il loro modo peculiare d'intendere i conflitti con i dipendenti, rigido e alie~ no dall'arte della mediazione politica. Si trattava in fondo per essi di un conflitto ad hominem, la cui natura, il cui sfondo sociale era infine del tutto secondario. L'atteggiamento di particolare durezza, di resistenza ad oltranza nei confronti di ogni richiesta operaia, assunto dai Mazzonis durante gli scioperi del 1905e del 1920, non poteva così che apparire riprovevole anche agli occhi di chi, come Agnelli, rappresentava una nuova figura d'industriale attenta alle inevitabili connessioni tra il ruolo e il potere dell'industriale e quello politico. È illuminante d'altro canto che uno dei pochi difensori dell'atteggiamento assunto dai Mazzonis durante le occupazioni del '20, Luigi Prato, sia costretto a una sorta di laudatio t.emporis actis, anche se molto precisa nel delineare la fisionomia dei suoi difesi: «I Mazzonis incarnavano in sé questa modernissima e simpatica figura d'imprenditore, che rifiuta di piegarsi all'uniformità di tariffe e di condizioni generiche soltanto per poterle adattare genialmente ... [incarnavano in sé] il sistema del patronato ... e cioè quello dell'imprenditore che rivendica la cura di regolare liberamente le condizioni del lavoro nella propria azienda, facendosi nel contempo un dovere di adottare le norme più adatte al benessere morale e materiale degli operai». Prato soggiunge tuttavia che si tratta di un sistema che «è invecchiato e sta morendo, nei suoi fattori dottrinali e nei suoi realizzatori» (p. 118). G ià a partire dagli anni Venti si delinea dunque una fase involutiva del modo di concepire il potere da parte dei Mazzonis; molti episodi risalenti a quell'epoca o di poco antecedenti stanno a testimoniarlo: già durante la prima guerra mondiale la loro diffidenza nei confronti dello Stato fece sl che non venissero sfruttate adeguatamente le opportunità di ottenere le commesse di guerra, oppure si accentua la loro distanza dagli altri industriali, come in occasione delle elezioni del 1921, nelle quali i Mazzonis rimasero estranei alla politica del Blocco nazionale, appoggiata invece da industriali quali i Mazzini e gli Agnelli. È ben vero che ciò avveniva in ·un contesto e in una città nella quale il processo d'integrazione tra politica ed economia incontrava forti difficoltà, in un'epoca nella quale la figura di Ettore era comunque molto salda e tutt'altro che emarginata all'interno del mondo economico torinese. Ma è altrettanto evidente che il subentrare di spinte centrifughe, quali il recesso di alcuni importanti componenti del clan familiare nel corso degli anni, colpirono tanto più duramente una compagine economica e familiare così chiusa, impedendole di far fronte, anche a causa delle crisi ricorrenti, alla necessità di ammodernare gli impianti e di rinnovare le aziende. Ciò condannò vieppiù i Mazzonis, diretti nella terza generazione da Giovanni (nipote di Ettore che non aveva avuto figli maschi), a una politica involutiva di risparmio sui costi aziendali piuttosto che di espansione e di un sempre più necessario rinnovamento degli impianti. Si trattò di una politica che Giovanni condusse con una coerenza amara in particolare dopo la delusione delle speranze di una piena ripresa del mercato dopo le difficoltà della guerra: «Non che i responsabili della ditta, e per primo Giovanni, fossero del tutto inconsapevoli delle nubi che si addensavano sul loro futuro. Le difficoltà erano evidenti e si facevano giorno dopo giorno più gravi, ma ogni volta venivano affrontate come un limite negativo, da sfidare, da superare e quasi mai come un'occasione per considerare la situazione in un'ottica diversa. Un criterio assai elementare e rigidamente univoco orientava le scelte direttive nei momenti più difficili: evitare a ogni costo il gonfiamento di debiti. Così ad ogni piccola o grande erosione dei margini di guadagno si rispondeva comprimendo una volta di più le spese generali, trasferendo insomma all'interno la pressione cui l'azienda era sottoposta nella sua attività quotidiana sul mercato» (p. 238). Questo atteggiamento veniva avvertito da Giovanni come un estremo ricondursi alla tradizione familiare, alla figura solida e avvertita di Ettore, come un confrontarsi con una tradizione della quale egli non avvertiva la debolezza intrinseca, piuttosto forse soltanto quella della propria persona gravata ormai da una responsabilità eccessiva. Ciò lo condusse a un progressivo isolamento dinanzi al mondo industriale, nonostante le rilevanti posizioni che egli occupò per lungo tempo all'interno della Giunta esecutiva della Confindustria e alla guida dell'Associazione cotoniera, sino al definitivo esautoramento dalle responsabilità aziendali da parte dei nipoti negli anni che immediatamente precedettero la chiusura di tutte le fabbriche guidate dai Mazzonis. Una fine che giunse (nel 1965)come era da tempo prevedibile, ma in fondo inattesa per tutti, per i proprietari come per gli impiegati e gli operai, abituati ormai da decenni a vivere quotidianamente in un clima di precarietà e di crisi, nel quale ogni volta si affacciava lo spettro di una fine poi sempre sventata. Nelle parole di Ernesto, fratello di Giovanni, intervistato da Fabio Levi, si avverte ancora l'eco piena di doloroso stupore dinanzi al disastro ormai consumato da anni che si accompagna a una calda ironia nel narrare questo o quell'epis<1dioche particolarmente caratterizzarono la fisionomia storica e familiare dei Mazzonis. Si tratta di parole che costituiscono probabilmente il suggello di una vicenda e di una parabola che si consuma tutta intorno a una mentalità tipicamente torinese, accompagnandosi in molti momenti significativi alla storia della città. Proprio per questo la storia dei Mazzonis ha poco a che fare con le vicende dei Buddenbrook, ai quali troppo spesso, talvolta anche polemicamente, essi sono stati accostati. Se proprio si vuol chiamare in causa Thomas Mann è forse il caso di richiamare la Montagna incantata, ben più prossima a quel lieve clima metafisico che era proprio della Torino dei primi decenni dell'Ottocento. Ma forse è meglio lasciare questa storia alla sua intrinseca autonomia come suggerisce Fabio Levi alla fine di questo bel volume.

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