Alfabeta - anno VII - n. 78 - novembre 1985

Diamo inizio con questo scritto a un dibattito sul pensiero dell'ultimo Habermas; altri interventi seguiranno nei prossimi numeri. A cinque anni dalla famosa conferenza sul postmoderno (a suo tempo tradotta in Alf abeta), Habermas raccoglie in due volumi gli interventi di vario genere - lezioni, conferenze, saggi, articoli - sul tema postmodernismo-neoconservatorismo-poststrutturalisn:io, che è venuto elaborando in questi anni: una ricostruzione in dodici lezioni e quattro excursus del discorso filosofico del moderno (da Hegel a Nietzsche, a Adorno, a Derrida, Foucault, Castoriadis, Luhmann), e una serie di interventi su riviste e giornali sul Neoconservatorismo e l'Illuminismo oggi (da cui è tratta l'intervista che qui pubblichiamo). È impossibile, in breve, recensire un materiale tanto vasto, soprattutto se si tiene presente il contesto in cui si inserisce, cioè la discussione ormai in sostanza planetaria sul moderno e sulla attualità dell'Illuminismo, che investe aree culturali eterogenee (Italia, Francia, Germania, Stati Uniti - si pensi, a titolo puramente esemplificativo, ai lavori di Vattimo, Derrida, Frank, Rorty ... ), e con modulazioni moral-pratiche (Neoconservatorismo), estetico-espressive (Postmodernismo), filosoficoepistemologiche (Post-strutturalismo). È forse dall'epoca dei dibattiti su Esistenzialismo e Umanismo che non si assiste a una polemica tanto concertata. Mi limiterò quindi a indicare alcuni punti, discutibili in più di un senso, che caratterizzano il discorso habermasiano su postmoderno-post-strutturalismo-neoconservatorismo, e che sono a mio avvisogià piuttosto evidenti nell'intervista che viene qui pubblicata. 1. I segni dei tempi. Bisogna riconoscere a Habermas che, a differenza di molti critici del postmoderno (tengo questo termine per brevità, ma resta inteso che con esso intendo anche gli altri post- e neo- implicati nel dibattito) non liquida il postmoderno come una moda, evita gli inopinati abbinamenti Club Méditerranée-Anti-Oedipe che sono materia corrente, per esempio, nel pamphlet sui maitres à penser francesi di Jean-Paul Aron, recentemente tradotto da Feltrinelli. O almeno, Habermas non si limita, come Aron, a fare una Genealogia della morale in portineria per cui all'origine dei libri più importanti del dopoguerra starebbe la voglia di ' essere famosi (e se anche fosse, allora, che cosa si sarebbe dimostrato?). Habermas coglie l'essenza filosofica della moda, inserisce il postmoderno in una filosofia ~ della storia, e lo qualifica come un <:::S segno dei tempi, cioè come un se:; .s ~ gno della impasse in cui, da diverc::i.. so tçmpo in qua e secondo una ~ cronologia ricostruita nei suoi °' -. punti-chiave (Baudelaire, Nie- ] tzsche, Weber, Adorno, HeidegE ger. ..) si trova il progetto di Dide- ~ 5 rote d'Alembert. Ora, come ogni s.:: analisi di un fenomeno come se- ~ gno dei tempi (ad esempio, quella I:! di Lukacs a proposito della distru- ~ zione della ragione e delle avan- l guardie artistiche e letterarie), 1s l'interpretazione di Habermas è Su Habermas/1 Il segn~.w~te,impi tenuta a fornire una prospettiva alternativa, cioè a presentare la «vera storia» e la visione non contingente a partire da cui ciò che accade è segno di qualcos'altro e non, poniamo, la cosa stessa. Deve cioè fornire il codice che definisce il postmoderno come segno. 2. Nietzsche e gli epigoni. Questo codice, ovviamente non è quello di Lukas, e. fino a un certo punto coincide con quello dei postmodernisti. Come i postmodernisti, e a differenza di Lukacs, Habermas non vede in Nietzsche e nella filosofia radicale che si è posta sulla sua scia un infortunio del pensiero, l'inizio della distruzione, bensì invece una logica conseguenza e un approfondimento della dialettica dell'Illumiµismo. Era già la posizione di Conoscenza e interesse, secondo cui in sostanza Nietzsche tirerebbe le somme delle aporie in cui vennero a trovarsi il progetto idealistico di un sapere assoluto e il progetto illuministico di una ragione emancipatrice - ma senza per questo appoggiarsi sul regressivo, il misticofeudale, la terra: «La sua critica della filosofia, la sua critica della scienza, la sua critica della morale dominante sono l'unica testimonianza di una conoscenza proseguita attraverso l'autoriflessione e solo attraverso l'autoriflessione» (Conoscenza e interesse, tr. it. Laterza, p. 290). In Lyotard non è diverso: i récits dell'Idealismo e dell'Illuminismo non soccombono di fronte a un sentimento venuto chissà da dove, ma si indeboliscono sotto i colpi del pensiero; e così nel bel libro di Deleuze su Nietzsche, del '62: «Si avranno delle idee sbagliate sull'Irrazionalismo, finché si crederà che questa dottrina contrapponga alla ragione qualcosa che non sia pensiero: i diritti dei dati, i diritti del cuore, del sentimento, del capriccio o della passione. Nell'Irrazionalismo è del pensiero che si tratta, di nient'altro che del pensiero. Il pensiero stesso si contrappone alla ragione, ed il pensatore si contrappone all'essere ragionevole» (Nietzsche e la filosofia, tr. it. Colportage, p. 139). In questa prospettiva, risultano pienamente- comprensibili le evoluzioni e gli sviluppi recenti del pensiero «radicale»: la Dialettica dell'Illuminismo come esame delle collusioni tra lumi, oscurantismo totalitario (l'Illuminismo come strumento in mano ai grandi artisti di governo di cui parlava Nietzsche), nuove mitologie indotte dall'orrore mitico per il mito; la microfisica dei rapporti potere-sapere in Foucault; la grammatologia come tematizzazione di uno spirito oggettivo razionale, ma intimamente infondato e opaco, in Derrida. 3. Decostruzione o emancipazione. Ma è a questo punto che le vie di Habermas e dei postmodernisti divergono - e questi ultimi divengono segni dei tempi. Per Adorno, per Foucault, per Derrida occorre seguire la strada di una decostruzione, cioè di una critica della ragione strumentale che revochi il senso della storia, indebolisca le pretese della ragione, metta in questione le eventualità totalitarie dell'umanismo. Ciò a partire dalla considerazione per cui la differenza tra ragione pura e ragione strumentale è tra le più vaghe che si possano immaginare; e senza proporre utopie alternative, che saranno nuove vie di dominio: né il recupero dei lumi, né le mitologie del sangue, della terra o della telematica si possono sottrarre alla insidiosa dialettica dell'Illuminismo. In termini heideggeriani, si può oltrepassare la metafisica (la vocazione della ragione al dominio e alla organizzazione totale) solo rimettendosi a essa, ma con un rimettersi che sia anche sciogliere, indebolire, distorcere. Con diverse sfumature, Habermas liquida tutto ciò - decostruzione, negazione ad hoc determinata, legame oltrepassare-rimettersi - come «la vecchia solfa dell'auto-oltrepassamento» («die bekannte Me1odie der Selbstiiberwindung»: Der philosophische Diskurs der Moderne, p. 191), e ripropone il nesso ragione-emancipazione. Vale a dire: è vero che ogni ragione si presta alla strumentalizzazione; ma questo non deve impedirci di assumere come ideale regolativo e postulato pratico un interesse per la emancipazione, che insieme giustifichi la filosofia, e la tuteli da tentazioni regressive o totalitarie. Se da una parte essere illuministi vuol dire accorgersi dei limiti della ragione illuministica, d'altra parte continuare il progetto dell'Illuminismo, della ragione come emancipazione della umanità costituisce ancora oggi l'unico obbiettivo e l'unica giustificazione per il pensiero. 4. Illuminismo senza Idealismo. Sarebbe facile a questo punto notare che Habermas propone la vecchia solfa della emancipazione, non meno vecchia di quella dell'auto-oltrepassamento; così come sarebbe facile, sul piano della storia intellettuale (che non.è mai un buon livello), mostrare come si possano ripartire equamente, nella modernità, le malefatte degli illuministi e quelle, diciamo così, dei romantici (complicità politiche, cooperazioni a catastrofi collettive, contributo alla manipolazione delle coscienze ecc. ecc.). Ma le prove empiriche non sono mai convincenti, perché per esempio Heidegger avrebbe potuto essere benissimo nazista, come tanti ai suoi tempi, senza aver letto i presocratici. E soprattutto: per il discorso sul moderno che anche Habermas condivide, i romantici nascono dall'Illuminismo non meno che la riproposta dell'interesse per l'emancipazione. Mi pare invece che il punto decisivo sia questo: che l'interesse per la emancipazione come lo propone Habermas non ha più nulla da spartire con quello, originario, dell'Illuminismo, sia per essenza sia per funzioni. Riassumo in forma economica e necessariamente caricaturale: (a) per gli illuministi, la questione della emancipazione era deducibile logicamente da una situazione i cui componenti erano chiari: una ragione universale che emancipa una umanità europea (gli schiavi non sono inclusi nel conto, e qualche urone e qualche persiano valgono soltanto come esempi letterari), in una storia dotata di senso o comunque pacifica, scontata e presupposta, per cui i costumi delle nazioni escono progressivamente dalla barbarie. (b) Il Romanticismo e l'Idealismo non sono semplicemente la reazione pratica e ,viscerale di sovrani, popolo e borghesi di fronte al Terrore; ma anche la constatazione filosofica della unilateralità delle prospettive illuministiche; si impone la necessità di un sapere assoluto speculativo che, conoscendo tutto, giustifichi l'emancipazione e la diriga verso obbiettivi certi e noti. (c) il fallimento del progetto di un sapere assoluto è quello registrato da Nietzsche, non meno che da Dilthey, e dagli epigoni: la tecnica e la scienza appaiono· rischiose e non anzitutto portatrici di liberazione dalla fatica e dal bisogno; il senso della storia sembra enigmatico; il genere umano, come genos, genus, gens o Geschlecht non può essere fondato più di quanto si possano fondare e giustificare i generi letterari, dopo le diagnosi della morte dell'arte e i loro referti nelle avanguardie. E la morte dell'uomo come genere non è una invenzione degli antiumanisti più di quanto la morte dell'arte non fosse una invenzione degli avanguardisti; non è la trovata di una certa élite o di un certo ambiente, ma l'esito di due secoli di storia, politica, filosofia, economia, inaugurati dall'Illuminismo e perfezionati dall'Idealismo. 5. «Noi» e il moderno. Il noi infinito che giustificava il progetto della emancipazione non è più, da gran tempo, un dato pacifico, non meno che l'io, la ragione, la storia ecc. Infatti anche per Habermas è un obiettivo, l'ideale di una comunità della comunicazione. Ma a questo punto i rapporti si sono invertiti, è intervenuta una nuova rivoluzione copernicana. L'interesse per la emancipazione non è una evidenza epistemologica, bensì un assoluto etico, una sorta di undicesimo comandamento che non discende dalla storia, dalla ragione, da noi, ma che prescrive: se persevererete nell'interesse pei;-la emancipazione, allora· ritroverete la storia, la ragione, il genere umano. Da effetto di una certa situazione (non sufficientemente analizzata da chi la visse, a suo tempo) l'interesse per la emancipazione diviene, nella prospettiva di Habermas, una causa - una buona causa, la causa comune. Ora, mi pare che in questo atteggiamento l'Illuminismo permanga solo come maniera, proprio come manieristicamente, nell'epoca postmoderna, si assiste al ritorno del Mito, del Sacro, dell'Etico; e certo anche l'Illuminismo come manierismo che si ignora è, se vogliamo, un «segno dei tempi».

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