Alfabeta - anno VII - n. 77 - ottobre 1985

Finedelladecostruzione J. Hillis Miller The Ethics of Reading Seminario Università degli Studi di Bologna 8-18 maggio 1985 Fiction and Repetition: Seven English Novels • Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 1982 I Seminario di In forma di parole Pensare la fine: tStudi sulla «fin de siècle» 'Università degli Studi di Bologna 17-18 maggio 1985 The Sublime and the Beautiful: Reconsiderations n. di New Literary History: A journal of theory and interpretation voi. XVI, n. 2 (inverno 1985) Harold Bloom, Paul de Man, Geoffrey H. Hartman, J. Hillis Miller Per una critica antitetica a c. di Giovanna Franci e Vita Fortunati in In forma di parole III (luglio-settembre 1985) U n professore alto e magro, molto gentiluomo, che solitamente insegna negli Stati Uniti, in una delle grandi «scuole della lega dell'edera», tiene in inglese (in americano ... ) una serie di seminari all'Università di Bologna. Lui parla come se fosse a Yale, l'uditorio lo ascolta ... come? In questi tempi d'insistenza critica (oramai, come vedremo, eccessiva) sul ruolo del lettore, sarebbe tutt'altro che ozioso studiare quale scambio (o complesso di scambi contrastanti) abbia effettivamente luogo in una situazione come questa, al di sotto del livello diplomaticistico-ideologico - che è il livello di superficie. Ma queste righe non si propongono tale compito antropologico; il loro scopo è, più tosto, un succinto bilancio filosofico: che resta a questo punto, del così detto decostruzionismo? A chi formulatale ottimistico progetto di solito si leva innanzi, irta, una barriera di. scudi: per stendere questo bilancio, si dice, occorrerebbe analizzare prima tutti i vari decostruzionismi di tutti I van decostruzionisti ... Questa obiezione caratterizza le apologie delle filosofie totalizzanti (e per esempio è ancora usata per difese d'ufficio del crocianesimo), e ad essa si risponderà, per il momento, con due considerazioni: in primis, il decostruzionismo non è un pensiero sistematico; in secondo luogo e sopra tutto, il bilancio qui proposto è interlocutorio e non definitivo - dunque non ha difficoltà a dichiarare di essere fondato su un campione rappresentativo, non su un regesto totalizzante. D'altro canto, in simili situazio- ;q ni è essenziale che chi formula la ~ proposta si prenda la responsabili- -S ~ tà della rappresentatività del suo ~ ~ campione: senza di ciò, l'esperimento tentato perde l'interesse metodologico. °' ........ Sfortunatamente, il libro di Hillis Miller su Fiction and Repetition si apre proprio su questa rinunzia. Il volume è costituito da un'introduzione generale e da sette capitoli, ciascuno dei quali è dedicato a un romanzo inglese, dall'epoca. vit~oriana alla moderna. Sembra chiaro che, se l'autore ci presenta (come fa) un libro diviso in capitoli, invece che un album contenente estratti di saggi diversi, un'asserzione di rappresentatività (per quanto cauta e sfumata) è essenziale a tale intrapresa. E invece: «I modi di legger romanzi qui esemplificati funzionerebbero anche per altri romanzi dello stesso autore, o per altri romanzi scritti da altri autori del medesimo periodo storico, o da autori di periodi o paesi differenti? Sono 'esemplari', le mie letture? Ciò potrebbe essere stabilito solo èffettuando un numero maggiore di letture, ma la diversità dei modi di ripetizione tra i sette romanzi che ho scelto sembra suggerire che da ulteriori esempi - perfino in altri romanzi dello stesso autore - ci si possono attendere differenze altrettanto numerose che le somiglianze» (p. 4). Modestia scientifica, no? No, invece: qui si tratta di nulla meno che la rinunzia a sostenere metodicamente la propria scelta - e ciò denota qualche cosa che non ha nulla a che fare con la modestia. Qui non vi è abbastanza rispetto per l'oggetto dell'indagine; equesta debolezza lascia il lettore senza guida, e sospettoso di una fondamentale gratuità di ciò che gli vien messo dinanzi. N on varrebbe la pena d'insistere tanto, se questo caso non fosse purtroppo «rappresentativo» della retorica corrente oggi nei libri in continuazione sfornati dalle editrici universitarie statunitensi. È una retorica diplomaticistica e cautelosa, che mima due atteggiamenti fra loro inconciliabili: l'azione -del pensiero da un lato, i manierismi dell'istituzione accademica dall'altro. E questi barcamenamenti hanno gravi conseguenze pedagogiche. Per esempio, la situazione che ho descritto è probabilmente la causa fondamentale della natura ibrida di troppe tesi di laurea in letteratura scritte oggi negli Stati Uniti: le quali imitano esteriormente la struttura del libro diviso in capitoli, ma sono in realtà due o tre saggi eterogenei capziosamente incollati insieme. Tornando al problema filosofico, Fiction and Repetition è un esempio di quello che ho già chiamato «nichilismo morbido» - il limite che ha ormai portato all'esaurimento del decostruzionismo letterario (e dico «letterario» per, distinguere chiaramente tra la pratica in via di esaurimento di cui sto parlando e l'intrapresa filosofica, ben altrimenti fondata, di Derrida). Da un lato, infatti, il decostruzionismo letterario accenna, ammicca, a un pensiero radicalmente dissolutorio (sintetizzando: il percepito è solo linguaggio, e per di più il linguaggio è inadeguato a svolgere in modo soddisfacente le sue stesse operazioni). Ma dall'altro canto (con un giuoco di prestigio abbastanza scoperto) il decostruzionismo, giratosi un attimo, trae fuori dal cappello a cilindro tutta la tradizione accademica della lettura ravvicinata che se ne sta rannicchiata dentro al singolo testo: e in questo modo, per quanto radicale sia il linguaggio di tale analisi testuale, essa risulta priva di quegli orizzonti filosofici che hanno costituito la sola giustificaPaolo Valesio zione del nichilismo. Il problema, del resto, è tanto vasto da abbracciare tutta l'impresa delle scienze umane. E può esser formulato (semplificando, rria non troppo) così: il nichilismo è credibile solo come pensiero dello scarto o esclusione - e il primo scarto che esso opera è quetlo che rimuove ogni istituzione la quale dia una precisa cornice al pensare; ma l'università è precisamente una tale istituzione; dunque, un nichilismo universitario è essenzialmente ossimorico (ovvero, appunto, troppo morbido). Sono varie, e in parte rispettabili, le ragioni per cui i critici universitari riluttano a accettare la conclusione di questo quasi-sillogismo, o entimema; ma ciò non toglie che la conclusione stia lì, a scrutarci in faccia, fin da quando Nietzsche si collocò in congedo permanente. H illis Miller - critico fine, ed accorto - è voluto uscire da queste secche, ma al tempo stesso non ha voluto rinunziare al decostruzionismo. Il risultato è il discorso ibrido del suo interessante seminario bolognese del maggio scorso. Di fronte alla strozzatura nichilistica, egli ha indicato la via marcata dalla nozione di atto etico, insistendo su due caratteristiche di tale atto: esso risponde a un'esigenza che si pone come irresistibile; e esso è cosa tale che, una volta compiuto, compie a sua volta un nuovo effetto (non v'è bisogno di sottolineare il movimento di ritorno a Kant). Su questa base, Miller ha svolto letture interessanti di vari romanzi inglesi, sollevando indirettamente vari problemi di rilievo, e sopra tutto quello dell'intima combinazione - della embricazione - di etica e estetica. Ma per affrontare adeguatamente questo problema occorre lasciarsi alle spalle il criticismo decostruzionista. Valga un solo esempio: non si può insistere più di tanto sulla nozione di «atto etico» senza al tempo stesso criticare a fondo la insistenza criticistica nel valutare così altamente il concetto di «stranezza» o «bizzarria» ( odqness). Peccato, allora, che questo pro- • fessore di Yale abbia ribadito le sue fedeltà decostruzionistiche: prima di tutto, il restare annidati o arroccati entro il singolo testo (eredità anti-genealogica, dunque fondamentalmente anti-ermeneutica, del così detto New Criticism); in secondo luogo, l'operare per sineddochi anzi che per sintesi (abbiamo veduto sopra l'arenamento cui, così procedendo, si arriva). A questi due punti decostruzionisti ne va aggiunto un terzo, che continuava a emergere nel seminario, e non solo là: l'insistenza sul ruolo cruciale del lettore. Ora, è chiaro che non si tratta di disconoscere l'importanza essenziale di tale ruolo. Ma, sarebbe ora di chiarire anche che questa (soprav)valutazione del lettore si trasforma facilmente in un gesto di debolezza, quasi di omertà. La grande critica, infatti, si è sempre collocata piuttosto in una posizione che oggi si corre il rischio di non più distinguere lucidamente: dico, la posizione dello scrittore. Si potrebbe mostrare,-per esempio, che questa posizione genetica accomuna le prospettive (per altri rispetti così diverse tra loro) di Aristotele e Longino. E, facendoci più presso ai terreni nativi, è abbastanza chiaro che le due grandi esplorazioni che, in due ondate successive, fondano in Italia la critica letteraria moderna (quella di Ugo Foscolo, dico, e quella di Francesco De Sanctis) sono compiute da critici che si pongono in posizione genetica. (Il riferimento a De Sanctis è essenziale, per fugare un possibile equivoco: porsi nella posizione dello scrittore non è la stessa cosa che essere scrittori creativi in proprio). T ornando al terreno nordamericano (tra Canada e Stati Uniti), la critica letteraria in quest'area (ormai espansa internazionalmente) si qualifica nella scelta tra la posizione del lettore - rappresentata sopra tutto da Northrop Frye - e quella dello scrittore, il cui maggior rappresentante è il gran vecchio che è tuttora il maggior critico statunitense vivente: Kenneth Burke. La prima delle due posizioni è quella maggioritaria; ma dalla seconda è nata (nel solco di Burke) la figura più di spicco nella critica americana oggi, cioè Harold Bloom. Avere indicato per lui questa posizione di netto rilievo in tempi non sospetti (prima, cioè, della corrente moda bloomiana) mi consentirà, spero, di introdurre a questo punto almeno una notazione critica. Bloom insiste - presso che con virulenza - sulla differenza tra lui e i decostruzionisti (si veda l'antitesi dentro l'antitesi, nella sezione «Per una critica antitetica» del prossimo In forma di parole, che oppone nettamente Bloom agli altri professori yalensi). Ma vi è almeno un limite, e grave, che accomuna Bloom ai decostruzionisti: il freudismo, o sopravvalutazione filosofica di Freud. In questo Bloom è solo la punta avanzata (per la stravaganza del suo encomio di Freud) di un movimento assai più vasto, che è da tempo divenuto pesantemente ideologico. Si resta, per esempio, quasi increduli di fronte al costante intronamento di Freud in una delle riviste letterarie più acute e à la page negli Stati Uniti, New Literary History: dove, nell'ultimo numero, non si trova di meglio - per discorrere del romanzo gotico inglese - che rispolverare ancora una volta il saggio del 1919 di Freud sul «perturbante». Ma ciò che sembra «incredibile» deve essere spiegato ... Una delle motivazioni fondamentali del-l'inflazione epistemologica di Freud nelle scienze umane statunitensi è la paura (la parola non è esagerata) di Jung- il quale, per esempio, sul perturbante e sul fantastico ha scritto molto di più, e più profondamente, di Freud. Questo ci riporta a Bloom: il tono di invettiva con cui Bloom crede opportuno riferirsi ogni tanto (con frecciate marginali) a Jung non dovrebbe farci dimenticare (e invece pare che tale dimenticanza sia dominante) che la mescolanza bloomiana di psicologia, letteratura, e teologie «occulte» (la Gnosi, la Cabala) giunge sull'onda e derivazione dell'analoga mescolanza di cui Jung è stato brillante pioniere, con il suo lavoro ai confini tra psicologia, scienze umane e alchimia. Quando, per esempio, Bloom elenca (a p. 45 del suo Agon - che presto apparirà da Spirali), tra i «tre paradigmi principali sui quali la poesia tende a poggiarsi», il «trasferimento» (o «transfert») della «ambivalenza»;· quando egli indica ciò, come non avvertire la genealogia junghiana di questa mossa? (Penso in particolare a La psicologia del transfert del 1946 - di recente riproposta in una alquanto frettolosa edizione italiana). La decostruzione è stata il modo critico favorito dagli accademici che volevano ammiccare a un pensiero della distruzione, ma al tempo stesso non spingersi troppo in là. Come di solito accade, il decostruzionismo esaurendosi lascia una traccia e contributo: primariamente, appunto, quello di aver eliminato certi margini di confusione. D'ora in poi, chi vuole inneggiare alla catastrofe (sulle orme di Bloom, o altri) non troverà troppo comodamente ombrosi ripari - dovrà farsi avanti allo scoperto. E non sarà facile, perché le timorosità istituzionali sono ancora fortissime. Era più che interessante sintomatica, per esempio, al ben riuscito seminario sul «Pensare la fine», l'ansia con cui la maggior parte dei presenti (ma non Gianni Scalia e pochissimi altri) tentava di esorcizzare il dramma implicito nella scelta di un tale campo per la riflessione. L'attestarsi sulle puntualizzazioni filologiche su questo o quel testo fin de siècle (con fedeltà al sottotitolo più che al titolo del simposio) era la mossa meno discutibile. Mentre al limite della vaporante follia, erano le ripetute assicurazioni dirette a se stessi e agli altri (l'inglese parla di questi casi di «fischiettare al buio» per farsi coraggio): in fondo la fine non è veramente la fine ma un inizio; al limite, della fine non ce se ne accorge nemmeno, et similia. Tutto ciò, sia ben chiaro, non è detto da un pulpito che inneggi alla distruzione - tutt'al contrario (e in questo senso, certi bloomiani squilli di tromba cominciano a sembrare un po' troppo striduli). Mi pare invece che vi sia tutta una philosophia perennis della letteratura da recuperare. Compito grande; e bello.

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