Ritornato a Tokyo, le sale di Pachinko erano già chiuse. Solo il kogichi, l'uomo dei chiodi, lavorava ancora. Domani, tutte le biglie seguiranno un altro cammino. Domani, non ci si potrà che disperare, davanti alla macchina con la quale anche oggi si era vinto. A notte inoltrata, a Shinjuku, un quartierepieno di bar. Nei film di Ozu apparivano molte di queste viuzze nelle quali i suoi eroi solitari e abbandonati si ubriacavano col saké. Prendevo la mia cinepresa e filmavo, come d'abitudine. E poi una seconda volta: la stessa viuzza dalla stessa posizione della cinepresa, ma con un altro obiettivo, il cinquanta, un teleobiettivo leggero che Ozu utilizzava per ognuno dei suoi piani, senza eccezione. Si manifestava così un'altra immagine che non mi apparteneva più. Al cimitero, l'indomani, gli stessi invisibili corvi continuavano a gracchiare, e i bambini a giocare a baseball. Sui tetti dei palazzi del centro città, i grandi giocavano a golf, uno sport che ha conquistato i giapponesi, anche se pochissimi tra loro hanno l'occasione di praticarlo su un vero terreno da golf. In qualcuno dei suoi film, Ozu ha mostrato questo entusiasmo per il golf con ironia. Eppure ero stupito dal modo in cui qui lo praticavano. Come forma pura, bellezza e perfezione di movimento. L'origine del gioco, tentare di inviare la palla in un buco, si era persa completamente. Non ho trovato un solo e ultimo difensore di questa idea. Ho lasciato l'immenso e crepitante stadio di golf per una breve cena. Come sempre nella vetrina del ristorante si potevano vedere già tutti i piatti. Dopo, ritornavo nello stadio che si era, nel frattempo, illuminato. Nel foyer dello stadio, un po' più tardi nella sera, il cerchio di questa giornata si richiudeva con immagini di baseball. E poiché anche qui ritrovavo le stesse imitazioni dei piatti della vetrina, ho deciso di visitare una delle botteghe dove si fabbricano questi simulacri, fedeli rappresentazioni della realtà. Tutto comincia con una vivanda reale, sulla quale si spande una gelatina liquida che si lascia raffreddare. Si ottengono così dei calchi che sono riempiti di cera, e queste forme in cera sono corrette con le forbici, poi dipinte e ulteriormente trattate. Durante la lavorazione la cera deve essere mantenuta calda. A parte questo, la preparazione di un sandwich di cera non è molto diversa da quella di un vero sandwich. Restavo là tutto il giorno. A mezzogiorno non ho avuto il diritto di continuare la mia ripresa. Era un peccato. Tutti gli impiegati erano seduti tra le loro opere di cera, e il cibo che avevano portato per pranzare assomigliava esattamente alle imitazioni circostanti. Si poteva temere veramente che uno di loro si ingannasse e sgranocchiasse un piccolo pane di cera. In cima alla torre di Tokyo, avevo appuntamento con un amico, Werner Herzog, che, in viaggio verso l'Australia, faceva scalo qualche giorno a Tokyo. Si discuteva. Capivo il desiderio di Werner per le ù:nmaginipure e trasparenti. Ma le immagini che cercavo, le mie immagini, erano qui, in basso, nel tumulto della città. Dopotutto non poteva impedirmi di essere veramente impressionato da Tokyo. Il pomeriggio prendevo la macchina per andare a vedere la Disneyland che avevano appena aperto alle porte della città. Ma l'idea di vedere una copia conforme delle attrazioni della California mi disturbava e tornavo indietro. Per di più pioveva a catinelle. Non rimpiangevo la mia decisione perché, poco dopo, in un parco della città, trovavo della gente cui la pioggia non impediva di sentirsi in America. La notte stessa incontravo, in un bar di Shinjuku che porta il nome di uno dei suoi film, La jetée, il regista francese amico dei gatti, Chris Marker. Tra qualche giorno devo vedere il suo ultimo film, il magnifico Sans soleil, nel quale mostra immagini di Tokyo inaccessibili alla cinepresa di uno straniero come me. Come tanti fotografi, Chris Marker non ama esserefotografato. Ma quella sera fa uno strappo. I treni, tutti i treni dei film di Ozu. Non un solo film nel quale non si vede, almeno una volta, un treno. Yuharu Atsuta era il secondo assistentealla cinepresa dei film muti di Ozu. Più tardi e per lungo tempo il primo assistente, e infine, per quasi vent'anni, il suo cameraman. Mi dava una dimostrazione del modo di lavorare di Ozu in interno. Si era riusciti a noleggiare la vecchia·Mitchell con la quale Atsuta e Ozu hanno effettivamente girato i loro ultimi film. Nel corso degli anni, Yasujiro Ozu ha.ridotto radicalmente il vocabolario del suo linguaggio cinematografico. Se esistevano ancora, nei suoi primi film, carrellate e panoramiche, egli le ha a poco a poco eliminate, per girare finalmente solo piani fissi, a livello dell'occhio di chi è seduto per terra, e sempre con un solo obiettivo, il cinquanta. Era la posizione standard per i piani larghi, raccontava Atsuta. Per i piani ravvicinati, si alzava la cinepresa, per principio. In effetti, utilizzando una posizione bassa, si doveva far girare la cinepresa verso l'alto, tanto che questo provocava deformazioni che Ozu voleva evitare. Quindi si è sempre alzata la cinepresa, anche di poco, per ogni piano ravvicinato. . Ecco un treppiedi che lo stesso Ozu aveva disegnato per le riprese in esterno, continuava Atsuta, per permettere alla cinepresa una posizione più bassa che non era possibile con gli altri treppiedi. Tra quelli esistenti solo i treppiedi più bassi vi arrivavano. Ma siccome Ozu insisteva perché la cinepresa fosse ancora più bassa, il cameraman doveva allungarsi sul suolo per poter guardare ancora nel visore. Allora era avvantaggiato dal fatto di dover fare panoramiche. Atsuta raccontava: quando Ozu voleva sistemare un piano e gli assistenti avevano piazzato la cinepresa secondo le sue istruzioni, guardava attraverso il visore e sceglieva minuziosamente l'inquadratura. Poi diceva: «È questa», e gli assistentifissavano la cinepresa nella posizione data. Una volta installata la cinepresa, nessuno aveva più il diritto di mettervi mano. Poi, durante le prime prove, Ozu guardava di nuovo nel visore, dirigendo gli attori e assegnando loro il posto, e, dopo un'ultima correzione, la cinepresa era fissata definitivamente. Allora bisognava essere ancora più attenti che nessuno urtassé la cinepresa, così da non spostare l'inquadratura. Erano veramente tutti nervosi intorno alla cinepresa. Atsuta mi raccontava ancora: Ozu non amava troppo girare in esterno, soprattutto quando si affollavano i curiosi. Ci si è veramente affrettati sugli esterni, e quando era possibile li si è completamente evitati. Ho un ricordo di Ozu. È il suo cronometro è ci tengo a mostrarvelo. È la sola cosa che ho di lui. All'inizio di ogni ripresa, Ozu metteva in marcia il suo cronometro nello stesso momento in cui la segretaria di produzione inseriva il suo. E, poiché si girava con una camera sonora, si poteva aspettare il clic, e ogni volta il tecnico del suono tendeva l'orecchio e diceva: «Ma cos'è questo rumore?» Era importante per Ozu misurare il tempo il più esattamente possibile. Cronometrava ogni ripresa, e quando si vedevano i rushes, li ricronometrava ancora una volta. Ho sempre utilizzato delle storie così. Questi strani trucchi. È un po' stupido, non trovate? Mi sono sempre spostato con una stuoia come questa sotto il braccio. Era veramente uno strano lavoro. Ecco il cronometro che Ozu si era fatto fabbricare. Se ne è servito durante tutti questi anni. Con questo cronometro ha misurato tanto gli inserti quanto le scene d'azione. La linea rossa indica il metraggio girato nel formato standard di 35 mm, la linea nel mezzo indica i secondi, e la terza linea, qui, dà il metraggio per i 16 mm. Questo cronometro permetteva a Ozu di misurare il tempo esattamente, in secondi, immagine per immagine. Gli era prezioso. Ci tenevo a mostrarvelo. Per qualche giorno Atsuta mi aveva lasciato una sceneggiatura originale di Ozu. La sfogliavo con rispetto, ma ero un po' perso poiché non potevo decifrare un solo termine, nemmeno il titolo. Per quanto tempo siete stato l'assistente di Ozu? - Sono stato il suo assistente dall'inizio alla fine. Sono stato assistente alla cinepresaper quindici anni. E dopo siete diventato il cameraman di Ozu. - Sì. Come ve l'ha annunciato? - Semplicemente. Ha detto: «A partire da oggi, siete voi che farete questo lavoro, d'accordo?» Non ha detto più niente. Io ho semplicemente risposto: «Grazie tante». E fino ad oggi, la mia gratitudine verso Ozu non è cessata. Ero un artigiano della cinepresa. Non è falsa modestia dire che ero un artigiano. Ero fiero di avere come attrezzo la cinepresa di Ozu, tanto più che già conoscevo e ammiravo Ozu dal momento in cui ero ancora assistente. Tutti gli altri assistenti, uno dopo l'altro, erano diventati capo operatore, ed io ero sempre assistente nell'équipe di Ozu. Un giorno, mi ha detto: «Poiché volete diventare cameraman, siate paziente e diverrete il guardiano di una grande casa». Gli sono molto riconoscente di avermi detto questo. Molti dei miei colleghi lavoravano per un salario più alto, soprattutto i cameramen dei cinegiornali erano molto ben pagati. Ma io non mi davo da fare, rimanevo dove ero. Il mio posto era a fianco di Ozu. Era la mia scelta. Discutevate molto con Ozu, prima di girare? - No, non molto. Si scambiava qualche parola, niente di importante, soprattutto io non avevo niente da dire per quanto concerneva la regia. Gli chiedevo soltanto delle indicazioni come «Questa storia si svolge in settimane, mesi o per un anno intero?... ». È a causa della luce, per dare l'impressione delle stagioni. Quando più tardi girava con il cameraman Ogawa, Ozu non ha più adoperato altro obiettivo che il çinquanta e mi ricordo che diceva spesso: «Ogawa, perché insistete a suggerirmi il quaranta, quando sapete bene che preferisco il cinquanta?». Più tardi, una sola volta, anch'io gli ho chiesto di utilizzare un altro obiettivo. Egli ha guardato nel visore e ha detto semplicemente: «È proprio ciò che pensavo. Non è così bello come con il cinquanta». Allora ho stretto i denti e ho rimesso il buon vecchio cinquanta nella cinepresa. E da quel giorno, non l'ho più rimesso in discussione. Con il grandangolo si ha più spazio sul lato e anche sopra. Ma questo non era decisamente il gusto di -Ozu. All'epoca del cinema muto, voglio dire quando il parlato è apparso, il quadro è diventato un po' più stretto, a causa della pista sonora. Prima del parlato, sapete, si poteva utilizzare tutta la superficie del negativo. E io credo che questo ha influenzato la sua concezione del quadro. Per quanto riguarda la luce e le illuminazioni, mi ha lasciato ogni libertà. Nel film Il était un père, c'è questa scena verso la fine, dove il padre muore, vi ricordate? Ho dato una luce molto viva in questa camera d'ospedale, come se entrasse il sole. Questo genere di luogo fa pena quando fuori è bello. Allora ho dato una luce molto più forte del solito e Ozu mi chiedeva: «Che cos'ha fatto? Sta male!». Ed io gti rispondevo: «Per dire la verità, non vorrei che il vecchio muoia nell'oscurità. Vorrei che egli spirasse in una Sfecie di chiarezza, di luminosità». E Ozu mi gratificava: «E esattamente così che si deve girare». In genere non mi diceva mai ciò che pensava della ripresa, o se gli piaceva. Io non l'ho mai sentito dire: «Bene, era una bella ripresa». A rigore, avrebbe detto, alcuni giorni più tardi: «Non era tanto brutta, l'altro giorno!». Era veramente una caratteristicadi Ozu. Un giorno mi domandava: «Avete la fidanzata?». Gli rispondevo: «Sì, ha tre gambe e la porto sulle spalle», parlando del mio treppiede. Più tardi, mi punzecchiava spesso con ciò. «La vostra fidanzata, quella che ha tre gambe, è veramente un tesoro». Ho amato Ozu, e ho provato questo sentimento per lui fino alla sua morte. Lo sapeva bene. Sono probabilmente ... So che questo può apparire strano a dirsi... Sono probabilmente il solo cameraman al mondo che abbia passato tanto tempo con un solo regista, dal mio primo assistentatofino alla fine. No, non credo che questo sia avvenuto altre volte. Questo è tutto il mio orgoglio, avere servito Ozu. Gli interni sono stati sistematicamente girati in studio. Mai in scenari naturali. La sola eccezione erano i treni. Quando bisognava girare in un treno, ho sempre detto a Ozu: «Soprattutto non in studio!». Ed egli questo lo accettava. Si può fare quello che si vuole: i treni in studio hanno sempre l'aria strana. Tremano dappertutto, ma questo non ha niente a che vedere. È per questo che ho sempre insistito a che si girasse in un vero treno. E in tutti i film di Ozu del dopoguerra, statene certi, i treni sono autentici. Si impiegava sempre molto tempo per gli appostamenti. Ma non ci si serviva mai della macchina. Si faceva tutto a piedi. Si è sempre camminato. C'era una battuta per questo: «Gli appostamenti, durano fino all'agonia». Un'ultima domanda. - Sì. Dopo la morte di Ozu avete lavorato con altri registi? - Sì, l'ho fatto. Ma stavo molto male. Ero completamente abbrutito. Non so çome spiegarvi. Ho continuato a lavorare per un certo tempo, ma non ero sensibile nè al lavoro, nè al regista. Qualcosa si era perso. Ozu si prendeva il meglio di me. Ed io, gli davo il meglio. Cosa che non ho ritrovato con gli altri. Io gli sono riconoscente. Qualche volta ci si sente soli. Lasciatemi ora. Vi ringrazio. Sì, si rimane soli... Ciò che dà la forza, ciò che si chiama anima, non si può spiegare a nessuno. Le persone con le quali ha lavorato, lui si è occupato di loro. Era più di un regista. Era come un re. Ora deve essere contento. Oggi qualcosa non va. Per piacere, ora lasciatemi solo. Sono desolato, ma... Yasujiro Ozu era un grand'uomo. Traduzione dal francese di Damiana De Benedetti
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