Alfabeta - anno VII - n. 78 - novembre 1985

PAGINEDIPAGINEDIPAGINEDIPAGINEDIPAGINEDIPAGINEDIPAGINEDIPAGINE Pier Aldo Rovatti Modi di pensare. 2 L'insonnia. La chiave del pensiero filosofico è costituita dalla metafora o dal concetto? Con l'occhio ad alcune pagine decisive del giovane Nietzsche,· Derrida e Ricoeur hanno rilanciato anni fa la questione. L'importanza della metafoni per la filosofia è così diventata il centro di una parte cospicua e trainante del dibattito attuale, ben oltre l'interesse specialistico degli studiosi di retorica e di linguaggio, incrociando la riflessione stessa sulla scienza, prestando ascolto a nuovi ambiti di ricerca, come quello di Blumenberg sulla • storia di alcune metafore fondamentali. lo credo che leggiamo oggi con rinnovato interesse le pagine di Blanchot o di Jabès proprio perché nel loro modo «letterario» di pensare è in gioco qualcosa che riteniamo determinante per il pensiero stesso. Non diverso, credo, è il motivo per cui l'ultimo Heidegger, quello del linguaggiopoetico, viene preso sempre più sul serio. E anche il ritorno all'ebraismo o a certi autori, contemporanei e antichi, che prima insospettivano per il loro tono religioso, mi appare in buona parte motivato dall'esigenza che abbiamo di uscire dalla gabbia di un pensiero cartesiano-kantiano, «more geometrièo». Esigenza che cresce sulla constatazione che per quella via la conoscenza risulta chiusa, anchilosata, ruotante su se stessa. È come se il pensiero si scoprisse a un punto iniziale e dovesse da qui far appello a una miriade di fili, tagliati fuori o solo lasciati da parte. Non sorprende che vi sia un ripensamento della «tradizione»: anzi se c'è una fase in cui il ricorso alla memoria storica tende a dilatarsi e farsi più urgente, direi che è proprio quella che stiamo vivendo, sulla scorta, però, della nostra interrogazione e oltre ogni storicismo. Nel fascicolo della rivista il centauro, appena uscito (n. 13-14, gennaio-agosto 1985,Guida editori, Napoli) scrive Cacciari: «Nell'idea di tradizione proprio il Permanente è ciò che va custodito "tradendolo"». Ciò che si «rivela» e che la tradizione interpreta sarebbe qualcosa che resta essenzialmente inattingibile: ogni decisione interpretativa lo tradisce e proprio in questo modo lo tramanda nella forma di un segno, di un'immagine, che non può avere la pienezza del simbolo. Non parola piena, né silenzio, semmai una lacerazione, un grido che irrompe ogni volta nel continuo del tempo storico, che «squarcia i veli dei templi, spezza le rocce, spalanca i sepolcri». Quest'immagine, o «icona della legge», riproduce un rapporto drammatico con la verità. Ma alla domanda «cos'è la tradizione?» posspno essere date altre risposte che si collocano nel medesimo processo di pensiero cui ho fatto cenno. Anzi, ognuna delle domande che oggi stiamo moltiplicando, a partire da una medesima esigenza, apre sentieri diversi e talora opposti, pur mantenendosi nella risonanza di un linguaggio comune. Penso, per esempio, all'ermeneutica di Vattimo in cui il rivolgersi alla tradizione è piuttosto il disporsi paziente per raccogliere una traccia, proprio di chi, come noi in quest'epoca, può essere raffigurato nietzscheanamente in uno stato di «convalescenza»da una malattia. E credo allora che sia molto utile accostare alle domande di fondo, come potrebbe essere questa sulla tradizione, una domanda laterale: possiamo riconoscere le differenze di percorso, stabilire delle distinzioni? Insomma, tentare di dare una fisionomia precisa e non fuorviante al problema che ci riguarda: poiché l'inizio in cui siamo è culturalmente rischioso, e nessuno se lo nasconde. Il rischio, vorrei chiarire, è manifesto nella prospettiva stessa in cui questo pensiero ha deciso di immettersi, una prospettiva che chiede essenzialmente la rinuncia alla pretesa di padroneggiare il campo con una distanza razionale. Il che non significa, però, rinunciare a disegnare i contorni del problema e le lirìee di percorrimento: solo, l'impresa critica è diventata meno familiare e più ardua. Un'ipotesi feconda potrebbe essere proprio quella di prestare attenzione teorica alle metafore o immagini che vengono richiamate, e all'uso diverso che ne vien fatto: oltre a essere spesso la posta filosofica in gioco, il contenuto metaforico abita infatti il linguaggio stesso con cui vengono operati questi tentativi di riflessione, con una pregnanza che certamente ne costituisce un tratto distintivo e che altrettanto sicuramente eccede l'orizzonte esplicito di vigilanza critica espresso dagli autori. Indico un esempio, facendo ancora riferimento al saggio di Cacciari (uno scritto assai denso che presumibilmente è il programma di un lavoro più ampio, che prosegue Icone della legge): l'autore si sofferma soprattutto sull'antico motivo dell'insonnia e a me pare che in questo passaggio metaforico si concentri tutto il suo ragionamento. Questa immagine viene contrapposta all'innocenza del fanciullo nietzscheano allo scopo di far risaltare la ricezione limitativa («quietistica e imborghesita») che Nietzsche avrebbe avuto della cristianità. Per la quale, invece, in modo assolutamente caratterizzante, «la tradizione è insonne»:_ cioè comporta un'incessante attesa ad occhi aperti, un'impazienza ininterrotta, un perenne assillo della memoria. «Vivete come-se poteste non dormire, vivete comese poteste non dimenticare; vivete come-se non viveste, poiché soltanto così rimanete pronti». Cacciari definisce «tremendo» questo come-se che risuona: ancor più tremendo se poi consideriamo - con l'autore - che l'insonnia non risulta un'onnipotenza della me-, moria perché il ricordare divora se stesso come «memoria di un'irrappresentabile» e segna alla fine il trionfo della dimenticanza, «o, meglio, un'incoercibile nostalgia per essa». Ma la figura dell'insonnia ci richiama anche le pagine recenti di Lévinas e il suo tentativo, attraverso questa costellazione metaforica, di dire cosa può essere un vigilare che sta all'opposto di un conoscere padroneggiando. Qui emerge piuttosto la tradizione giudaica e veterotestamentaria: anche per Lévinas si tratta di pathos, ma di quel pathos scavato al proprio interno che è la pazienza. Non l'insonne impazienza ma l'arretramento della pazienza, una passività che toglie terreno all'ebbrezza, una vigilanza alla soglia e_strema della potenza del ~oggetto. Nella stessa figura si potrebbero distinguere allora due modi di pensare opposti: ma è solo questione di sensibilità maggiore a una tradizione piuttosto che a un'altra? (E se fosse anche così, come risponde Cacciari all'esigenza ebraica che in lui è pure molto sensibile?) Credo, invece, che l'interrogativo più interessante riguardi la metafora stessa: poiché anche Cacciari si serve della metafora (l'insonnia non è letteralmente l'insonnia) e di un'identica metafora, quali tonalità teoriche essa, in quanto tale, può comportare e di fatto comporta? Intanto, può essere icastica e tremenda un'affermazione metaforica? o non tende piuttosto ad aprire un gioco di orizzonti, uno scambio di significati, una crisi della referenza, il cui risultato - anche linguistico - vira verso un depotenziamento del tono teorico? Contrapponendosi all'idolo, l'icona si desacralizza, nel linguaggio, in un'immagine metaforica: l'insonnia. Arretra nel quotidiano, smarrisce ogni aura dorata, mette a nudo l'eticità faticosa di una narrazione sempre parziale e senza più nostalgia. PAGINEDIPAGINEDIPAGINEDIPAGINEDIPAGINEDIPAGINEDIPAGINEDIPAGINE Le immagini dell'ambiente VI l'economiadell'astronauta 1 ra le mille metafore che pensatori immaginifici oltre che creativi hanno prodotto per cercare di riassumere in un breve episodio il nucleo forte delle concezioni ambientaliste, quella che sempre mi sembra più capace di sintesi è rappresentata dalla seguente immagine: il passaggio dall'economia del cow-boy all'economia dell'astronauta. Per il primo, spazio e tempo illimitati; una frontiera da spostare sempre più in là e la cui vastità appariva tale, in relazione ai pochi colonizzatori e alle loro scarse risorse tecnologiche, da risultare praticamente infinita; un habitat capace di risorse abbondanti e di vasta accoglienza: nessun problema per materie prime o rifiuti. Per il secondo una situazione esattamente opposta. Spazio e tempo limitati e completamente noti; risorse ben definite; necessità di collocare perfettamente i propri rifiuti; un habitat, quello della navicella, completamente noto e finito, da mantenere in perfetto equilibrio. La metafora naturalmente continua. Duecento anni di crescita continua ed impetuosa hanno portato l'umanità nel suo insieme dalla situazione del cow-boy alla situazione dell'astronauta. Anzi: alcuni miliardi di astronauti in viaggio su di una nave ormai abbondantemente occupata, conosciuta, sicuramente finita. Senonché, mentre l'astronauta conosce perfettamente questa sua situazione, o meglio la riconosce e la accetta, la specie umana continua ad agire come se il far-west fosse la sua condizione. Le risorse tecnologiche sono state lo strumento di questa accelerazione che in due secoli ha prodotto una moltiplicazione enorme della capacità di impatto dell'uomo sul suo pianeta. Ma esse non hanno prodotto solo un risultato oggettivo; hanno anche prodotto la forma specifica di razionalità che con questo processo si è accompagnata. Una razionalità insieme meccanicisticae qualitativa. Scienza, industria e società hanno camminato insieme. Naturalmente con una forte giustificazione. La razionalità quantitativa è infatti la forma conoscitiva ed interpretati- . va con cui la specie umana, soprattutto nella sua varietà «europea», ha affrontato ed in grande parte risolto una millenaria situazione di «penuria». Una situazione in cui era inevitabilmente lo stato quantitativo delle risorse disponibili a determinare la qualità della condizione umana in generale. Ed in cui ogni crescita quantitativa si accompagnava e si è accompagnata ad un miglioramento qualitativo, alla soddisfazione di bisogni assol~ti (Keynes) da cui il genere umano non può prescindere, senza minacciare gravemente le possibilità della sua sopravvivenza. Misurare questa crescita e trovare le forme per moltiplicarla sembrava un compito naturale. Le scienze naturali da un lato e quelle Enrico Testa economiche dall'altro hanno egregiamente svolto questo compito. In alcuni teorici degli albori dell'industrialismo e dell'economia di mercato (per es. Stuart Mili) questa funzione strumentale soprattutto delle scienze economiche appare assai chiara: l'economia è la disciplina che permette di accrescere la quantità di beni disponibili per l'uomo, liberandolo così dalla schiavitù dei bisogni primari. E proprio Stuart Mill per primo anti~ cipa una nozione divenuta corrente nel pensiero ecologista. Quella secondo la quale, una volta esaurita tale funzione, l'economia deve tornare a lasciare il passo alla disciplina da cui è nata. L'etica che al pari dell'economia, ma in modo più ampio, ha per oggetto la ricerca del benessere dell'uomo, fondato però su uno spettro di valori assai complesso. E che per quanto concerne il consumo di beni materiali è quindi auspicabile una situazione in cui raggiunta la soglia ottimale ciò che va perseguito è uno stato di equilibrio. Fine della crescita? È singolare che all'incirca un secolo dopo un altro economista specialista in «crescita», Keynes, teorizzi una distinzione fra bisogni assoluti, che devono conoscere un limite, e bisogni relativi, il cui sviluppo deve essere ricercato ed incoraggiato. E per Keynes i bisogni relativi sono tutti di natura post-materiale e, quindi, post-eco- _nomica.Non sono misurabili perché appartengono alla qualità umana, in quanto tale: bisogni culturali, comunicativi, espressivi, creativi, ecc. ecc. Per tornare quindi all'ecologia. Il punto più aspro del conflitto causato da questa specifica razionalità quantitativa si è prodotto proprio nell'incontro con il carattere limitato delle risorse ambientali. L'economia di mercato addirittura ne presuppone la gratuità fondata sulla inesauribile disponibilità di esse. Mentre invece la rapidità della crescita porta presto la società umana all'incontro di un limite. Quando dieci anni or sono questa idea comparve nella forma del celebre rapporto del Club di Roma sui limiti dello sviluppo (meglio sarebbe dire alla crescita) produsse un effetto detonante di notevoli dimensioni. Pur non essendo del tutto nuova. Laura Conti ricorda spesso che non solo Malthus l'aveva abbondantemente intuita, ma che lo stesso Darwin (di cui Marx era un grande ammiratore) ne fece la base per la sua teoria sull'evoluzione. Molte delle previsioni quantitativ_e formulate da Meadow si sono rivelate inesatte, ma ciò non toglie affatto a mio parere importanza al «nucleo metafisico» posto in primo piano: il trovarsi cioè l'uomo ad agire in un mondo finito, limitato. Il che pone almeno due problemi teorici notevoli. 11 primo è relativo ai possibili esiti catastrofici contenuti in una continuazione del modello della crescita esponenziale. Esso porta inevitabilmente a numerosi punti di rottura nel rapporto uomo/natura. Intendendo per punto di rottura una situazione in cui i costi superano di gran lunga i benefici, viene intaccato il capitale costituito dalla risorsa ambiente, vengono distrutti i meccanismi di riproducibilità di tale risorsa. Nel lungo periodo la proiezione teorica di ·questa tendenza delinea uno scenario di rottura «globale». ~ Il secondo, meno indagato, con- ~ siste invece nell'applicazione del ·~ concetto di limite alle teorie so- ~ ciali. ~ °' Le due grandi teorie che si sono -. confrontate nel corso dell'epoca ] industriale, liberalismo e marxi- ~ smo, si sono ambedue fondate sul ;:,. <:) presupposto dell'abbondanza pos- i:: sibile. Il dissidio verteva sui rap- ~ porti sociali che avrebbero reso possibile tale condizione finale. ~ Ma le applicazioni storiche di l tali teorie oltre che la loro versio- ~

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