Alfabeta - anno VII - n. 78 - novembre 1985

Prove d'artista Wim Wenders Tokyo-Ga [Alfa berta 78] Se il nostro secolo assegnasse ancora un suo posto al sacro, se si dovesse erigere un santuario del cinema, io vi collocherei, per quanto mi riguarda, l'opera del regista giapponese Yasujiro Ozu. Ha girato cinquantaquattro film: film muti negli anni '20, film in bianco e nero negli anni '30 e '40, e poi film a colori fino alla sua morte nel 1963, il 12 dicembre, giorno del suo sessantesimo compleanno. I suoi film raccontano sempre, con mezzi ridotti al minimo, le stesse semplici storie sulla stessa gente, nella stessa città, Tokyo. Questa storia che comprende una quarantina d'anni, registra la metamorfosi della vita in Giappone. I film di Ozu parlano del lento declino della famiglia giapponese, e del parallelo çf,eclinodi un'identità nazionale. Lo fanno senza denunciare nè disprezzare il progresso e la comparsa della cultura occidentale o americana, ma piuttosto lamentandone con controllato rimpianto la perdita che simultaneamente ha inizio. Per quanto giapponesi essi siano, questi film possono pretendere ad una comprensione universale. Vi ho potuto riconoscere tutte le famiglie di tutti i paesi del mondo, come i miei genitori, mio fratello e me stesso. Per me il cinema non fu mai, nè prima nè dopo, così vicino alla sua propria essenza e alla sua stessa determinazione, dando un'utile immagine, una vera immagine dell'uomo del XX secolo, immagine che gli serve non solo a riconoscersi, ma soprattutto a capire se stesso. • L'opera di Ozu non ha bisogno· dei miei elogi. Un santuario del cinema non può esistere che nell'immaginario, e il mio viaggio a Tokyo non aveva nulla del pellegrinaggio. Ero semplicemente curioso. Avrei trovato ancora qualche traccia? Forse restavano ancora delle immagini o anche delle persone. O forse a Tokyo avrei scoperto tanti cambiamenti depo la morte di Ozu che non avrei potuto riconoscervi più niente. Non ho più memoria. Non mi ricordo più niente. Lo so, ero a Tokyo. Lo so era la primavera dell'83. Lo so. Avevo portato una cinepresa e ho filmato. Queste immagini adesso esistono e sono diventate la mia memoria. Ma penso che se fossi andato senza la cinepresa adesso mi ricorderei meglio. Nell'aeroplano avevo un film. Poco importa quale. E come sempre ho provato a non guardare. E come sempre non ho potuto impedirmi di guardarlo. Senza il suono le immagini là in basso, sul piccolo schermo, mi apparivano ancora più vuote. Una forma vuota simulatrice di emozioni. Mi faceva bene guardare dalla finestra: se soltanto si potesse filmare così, come a volte si aprono gli occhi. Soltanto guardare... senza voler provare niente. • Tokyo era come un sogno. E le mie stesse immagini oggi mi appaiono fittizie. Come quando si ritrova, dopo tanto tempo, un pezzo di carta sul quale si è scritto, alla mattina, un giorno, un sogno. Lo si rilegge e ci si stupisce. Perché non si riconosce nessuna delle immagini scritte e si crede che si tratti del sogno di un altro. Così mi sembra del tutto inverosimile che, nel corso della mia prima passeggiata, abbia visto veramente questo cimitero e tutti questi gruppi di uomini che facevano picnic, bevendo e ridendo ali'ombra dei ciliegi in fiore. Tutti fotografavano. E il gracchìo dei corvi persisteva ancora per molto tempo nella mia testa. È un piccolo ragazzo, nella metropolitana, che rifiutando di proseguire il suo cammino, mi ha permesso di percepirmi nuovamente, perché le mie immagini su Tokyo mi sembrano riflettere una percezione sonnambolica. Come di ogni altra città, avevo già un'immagine, un desiderio di Tokyo, ancor prima di esservi andato, immagine che mi ero fatto dai film di Ozu. Nessun'altra città e i suoi abitanti mi sono stati così vicini e così intimi. È questa vicinanza e questa intimità che le mie immagini su Tokyo ricercavano. Nel piccolo ragazzo del metrò ho riconosciuto, o piuttosto ho voluto riconoscere uno dei numerosi bambini sporchi dei film di Ozu. Ma forse ero venuto per riscoprire qualcosa che non esistevapiù. A tarda notte, e poi tutte le notti seguenti, mi sono perso in una delle numerose sale di Pachinko, dove si è seduti nel rumore infernale davanti alla propria macchina, tra tutta quella gente, ma ancora un po' più soli. E lo sguardo segue le piccole biglie metalliche che ruzzolano tra i chiodi. La maggior parte sono inghiottite dalla macèhina. Solo alcune raggiungono i piccoli bersagli vincenti. Una specie di ipnosi emana da questo gioco. Una strana felicità. Non c'è molto da guadagnare, tranne che il tempo passa, che ci si ritrova completamente fuori di sè per un momento e che si dimentica ciò che si aveva voglia di dimenticare. Questo gioco è apparso giusto dopo la guerra persa, allorché i giapponesi avevano da cancellare il trauma nazionale. Soltanto i più dotati - o i più fortunati - e sicuramente i giocatori professionisti arrivano a moltiplicare le loro biglie, che barattano con sigarette, gadget, prodotti alimentari, o ancora con gettoni che possono cambiare - illegalmente - con soldi in uno dei vicoli dei dintorni. Sono rientrato ali'hotel in taxi. Più la realtà di Tokyo rinviava una profusione di immagini minacciose, se non disumane, più grande e ancora più maestosa mi ritornava alla memoria l'immagine tenera e ben ordinata della Tokyo mitica dei film di Yasujiro Ozu. Ecco ciò che forse non esisteva più, lo sguardo ancora capace di creare un ordine in un mondo sempre più confuso. Uno sguardo che ancora riuscisse a rendere questo mondo trasparente. Forse oggi un tale sguardo è diventato impossibile. Come pure uno come Ozu. L'inflazione galoppante di immagini forse ha già troppo distrutto. Non è il drappo stellato che apparirebbe al seguito di fohn Wayne, ma il cerchio rosso della bandiera giapponese. E prima di addormentarmi, pensavo ancora stupidamente: io adesso sono al centro del mondo. Ognuna di queste televisioni di merda costituisce, non importa dove, il centro del mondo. Il centro è diventato un concetto ridicolo. E il mondo, l'immagine del mondo, un'idea via via più assurda, quanto più si accumulano i televisori. Eccomi nel paese dove si"7abbricano televisori per il mondo intero, affinché il mondo intero possa guardare le immagini americane. Uno dei giorni seguenti ho fatto visita ali'attore Chishu Ryu. Ha recitato in quasi tutti i film di Ozu, dai primi muti, il più delle volte nei ruoli di uomini molto più anziani di quanto lui non fosse. Nella maggior parte degli ultimi film di Ozu egli impersonava il Padre mentre era non molto più vecchio degli attori o attrici che recitavano la parte dei suoi figli. Una volta l'ho visto nello stesso giorno in due diversi film di Ozu. Nel primo, girato all'inizio degli anni '30, interpretava la vita di un uomo, dalla sua giovinezza alla sua vecchiaia. Nel secondo, datato fine anni '50, egli aveva allora veramente l'età del personaggio del film precedente. I personaggi e le storie di questi due film erano quasi identici. Mai ho avuto più grande rispettoper un attore come quel giorno per Chishu Ryu. Ho provato a dirgli questo e il mio elogio gli ha dato piuttosto fastidio. Mi ha risposto un po' evasivamente, con umiltà. Allora, diceva, avevo veramente trent'anni, e il personaggio di cui gli avevo parlato doveva avere sessant'anni. Non si trattava tanto di recitare la vecchiaia ma di avere un'aria vecchia. Niente gli aveva dato tanta preoccupazione quanto avere quest'aria più vecchia. Ozu gli diceva semplicemente come doveva fare, ed allora egli eseguiva, come gli si era chiesto, senza porsi troppe domande. In ogni caso, con Ozu non si trattava tanto per gli attori di riportare le proprie esperienze bensì di seguire alla lettera le indicazioni del regista. Attraverso l'interprete gli domandavo se Ozu faceva molte ripetizioni. Questo dipendeva, sicuramente, dalla difficoltà della scena in questione. Il più delle volte due o tre ripetizioni bastavano, poi si..girava. Ma, precisamente nel suo caso, bisognava confessarlo, Ozu e_rararamente soddisfatto dalla prima o anche dalla seconda ripresa. Con lui, Ryu, spesso prendeva ancora più tempo. Si ricordava anche di avere ripetuto una scena più di venti volte. Lui stesso non aveva la minima idea di ciò che non andava. Gli diceva soltanto: anche il peggiore dei tiratori dovrà raggiungere il suo bersaglio, almeno una volta, se lo si lascia tirare abbastanza a lungo... Finalmente Ozu gli aveva domandato gentilmente: «Non è il vostro giorno oggi, Ryu, oppure cercate di mettermi alla prova? ... » Con altri attori, migliori di lui, la maggior parte delle volte Ozu era soddisfatto dopo una o due riprese. Ma con lui, Ryu, il lavoro diventava più difficile. Forse doveva classificarsi tra i cattivi. Per Ryu la sua relazione con Ozu era sempre rimasta quella di un allievo col suo professore, o quella di un figlio col padre. Benchè Ozu non avesse che un anno più di lui, una distanza enorme li separava intellettualmente. Ozu era sempre rimasto il maestro con il quale Ryu non aveva fatto che apprendere, dall'inizio alla fine. Ozu, il Maestro, aveva una forza di caratterestraordinaria, e aveva modellato tutto a sua immagine. Così tutto diventava Yasujiro Ozu. In studio, per esempio, egli non si occupava soltanto de~'aspetto generale della scenografia e della decorazione, ma allo stesso modo di ogni dettaglio e di ogni piccola cosa. Sistemava ogni cuscinetto e dava un posto ad ogni oggetto nella scena. Non lasciava nulla al caso. E quando qualcuno sa così esattamente ciò che vuole, finiva Ryu, ciò si giustifica senza alcun dubbio. Personalmente, diceva Ryu, avevo soprattutto appreso da Ozu a dimenticare me stesso, a diventare una pagina bianca, per così dire. Non pensavo a nient'altro che al mio lavoro, ciò significava prima di tutto che non avevo un'idea preconcetta su questo lavoro. Come muovermi in armonia con le istruzioni del maestro? tutti i miei pensieri vi si concentravano e questa era la mia sola preoccupazione. Nessun altr:ofilm o attore, diceva Ryu, mi ha influenzato. La mia sola preoccupazione era di diventare un colore sulla tavolozza di Ozu. La grande fortuna della sua vita era che Ozu aveva scelto proprio lui tra tanti altri. Altrimenti la sua vita avrebbe preso probabilmente una direzione completamente diversa. Ozu gli aveva dato un ruolo, gli aveva insegnato delle cose, a volte con forza tranquilla, che non avrebbe potuto mai apprendere senza di lui. Attraverso Ozu, lui che non era nessuno, era diventato qualcuno di nome Ryu. Era Ozu che l'aveva creato. Le donne avevano riconosciuto Ryu perché, non molto tempo addietro, aveva recitato in un serial televisivo. Oggi più nessuno lo riconosceva per i film di Ozu, ci spiegava più tardi, come per scusarsi. Si prende il treno per andare al cimitero, non lontano da dove Ozu è sotterrato. Kita Kamakura, questa stazione appariva in uno dei suoi film. La tomba di Ozu non porta nome. Soltanto un antico segno cinese: MV che significa il Vuoto, Niente. Pensavo a questo segno, in treno, ritornando. Niente... Bambino, ho spesso provato ad immaginarmi il Niente... L'idea stessa mi aveva ispirato paura. Niente. Non poteva esistere, cercavo di persuadermi. Poteva soltanto esistereciò che era là, il reale, la realtà... Non, c'è nozione più vuota e più inutile nel contesto del cinema. Ognuno sa da sè ciò che vuol dire la percezione della realtà. Si vedono gli altri, soprattutto coloro che si amano. Si vedono le cose intorno a sè. Si vedono le città, e i paesaggi nei quali si vive. Si vede anche la morte. La caducità degli uomini e la fragilità delle cose. Si vede e si vive l'amore, la solitudine, la felicità, la tristezza, la paura... In breve, ognuno affronta la vita da solo. E ognuno conosce attraverso se stesso lo scarto spesso ridicolo tra le sue esperienze personali e le rappresentazioni del cinema. Si è talmente abituati a questo scarto, e ci sembra talmente evidente che il cinema e la vita si sono allontanati, che si trattiene il respiro e ci si stupisce se tutto a un tratto, su uno schermo, si scopre qualcosa di vero, di reale, sia un uccello che attraversa l'immagine, o una nuvola che proietta la sua ombra per un momento, o il gesto di un bambino sullo sfondo. È sempre più raro, nel cinema d'oggi, che tali momenti di verità si producano,· che gli uomini e le cose si mostrino così come sono. Era questo l'incredibile dei film di Ozu, soprattutto degli ultimi. Erano questi momenti di verità, non soltanto momenti, una verità estesa che si prolungava dalla prima all'ultima immagine. Film che parlavano veramente e costantemente della vita stessa, e nei quali gli uomini stessi, le cose stesse, le città stesse e i paesaggi stessi si rivelavano. Una tale rappresentazione della realtà, una tale arte, non esistono più nel cinema. Così era una volta. MV. .. Il vuoto. Ciò che.regna ora. e:, ...... c:s .s ~ c:i.. ~ °' ...... ~ ..t:) E: ~ ;:.. o i.:: ~ ~ ~ ~ ..t:) ~ --------------------- .-.----------------------------------------------------~ c:s

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