11 problema del rapporto fra determinismo e responsabilità - quindi il problema dell'imputabilità di condotte necessitate - ha, nell'antico, due padri. Il primo, e più illustre, è naturalmente Edipo. «Ayant tué son père et épousé sa mère», Edipo - a Colono - può continuare a proclamarsi «puro di fronte alla legge», perché «non sapeva nulla» (Ed. Col. 548); perché «non ha agito, ma subìto» (267), perché di nuovo, «è giunto dove è giunto senza sapere nulla» (273). Una volontà potente e beffarda, quella del dio, ha giocato Edipo - l'esperto scioglitore di enigmi - mettendolo appunto di fronte a un enigma che il suo sapere non ha potuto risolvere. Il fato da cui Edipo è tramato ha dunque l'aspetto di una sequenza di mosse ordite a sua insaputa da una volontà avversa e personale, ancorché divina. Poiché siamo piuttosto interessati alla determinazione impersonale del fato, possiamo lasciare il vecchio eroe alla sua tenace partita, e venire al secondo padre del problema, tanto meno illustre da essere addirittura anonimo: è tempo di riconoscergli il ruolo culturale che gli spetta. Si tratta dello schiavo dello stoico Zenone, che nei momenti d'ozio non avrà certo mancato di meditare sulle lezioni del suo padrone. Racconta Diogene Laerzio: «Una volta Zenone sferzava uno schiavo che aveva rubato; avendogli costui detto: 'era destino per me rubare', Zenone aggiunse: 'anche essere percosso'» (DL 7.23). Mi piacerebbe attribuire a questa piccola scena domestica un valore epocale. Lo schiavo ha certamente compreso che in un universo rigidamente governato dal fato (e per di più da un fato provvidenziale), com'è quello stoico, nessun atto può dipendere da una scelta volontaria, non c'è quindi alcuno spazio per la responsabilità indivi. duale, e con essa per l'imputabilità e la punibilità. Per non essere da meno del suo servo, il padrone derubato deve prontamente produrre un'importante correzione concettuale alla sua concezione del fato: si tratta, niente meno, che della teoria dei confatalia, alla cui luce sono simultaneamente fatali tanto il furto che la sua punizione, evitando la sequenza responsabilità-imputabilità-punizione. La correzione è importante perché essa inaugura una visione del fato non più come serie lineare di cause e effetti (alla maniera della necessità meccanicista democritea) ma come una costellazione complessa di eventi connessi da vincoli di implicazione reciproca. Per quanto brillante, l'audacia teorica del vecchio maestro stoico non sarebbe piaciuta, qualche secolo più tardi, al più responsabile Cicerone. Maturatosi nell'esperienza dei tribunali e del senato, rri ~ questi trovava letteralmente «vi- .s ziosa» una dottrina del fato che ~ C). culminasse comunque nella non imputabilità individuale dei comportamenti. Se tutto è governato dal fato, argomentava il giudizioso senatore, «non sunt igitur (... ) actiones in nostra potestate. Ex quo efficitur ut nec laudationes iustae sint, nec vituperàtiones, nec ~ honores, nec supplicia» (De fato l 41). ~ Onori e supplizi sono troppo socialmente necessari - pensa Cicerone - perché una dottrina 'dura' del fato li possa rendere moralmente infondati, e li affidi soltanto alla giustificazione del tutto transindividuale della confatalità. Egli propone quindi di indebolire il determinismo stoico (invenzione di professori innamorati della coerenza teorica ma, socialmente, alquanto irresponsabili): assegna al governo del •fato solo il sistema delle condizioni esterne del comdualità, da cui si originano le hormai o tendenze personali; da queste dipende a sua volta la nostra reazione a quelle rappresentazioni e dunque il nostro comportamento. L'incontro tra queste due serie non è meno fatale di qualsiasi altro evento, ma risulta così individuale e identificabile. Aulo Gellio (ap. SVF 2. 1000) riassumeva così la teoria di Crisippo: «Benché sia vero che tutte le cose sono insieme strette e colleall'enigma dell'imputabilità, che la scinde nettamente dalla responsabilità: non sono responsabile dell'esser cilindro piuttosto che cono, ladro invece che onesto. Tuttavia io sono identificabile come cilindro o ladro, riconoscibile, quindi imputabile e punibile nell'individualità della mia condotta. Non saprei dire se la soluzione di Crisippo per legittimare la punizione dello schiavo di Zenone fosse geniale o soltanto ingegnosa; mi t p o •- •----~,.,;-., ,,._..,.,__,, ...,,.--~.~-~---·. ,·. A ._ 'C'." ·._.._,,_. "'=•f ~<·-~.·._• .. ~--t· /.i. / .,J' ':j/' .:ffr\. _.._ ;: .. ~,. ~--/~·/ :,: /' '. _.:- -_.-.· _,r . j·· • • ~.r~". ij /· / • r .,./ ·-_ t /_/< :.:,/ .. J . ·' .';--·}'.,.· 'i ' ~ ~ i r .i t1 .i ; ç ; • I -..• ,,. .~} portamento, ma considera libera («in nostra potestate») la risposta a queste condizioni, in modo da ripristinare lo spazio per la responsabilità e l'imputabilità della condotta. Cicerone non sembra rendersi conto che si apre in questo modo la via a una pluralità indefinita di storie possibili del mondo, che si torna a rendere precario e infondato lo stato attuale del mondo, nonché quello passato e futuro: precisamente l'incubo che la teoria stoica del fato provvidenziale aveva voluto far svanire con il bagliore solare di una legittimazione •universale e necessaria di ogni singolo evento. 11più geniale degli allievi di Zenone, Crisippo, non aveva risparmiato né sforzi intellettuali né rotoli di papiro per venire a capo del problema posto dallo schiavo infedele del suo maestro, in modo più articolato e soddisfacente di quanto non lo consentisse la teoria dei confatalia. Per quanto ha a che fare con la condotta umana, Crisippo sdoppiava fa catena causale in due serie: da un lato, gli eventi esterni, che panno luogo alle nostre rappresentazioni dello stato del mondo; dall'altro i processi (altrettanto fatali) di formazione dell'indivigate secondo un modo principale di necessità, gli ingegni e le menti degli uomini sono tuttavia soggetti al fato in conformità delle proprietà loro e delle loro qualità». Crisippo illustrava la sua tesi con un esempio che Aulo Gellio ha la bontà di considerare «davvero non troppo inadatto, né privo di spirito»; l'esempio, in forma più completa, è del resto citato già da Cicerone. Se si imprime una spinta a un cilindro, esso rotola; la stessa forza applicata a una trottola conica la fa piroettare; senza impulso esterno non ci sarebbe alcun moto dei due corpi, ma il motto del movimento dipende solo dalla loro struttura interna. In questo senso, la causa di quel particolare movimento sta - diceva Crisippo - «presso di loro»; ma non è, ciceronianamente, «in loro potestà», perché la loro stessa struttura è l'esito di una catena di causazione fatale. L'esser nato in un certo luogo, con un certo -corpo, con un certo allevamento e una certa educazione, in una-certa s0cietà, determina la disposizione interna altrettanto fatalmente quant'o sono determinate le circostanze esterne alle quali la condotta reagisce. Nondimeno, questa risposta è individuale e per così dire riconoscibile. Di qui· nàsce la risposta di Crisippo -::~ • pare comunque il meglio che si possa escogitare se si vuole tener ferma la dottrina della determinazione fatale della condotta senza far intervenire, almeno in modo esplicito, il punto di vista sociale. Q uesto sarebbe toccato, cinque secoli più tardi, a Galeno, che era greco e sottile come i professori della Stoa, ma viveva a Roma ed era socialmente responsabile come Cicerone. Era, per giunta, un medico, e quindi professionalmente interessato non al determinismo fatale ma a quello organico, biologico, della condotta. La sua opera dove si argomenta Che i costumi del/'anima seguono i temperamenti del corpo è il più rigoroso sforzo antico di riduzione organicistica del comportamento. Con una serie di passi analitici che qui è inutile ricostruire, Galeno sosteneva che le funzioni psichiche dalle quali dipende il comportamento sono connesse in modo indissolubile alla struttura materiale degli organi somatici, in primo luogo del. cervello. Il funzionamento di questi organi dipende a sua volta dal «temperamento» o krasis: cioè dalla 'formula' secondo la quale in essi sono combinati gli elementi. e la qualità primarie (terra/secco, acqua/umido, aria/freddo, fuoco/caldo). Questa 'formula' può riuscire squilibrata o in seguito a una cattiva riuscita della «formazione primaria» (embriologica), o, successivamente, per l'influsso di elementi esterni (dieta, ambiente, regime di vita). Da questa riduzione, Galeno ricavava un primo e indubbio vantaggio: quello di assegnare al medico (e non più al filosofo o al magistrato) la diagnosi e la terapia dei comportamenti anche moralmente o intellettualmente devianti, perché dietro la malvagità e la stupidità andava in ogni caso riconosciuta una malattia, una disfunzione temperamentale. «Finalmente coloro che non accettano che il cibo abbia la capacità di rendere gli uni più temperati, gli altri più intemperanti, alcuni più padroni di sé, altri meno, e coraggiosi o vili, miti o amanti di controversie e di liti, si rinsaviscano e vengano da me ad apprendere che cosa debbano mangiare e bere. Riceveranno un gran giovamento per la filosofia morale e oltre a questa, divenuti più intelligenti e dotati di miglior memoria, faranno progredire la loro virtù con le facoltà dell'anima razionale. Oltre ai vari tipi di nutrimento e alle bevande insegnerò loro anche i venti, i temperamenti dell'ambiente e ancora le regioni, quali conviene scegliere e quali evitare» (quod animi 9, K 4.808). Se sono indubbi i titoli di merito che con questo manifesto Galeno acquisiva nella fondazione di una psichiatria organicista, a noi interessa più da vicino la sua risposta al problema dell'imputabilità. Anche se non il fato, bensì una discrasia del cervello costringe al furto lo schiavo di Zenone, con quale diritto frustarlo? O, nelle parole di_Galeno, «in che modo si può approvare, biasimare, odiare, amare una persona che è cattiva o buona non di per sé, ma per il temperamento, che chiaramente le deriva da altre cause?». È il caso di riferire per esteso la risposta: «Perché, risponderemo, è in noi tutti desiderare il bene, ricercarlo ed amarlo, allontanare, odiare e fuggire il male, senza avere ancora considerato se esso è generato o meno dall'esterno. Per lo meno, sopprimiamo gli scorpioni, le tarantole e le vipere che sono malvagi per natura e non per pro-· pria scelta. Logicamente perciò odiamo gli uomini malvagi, senza considerare il motivo che li rende tali ( ... ) e uccidiamo quelli irrimediabilmente malvagi per tre buone ragioni: affinché non facciano del male, da vivi; perché incutano ai loro simili il timore che saranno puniti per il male che faranno; e, in terzo luogo, è per loro meglio • morire, essendo così corrotti nell'anima da non poter venire educati dalle Muse stesse né migliorati da Socrate o da Pitagora» (quod animi 11, K 4.815-6). La medicalizzazione della devianza comportamentale porta inevitabilmente a questo esito: se la diagnosi è di male inguaribile, il malato passa dal medico alle cure del carnefice. Mettendo fuori gioco la questione della responsabilità morale. individuale della condotta deviante, Galeno accentuava per contro jn modo esplicito il criterio sociale della punibilità. Quei «tutti» che amano il bene e odiano il male sono i buoni cittadi-
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