Alfabeta - anno VII - n. 77 - ottobre 1985

vece dello 'spiazzamento' (crowding-out), si avrà un effetto esattamente contrario (crowding-in); i risparmi privati disponibili per investimenti privati varieranno in relazione diretta con il fabbisogno del settore pubblico, e non in relazione inversa». Mentre «i risparmi che vengono teoricamente 'liberati' dalla riduzione dell'indebitamento non esisteranno più quando l'indebitamento sarà ridotto». Quanto agli effetti inflazionistici del deficit pubblico, Kaldor sottolinea che questa tesi discende «dal fatto che il processo inflazionistico viene concepito come determinato da un eccesso di domanda», mentre è «un processo politico, ossia un tiro alla fune fra diverse fazioni e opposti interessi per strappare fette più grandi della torta nazionale, uno scontro che con ogni probabilità diventa tanto più acuto quanto più piccola è la torta (o quanto più si restringe)», in conseguenza della riduzione del deficit pubblico. M oneta - Prezzi. Una legge formulata nella preistoria della scienza economica è .stata battezzata teoria quantitativa della moneta: l'abbondanza del denaro, o il suo aumento, produce un rialzo dei prezzi di ogni cosa» (Richard Cantillon, Saggio sulla natura del commercio in generale, prima ed. francese 1755). Corollario di questa legge è l'inflazione interpretata come fenomeno monetario, che non può intaccare il funzionamento dell'economia reale. La teoria quantitativa si basa sull'assunto che la moneta sia solo un velo (i cui fili sono i prezzi espressi in moneta) che ricopre i meccanismi attraverso cui si esplicano le attività produttive e i flussi commerciali. Se alla teoria quantitativa associamo un mondo neoclassico abbiamo il monetarismo. Nel complesso «una teoria semplice e rozza», afferma Kaldor, che non è in grado né di definire in modo corretto cosa sia la moneta (piuttosto individua delle grandezze statistiche e le chiama moneta), né, di conseguenza, di spiegare come e perché si crei moneta in un sistema di produzione monetario capitalistico. Kaldor osserva: «giunto di fronte al problema di come le autorità monetarie possano aumentare l'offerta di banconote in circolazione, Friedman (il caposcuola del moderno monetarismo) risponde che vengono sparpagliate da un elicottero su una zona densamente popolata, anche se non approfondisce le conseguenze di questo Babbo Natale volante. (... ). Il meccanismo di trasmissione della moneta al reddito (e ai prezzi) rimane una 'scatola nera'». Kaldor definisce la moneta come potere d'acquisto e capovolge la relazione causale: è l'aumento del reddito e dei prezzi (i quali sono esclusivamente funzione dei costi) che induce la creazione di moneta per soddisfare ai più elevati vincoli di liquidità del sistema economico. L'offerta di moneta è quindi endogena e non può essere controllata dalla banca centrale, la cui azione si concentra sulla fissazione del tasso di interesse. Nonostante questi gravi buchi teodci, già individuati negli anni Cinquanta, dalla seconda metà degli anni Settanta il monetarismo è assurto a matrice delle politiche economiche (almeno nella loro componente monetaria) in tutti i paesi dell'occidente industrializzato. «Secondo l'opinione dei nuovi monetaristi - scrive Kaldor - per stabilizzare l'economia e evitare l'inflazione c'è bisogno innanzi tutto di garantire una crescita costante dell'offerta di moneta». La Gran Bretagna e gli Stati Uniti hanno cercato di seguire alla lettera questa prescrizione. Ma senza alcun successo: «L'offerta di moneta non crebbe affatto a un tasso moderato e costante, ma il suo andamento cominciò a esibire una serie di contorcimenti». L'esperimento inanellò continui insuccessi e provocò «una volatilità caotica di ogni cosa - tassi di interesse, tassi di cambio e tassi di inflazione». Friedman ha accusato del fallimento la grossolana incompetenza della Banca d'Inghilterra e della Federai Reserve (la banca centrale Usa). «Certamente - ironizza Kaldor - abbiamo bisogno di una teoria della moneta e dei prezzi per spiegare i casi dei paesi con banche centrali incompetenti». Sul piano nazionale, i costi del monetarismo sono stati la più forte recessione del dopoguerra e un numero di disoccupati così elevato da ricordare la crisi del '29. Sul piano internazionale, il riflesso del monetarismo al potere, con la sua filosofia del non intervento, è stata la paralisi di un rilancio di un piano per coordinare le politiche economiche e per risolvere i problemi derivati dal massicciodebito estero dei paesi in via di sviluppo. Allora si può forse affermare che il capitalismo è oggi malato perché è in mano ai monetaristi? O è così ammalato da aver bisogno dei monetaristi (nelle vesti di stregoni-guaritori)? Benché abbia fiducia nell'intervento della politica economica quale efficace rimedio contro le imperfezioni del capitalismo, Kaldor è un disincantato osservatore della realtà: «Su un piano più realistico, credo si debba riconoscere che le limitazioni dei gradi di libertà (gli strumenti in relazione agli obiettivi) della politica governativa sono poste da vincoli politici, sociali e ideologici che impediscono di intervenire in certi campi; l'incapacità intellettuale di riconoscere la necessità di quei principi (la necessità di una direzione economica omnicomprensiva) è un sintomo, anziché la causa, dell'inibizione». In particolare, «per tutti (politici, banchieri, giornalisti e leaders dell'opinione pubblica) il 'nuovo monetarismo' rispondeva ai bisogni del momento. Era semplice; offriva rimedi semplici; e, cosa più importante, offriva la prospettiva di rovesciare lo squilibrio crescente tra il potere dei lavoratori e il potere del capitale, che era il risultato della situazione di piena occupazione». A monte di questa «politica di 'rafforzare attraverso la miseria'» sta un briciolo di verità: se i salari all'interno di una nazione (industria, impresa) diminuiscono più velocemente che presso i concorrenti, ne guadagna la competitività, quindi la possibilità di allargare le vendite, la produzione, i profitti e, forse, l'occupazione. Tuttavia il fondamentale insegnamento di Keynes, che Kaldor ha formalizzato nella sua teoria della distribuzione, è che mediante una politica di crescita si possono avere più profitti insieme a più salari. È su questo insegnamento che occorre fare leva per promuovere una svolta nel modo di fare economia e politica economica. Un dibattitoteoricoscientifico $ i è fatto un gran parlare di interdisciplinarità, metadisciplinarità, transdisciplinarità, come pure del rapporto tra ricerca specialistica e divulgazione, tra scienza e senso comune. Ebbene, senza rifare discorsi generali, pos~iamo registrare un'iniziativa concreta atta a mostrare come, anche in questo periodo dispersivo, si possano tuttavia trovare solidi punti di collegamento, pur sempre parziale e problematico, senza pretendere di eliminare le tensioni tra posizioni diverse. In questi ultimi anni a Varese è stata tenuta, presso la Biblioteca civica, una serie di «seminari» i cui Atti si trovano ora in buona parte raccolti in un corposo volume, arricchito di note e riferimenti bibliografici. Sono interventi in varie discipline, soprattutto scientifico-filosofiche, centrati sul tema dell'importanza delle scienze per la cultura e in genere per la realtà contemporanea. Tale importanza emerge in primo luogo per la filosofia, che oggi non può più esistere a prescindere dagli sviluppi, benché resti sempre difficile calibrare esattamente il tipo di rapporto che deve avere con le scienze stesse (Giulio Giorello in particolare vi si prova qui definendo la filosofia una meta-modellizzazione rispetto ai modelli scientifici). Non manca però nemmeno qualche efficace collegamento della scienza con una cultura umanistico-estetica che tradizionalmente ne è stata avulsa - come quando Ermanno Migliarini tratta del «problema di un'estetica scientifica nella filosofia contemporanea» - oppure con quella cultura del mondo industriale e delle lotte operaie che emerge bene da un dibattito su «Scienza, organizzazione del lavoro e sapere operaio». Non è possibile ovviamente dar conto di tutti gli interventi, per esempio di quelli riguardanti le discipline logico-matematiche (trattate ·secondo vari punti di vista da Diego Marconi, Paolo Bottura, Gian Carlo Meloni, Alberto Peruzzi, Enrico Rambaldi) o di quelli relativi alle questioni della storia delle scienze (importanti le riflessioni di Enrico Rambaldi e quelle di Marcello Cini). Viene presentato anche il rapporto filosofia-etica (Cesare Vaso/i, M. Vittoria Predava/ Magrini) e ancora sono trattati i problemi epistemologici della storiografia sia in campo umano che naturale, con ampia cura di Luigi Zanzi (che è anche organizzatore di spicco di quest'iniziativa). È utile alla nostra nota informativa il considerare l'humus storico (nel quadro della recente cultura filosofica italiana) in cui questo tentativo viene a collocarsi. I termini di riferimento maggiormente presenti nell'ideazione dei Seminari - spiegano nell'Introduzione i curatori Massafra e Minazzi - sono «l'empirismo e la filosofia analitica da un lato, e il marxismo e la filosofia delia prassi dall'altro». Quanto ai riferimenti personali, si nota la chiara intenzione di raccogliere in particolare «l'insegnamento filosofico di L. Geymonat e M. Dal Pra» (p. 35); né manca di affiorare anche un consistente ricordo dell'insegnamento di Giulio Preti. Si tratta, in effetti, di autori in cui sono avvenuti interessanti contatti tra quelle due illustri tradizioni teoriche, sia pure in proporzioni e con esiti diversi. Tra i vari aspetti di questa complessa vicenda, uno mi sembra emergere qui con particolare vivacità. Si tengapresente che questi e alcuni altri filosofi sono stati protagonisti dell'aprirsi della cultura italiana alle concezioni filosoficoscientifiche sviluppatesi in ambiente soprattutto anglosassone. Ora - spiega Mario Quaranta - ciò determinò un grande dibattito su/l'americanismo. Quei filosofi infatti (e oltre ai tre già nominti Ferdinando Vidoni ricorda anche Luporini, Bobbio, M.M. Rossi e Banfi) avevano pubblicato le loro prime opere «al di fuori e contro la cultura idealistica, con un'apertura verso la cultura anglosassone e americana», similmente del resto al Gramsci di A~·ericanismo e fordismo e a quanto facevano in letteraturaPavese, Vittorini e Soldati (p. 286). Quaranta documenta chiaramente come nel primo dopoguerra il dibattito sull'americanismo sia ripreso con toni accesi anche nel- /' ambito della sinistra: particolarmente l'utilizzo del neopositivismo risultò per un certo periodo assai indigesto, fino a essere bollato come un'espressione ideologica degli ambienti economici del «monopolio»_ internazionale. Si tratta certamente di inerzie storiche legate a una ben determinata situazione italiana, cui non si sottraeva nemmeno la sinistra. Ciò nonostante, dicevamo, venne recuperata alla cultura italiana la tradizione empiristica e neo-empiristica (quest'ultima notoriamente ad opera soprattutto di Geymonat), mentre insieme veniva recuperato ulteriormente anche il marxismo. Se un punto di convergenza tra quelle due nuove acquisizioni di allora si può individuare, questo potr;bbe essere (troviamo qui suggerito) il seguente. Concetto· fondamentale tanto per un materialismo marxista che non si riduca (come invece in alcuni casi è avvenuto) a quello «volgare» o «meccanico», quanto per un empirismo non ingenuo né semplicisticamente induttivistico, è il nesso strutture concettuali-esperienza. L'esperienza cui attinge il conoscere va cioè intesa non come una «datità» immediata, bensì come qualcosa che è sempre mediato da strutture concettuali. Questo - ricorda Dal Pra - è il. tema fondamentale dell'empirismo critico di Giulio Preti, che da questo punto di vista ha contestato sia un certo tipo di materialismo sia il tipo di rinvio ali'esperienza che è contenuto nel programma husserliano di partire dal «mondo della vita», se quest'ultimo viene inteso come una presenza pura da struttitre concettuaJi e interpretative appartenenti a un soggetto sto- . ricamente determinato. Questa del resto - ricordano gli introduttori - è anche la critica rivolta da Geymonat dal punto di vista del materialismo dialettico marxista, per cui, come egli stesso ha scritto, «tutte le conoscenze, dalle più semplici alle più complesse, risultano dall'intima fusione di elementi precategoriali e di elementi categoriali, non separabili fra di loro se non con un atto di artificiosa astrazione». Da que-· sto punto di vista si può dunque trovare una convergenza, nel realismo critico (non metafisico), di empirismo critico e di materialismo critico. Veniamo ora a qualche rilievo sul tema fondamentale in questo campo, del rapporto fra le «teorie» e la «realtà». Se la conoscenza non è semplice astrazione da dati precostituiti, ma elaborazione di costruzioni mediante categorie a loro volta non fisse bensì storicamente mobili, senza pretesa di identificazione con la realtà, il concetto di verità risulta ovviamente relativiz-• zato. Il punto sta nel precisare questa relatività di ogni conoscenza. Ciò è trattato da Eleonora Fiorani con i suoi propri interessi materialistici rigorosi, e con ogni riferimento utile alle acquisizioni dell'epistemologia contemporanea. Va tenuto presente che, già in senso materialistico, si conosce «dentro limiti biologici, percettivi, sensibili ed inoltre dentro limiti storici e sociali». Ciò significa che vi è un'ineliminababile «relatività dei modi di approssimazione della nostra conoscenza alla realtà», nel senso di una continua sequenza ristrutturativa di conoscenze parziali, «in cui il falso è sempre insieme al vero, in cui la parzialità non può venire annullata. C'è una crescita di complessità e di determinazione, . non il raggiungimento di un assoluto» (p. 123). D'altra parte va respinto anche l'opposto atteggiamento, oggi così diffuso, di un relativismoparadossalmente assolutizzato, che annulla ogni oggettività e ogni forma sia pur limitata di certezza: «Il dissolvimento dell'oggetto con la riduzione della scienza o meglio delle scienze ad attività produttrice o costruttrice di simboli, logicamente connessi fra loro, è il dissolvimento del carattere conoscitivo delle nostre costruzioni intellettuali» (p. 127). Il problema del mantenimento di un qualche rapporto tra teorie e realtà deve necessariamentefare i conti con la maniera di concepire i modelli teorici. A questo proposito troviamo qui una puntualizzazione epistemologica generale di Marco Santambrogio su «Modello, verità e linguaggio», che sottopone a critica la teoria della verità come corrispondenza, anche nella versione popperiana che si ispira (discutibilmente, secondo Santambrogio) a Tarski. Per quanto riguarda invece le concrete vicissitudini storiche di alcuni grandi modelli, intervengono qui Roberto Maiocchi su «Significato e funzione del 'modello' nel meccanicismo», Silvio Bergia su «Il problema della modellizzazione nella fisica quantistica» e Felice Mandella su «I vari modelli di conoscenza nello sviluppo della medicina». Autori vari Il problema delle scienze neUa realtà contemporanea Atti dei Seminari varesini 1980-1984 a c. di M. Massafra e F. Minazzi Milano, F. Angeli, 1985 pp. 864, lire 45.000

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==