R itmo è ripetizione in un movimento, scansione di pause e riprese in un tempo differenziato. L'universo mitopoietico di Alcyone vive di ritmi: dalla vicenda stagionale alle danze sillabiche, dalla durata di figurazioni assolute, estranee alla storia e all'esperienza, all'epifania di istanti sospesi tra la fuga e il possesso, il delirio fonico e la trasfigurazione, l'inseguimento del senso. Una struttura a fascio, una strumentaziope polifonica che cela e insieme suggerisce ad ogni momento le proprie divaricate possibilità di lettura. Osserviamole in iscorcio in uno dei luoghi più consacrati dalla frequentazione critica, sottoponendo una lirica dall'ambiguità. insospettabile come la Pioggia nel pineta al curioso controcanto dei Carne/- li. Le conseguenze sono subito interessanti: tra gesti e forme iterate si determina sulla pagina un andamento speculare che preserva le simmetrie, capovolgendole. Le due poesie, contemporanee e di identica ambientazione (Marina di Pisa, come attestano i Taccuini), illustrano per fasi uno scorrimento tematico, fonico, sintattico, di abilità e scioltezza stupefacenti. Dalla rigenerazione della materia al suo infracidito deformarsi, da tonalità armoniche ad accordi dissonanti, dal periodare ininterrotto alla frantumazione interpuntiva: la citazione soccorre, puntuale. I passi leggeri, intricati dal «verde vigor rude», si riflettono, desublimati, sul lento incedere di callosità deformi, tra l'arsura («Sotto i lor piè distorti / scricchiolano le pine / aride, gli aghi morti»). E poi è µn mmterrotto succedersi di travestimenti: i volti silvani, ingentiliti da polle e mandorle acerbe, assumono - nel gioco retorico della laus vituperium - la maschera raggrinzita della materia disfatta («Appar la gialla chiostra / dei denti aspri, il palato/ violaceo ( ... ) treman le labbra molli / e lacrimano i bruni occhi /esanimi») e il verbo acustico («s'ode»), già formula iniziatica di attesa nel prodigio delle parole non «umane», si assesta sulla registrazione asciutta, tra il succedersi spoglio di cadenze statiche («E s'ode quel lor triste gorgòglio»), avverbi graduati («a quando a quando») e altri indici di corrispondenza («più sottil... più tremulo ... più fresco ... s'ode I rispondere ... »). Un modo fra tanti per entrare nel vivo dell'argomento. E lasciar circolare, intanto, il sospetto consueto che d'Annunzio non meriti, o non sopporti, interpretazioni a senso unico, neppure quando l'abbandono panico, l'adesione biologica di una parola-«mistero carnale» (Raimondi) ai ritmi e alle pulsioni di un sentire vegetale faciliterebbero, nel multanime, il riconoscimento di un'identità. Alcyone è il diario di una luminosa stagione solare ma anche l'esatto contrario, la riproduzione di una natura funebre, di una vitalità negata e raggelata, di un'attonita contemplazione dell'insignificante, del nulla. Ed è, ancora di più, una storia di strumentazioni possibili: l'allegoria della vita e della morte che qui abbiamo fuggevolmente colto, nell'iconografia persuasiva della Pioggia nel pineta e dei Camelli, è troppo carica di segnali tecnici, di precisi parallelismi stilisti e tematici, per non suggerire l'ipotesi di una esercitazione di scrittura sostenuta su registri differenziati. Il tema si fa allora complesso, e non lo può certo esaurire il semplice ricorso alle ragioni del «tecnico peritissimo», incapace di profondità. La deperdizione dell'essere risponde, in d'Annunzio, a un'unica, reale esigenza: quella di esorcizzare la morte, l'errore del tempo. Sottrarsi, quindi, al tempo vissuto, frantumarlo in un istantaneismo privo di durata, o nel quale comunque la durata sospenda il suo corso: e può essere la favola bella delle improvvise, luminose trasfigurazioni del quotidiano, il pulsare biologico di un universo avvertito come corporeità, fissato in emergenze frammentarie; o, contemporaneamente, l'attualizzarsi del mito, la celebrazione, da parte di un io sempre enfatizzato, di una fittizia, illusoria volontà di potenza. Se si esorcizza la morte, si esorcizza la vita, dal momento che è la morte la misura dell'esistere, e il non esserci ( davvero nei modi di un ultimo paradosso) trova il suo significato, la sua spiegazione nell'esserci. La morte resa immortale nello spazio metastorico della finzione estetica obbliga a un indifferenziato, precario stato di totalità, in cui la carica vitale e l'orrore della materia possono coesistere, prove d'artista che sperimenta nel verso la possibilità di un presente spettrale e immobile. ~ . f!,, i ,'/ l :'. ',.:.~-?. i. cyone è, non a caso, un tempo di corporeità, di rivelazioni antropomorfizzate, in cui la sensazione, lo spazio dilatato dell'istante, si rapporta al tutto di entità impersonali e astratte: la totalità può coincidere allora con la nudità effusa, immensa di una stagione che diviene carne, e che lo sguardo, contemplando, ipostatizza in plastiche figurazioni. Ed è !'«Estate ignuda», cosmica, della Tregua, che arde «a mezzo il cielo», e la spazialità immobile, la fisicità ingigantita del corpo femminile che, al termine di un percorso di metaforizzazioni verbali, si concede, in Stabat nuda aestas, all'amplesso panico («Immensa apparve, immensa nudità»), per divenire subito dopo rievocazione nostalgica, nel presentimento della perdita irrecuperabile (Ditirambo lii: «o Estate, Estate ( ... ) ti loderò se m'esaudì, I se soffri che un mortai ti domi, / che in carne io ti veda». Un corpo datità, non un corpo esistenza: e con esso un tempo irrimediabilmente estraneo al soggetto, che può solo contemplare la distanza dal prodotto del proprio inesausto immaginare. Il fatto è - ce lo ricorda di nuovo Asor Rosa - che «non esiste ciò che è in assenza di ciò che si è». Il tempo non vissu_todi d'Annunzio, il suo corpo-oggetto-rappresentazione, la percezione polimorfa dell'artefice sommo, sono destinati allora a un'altra verifica: l'impossibilità del presente, della «de- («Quel che mi fu da presso, ecco,· è lontano. I Quel che vivomi parve, ecco, ora è spento», Furit aestus). Ed ecco il presente-citazione, racconto di metamorfosi, tra la fluidità dell'immersione panica nei non luoghi del proprio sogno, perduta la memoria dell'esserci («Vedi? I tuoi piedi / nudi lascian vestigi/ di luce, ed a' tuoi occhi prodigi I sorgon dall'acque. Vedi?», Bocca d'Arno) e l'irrigidimento della materia nell'eternità immobile del gesto («Poi tutto è marmo, immota I bellezza, effigiato silenzio», Il Gombo). Ma può anche capitare che il tentativo di sottrarre il mutevole allo spazio e al tempo del conflittuale, del reversibile, del puro accadere, isoli ritmi composti: è questo il caso del disperato inseguimento sillabico che percorre il Fanciullo ( «d'ombra in ombra», «di ramo in ramo» ... ), la traumatica ripercussione sinonimica della materia verbale in fuga («s'allontana», «fugge», «fuggevole», «lontana», «si dilegua», «vana»... ) cui si contrappone l'invocazione sterile a una staticità che riassorba l'assenza (i performativi: «t'arresta!», «sosta!», «Sediamo» ... ), e con essa la morte degli dei, nel tramonto definitivo del mito («Gli antichi iddii son vinti ... Giaccion ... dormono»). Tra possesso dell'arte e fuga dal tempo si consuma insomma - ha davvero ragione Anceschi - il reneppure la ripresa, con certa, frequenza, di ritmi e modi quattrocenteschi, secondo la grazia lieve del Poliziano e del Magnifico («Solstizi ed equinozi I passano; passa il colchico e la rosa. I Tutto ritorna; e la saggezza è vana», L'otre). Letteratura sulla letteratura, senza dubbio, gioco di specchi: già, ma poi quelle Ore che sembravano viventi ed eran larve cinerine, quella carne erbate che s'infràcida, quella contemplazione della morte nell'istante supremo del trapasso («ed è la faccia dell'Estate/ quella che langue/ nell'aria lontana, che muore / nella sua chiaritate I sopra !'acque (... ) dopo che tanto l'amammo, dopo che tanto ci piacque», Il Novilunio; «Trapassa l'Estate, supina I nel grande oro della cesarie», Undulna) compiono talora il prodigio. Ecco: mentre vacilla la fiducia nel sogno, nell'inattaccabilità della finzione, nella sacralità del ruolo («Quivi masticherò la foglia amara/ del mio lauro», L'arca romana), l'effimero costruisce un proprio paesaggio di relitti. Le rovine di una civiltà raccontate per tracce leggere da chi, non possedendo l'energia dell'anti-sublime, trasforma le macerie della vita in segni labili, visualizzati dallo sguardo attonito dell'esteta che non sa rinunciare al proprio protagonismo: «A' miei piedi il segno d'un'onda I gravato di nero tritume I s'incurva, una macera fronda / di rovere sta tra due piume, / un'arida pigna dischiusa/ che pesò nel pino sonoro/ sta tra l'orbe d'una medusa / dispersa e una bacca d'alloro». Il negativo è l'immobilità, lo sradicamento, la distanza tra occhio e parola, l'assenza del gesto. È il contrasto tra la musicalità danzante di un ritmo di novenari e la staticità del giacere in basso, levità senza volo (le piume), purezza contaminata (l'onda nera), in- , volucro vuoto (l'orbe di medusa). t t Uno stare davvero «dentro» il , .. . -,~" r_• linguaggio, ma per usarlo senza la- -~<~--"'· ·,•" ·' -"',,.., .. ! sciarsi parlare, senza quel «forare · -~~j;::~;.-> ì~ • • ·.. f. insistente la parete opaca dell'io- •~ -~ ··"-:1;;,•: 7 ,. '.: "" .... i:_.._-;t dicibile», illustrato ora d~ Porta. . : ._..,,. •,~~·"'· ._ .·J.,"· Eppure leggere d'Annunzio, stare .,,,t:.- .._.. ~ ,.,.. ,i,-.,. . è,,~:~~°;:~_" .. ;~:=~-_.,_ ,? con l~i ne~ fare poesia, yuò rise- . . ... • ~~-~:"'~,-~~~.,,, ..., . . mantlzzars1 anche da qm, da que- :" .,:...-- -~~....;,,_, ..~..~. -- : ...--1· •• sta prospettiva estrema de!la fine , : ·, .:,;,,•;,;,,-:;::;;;:~- .+•:i'-~ { del tempo, che consente d1 pene- ..• ,.,.., ,;,,,e+-:!"~ • .•• ,j'./\~\<r•· , . ' ··i. trare sino in fondo nella contrap- " --~,--"~~i~:;;:t?-~--:· ··· _.·,._. -: ·:<~.:·::'. ••• !: posta vitalità dell'immediato. • • - r . ;►'{_; • •,;:.,., •• •·· . ;_ La vita, l'essere vissuto (anche , , . ;1 ,._,. ,' :-<·:·,~;.,.i~""'"""'~1~·:, i se non il vivere, nella responsabili- . . . . ,·· '1t" .... ,· .,.. ,rf' .o· . ). ~ ,.t.:/ ,,.,·;yi-"..'.. • /",:,,4,.;;,'if:~: • .. .• i tà storica dell'evento) ricevono, ~►•~--,.,,,~~~~w,1,~i;...~.•••,-111•~~~,.~.(J.;a da questa moi:te reale delle cose , ~ ·r ' E ppure, «le temps est - l'éternel présent», sosteneva il Valéry dei Cahiers, eletto dall'Imaginifico «fratello minore e maggiore». Anche lui affascinato e tormentato dalla continuità e dalla possibilità di ritagliare, nel continuo, la presenza del simultaneo, dell'intenso, misurato sul rapporto io-corpo («Le Temps est aussi une mesure d'énergie par le corps. Le Corps est mesure des choses»). Se il tempo del Gide ben noto già al d'Annunzio paradisiaco assolutizzava l'istante, e la pausa, l'intervallo, i «soprassalti» dell'essere indipendenti da ogni durata («Nathanael, je te parlerai des instants. As-tu compris de quelle force est leur présence?» ), quello di Valéry tentava di ricostruire, oltre la separatezza, l'esistere oggettivo. Il tempo rappresentato in Alle {~--1- f A 7/J t-cf { '1.-?J-(,,-•~~- _.. la trasfi~ur~zione c~e li rivela, ,.. mentre !'10, 1terandos1a eco, attecisione», direbbe oggi il filosofo, tra stupore e caso. E il trovarsi a esist~e può così esaurirsi nell' oblio e nell'attesa, sull'intermittente confine che separa (e congiunge) il Tutto e il Nulla. Un esistere garantito dal mito nello spazio protettivo e rivitalizzante del passato, del «non più», o in un futuro che del passato è ripetizione già tutta prefigurata: davvero una «disperata utopia» (Gibellini), una «laica vocazione all'assoluto», esplicitata tra logos e mythos. Può uscire, dal perenne ritorno· degli eventi, da quel mito che era stato corpo, l'indifferente strumentazione della parola, la stupefatta libertà che nasce dal «più remoto oblio» («e tutto è obliato ( ... ) per tutto sarà l'oblio, I per tutto sarà l'oblio», Il Novilunio), e quindi dal distacco, dalla distanza cupero senza fine «del gioco com- nua, tra segnature labili di oggetti, plesso della maniera, dei suoi la propria densità («e niuno più specchi, delle sue illusioni». saprà/ quanto sien dolci/ !'ombre E tuttavia c'è in Alcyone un momento che lascia insinuare il sospetto della reversibilità del tempo, della morte come fine delle cose che «piacquero», della «vita che fu». Non certo, o non tanto, i Madrigali dell'estate, pure pervasi da una tipologia della morte, della vitalità franante, secondo una iconografia ispirata a figurazioni tardo-rinascimentali e barocche (le clessidre, i quadranti, le urne, gli ingranaggi del tempo misurabile: «Alla sabbia del Tempo urna la mano I era, clessidra il cor mio palpitante, I l'ombra crescente d'ogni stelo vano / quasi ombra d'ago in tacito quadrante»). E dei voli/ su le sabbie saline,/ !'orme degli uccelli I nell'argilla dei fiumi, I se non io, se non io... », Il Novilunio). La canzone «di foglie di ali di aure di ombre / di aromi di silenzii e di acque», mentre si tace per sempre, definisce lo spazio, il tem-· c::s .s po della propria evidenza, del pro- ~ oO prio biologico pulsare, nell'inter- ~ vallo breve tra i due silenzi che ~ °' ...... precedono e"seguono l'esistere. ~ .(:) Questo scritto è la traccia della ~ relazione che l'autrice presenterà ::._ al convegno «Stabat nuda aestas», "- organizzato dal Comune di Viareggio, dalla Cooperativa lntra- ~ presa e da Alfabeta nei giorni 3, 4, l 5 ottobre. ~
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