Alfabeta - anno VII - n. 77 - ottobre 1985

. Da <<lastelladellaredenzione> Franz Rosenzweig Pubblichiamo un brano tratto da La stella della redenzione, l'opera maggiore di Franz Rosenzweig (sulla cui figura Alfabeta è intervenuta in più occasioni). Il volume, nella traduzione di Gianfranco Bono/a, è di imminente pubblicazione presso la Casa editrice Marietti, che ringraziamo per averci concesso questa anticipazione. Consapevole di stare gettando, con La stella della redenzione, «il guanto di sfida a tutta la venerabile comunità dei filosofi dalla Ionia fino a Jena», Franz Rosenzweig non solo ha elaborato un'opera fortemente strutturata in senso sistematico, i cui numerosi temi s'intersecano ripetutamente e si richiamano per tutta l'estensione del testo, ma ha prodotto anche forme differenti, alternate e intrecciate, di scrittura. In una lettera al candidato per una futura traduzione in ebraico (l'unica traduzione che l'autore desiderò e promosse) individuava lui stesso «almeno quattro stili, e cioè: 1) quello conferenzistico delle tre introduzioni, 2) quello scientifico del primo volume, 3) quello (cum grano salis) lirico del secondo volume, e 4) quello monumentale del terzo volume». Ma subito aggiungeva: «Naturalmente così sono indicate soltanto le tonalità fondamentali o, più esattamente, i toni delle singole parti; in ogni parte però si trovano parzialmente anche i toni delle altre ed altri ancora» (a Joseph Rivlin, 24 ottobre 1926). «estratto» e «raffigurare» l'intero è quindi piuttosto disperante. Si è preferito optare per un passo centrale ma atipico.· Il centro dell'opera è costituito, non solo per ragioni di simmetria, dal Libro secondo della seconda parte, dal titolo Rivelazione o la nascita incessantemente rinnovata dell'anima. In tale seconda parte (e solo qui) ciascun libro termina con una analisi (che Rosenzweig chiama grammaticale, per sottolineare l'importanza attribuita alle concrete forme verbali presenti nei testi) di un passo biblico. bellezza poetica indiscussa del Cantico - di cui vengono ristabilite le tradizionali letture «mistiche» sulla scorta dei dati dell'esegesi scientifica moderna (gesto che Rosenzweig compie spesso) - ma perché singoli frammenti del testo biblico ora affrontato in recto sono già affiorate qua e là per citazione, allusione, analogia, e hanno sorretto e suggerito il corso della riflessione lungo l'intero libro dedicato alla rivelazione. della redenzione il movimento di tutto il pensiero umano, che la filosofia ha preteso di assumere in sé e di placare a buon mercato, era fatto risalire nella sua prima radice allo sgomento che coglie l'uomo di fronte alla morte. «Dalla morte, dal timore della morte prende inizio e si eleva ogni conoscenza circa il Tutto» è la prima, apodittica affermazione della Stella della redenzione. Ed è ancora la morte, esito di tutto il creato, sigillo posto su ogni creatura, che dichiara insufficiente e vano «il vacuo sorriso della filosofia». Enucleare una parte che possa dignitosamente delimitarsi come Nella Stella della redenzione la forma letteraria di questa peculiare esegesi biblica è quindi rara e eccezionale. Importanza centrale hanno invece i testi su cui viene esercitata, qui l'intero Cantico dei Cantici. E questo non tanto per la In forza di questa rinsaldata interpretazione «mistica», per Rosenzweig il Cantico assurge a testo biblico esemplare della rivelazione, di quella rivelazione che, nel suo momento originario, è amore di Dio per l'anima del singolo uomo. Ma questo testo è investito di una centralità anche maggiore. Nelle prime pagine della Stella A quella prima questione si profila ora la risposta. In evidente ri- . presa di quel passo fondamentale, la prima affermazione del libro dedicato alla rivelazione è invece la citazione centrale dal Cantico: forte come la morte è ·amore. N oi avevamo conosciuto la rivelazione come quel divenir-adulto del muto 'sé' che, per azione dell'amore di Dio, diventa anima e parla. Se il linguaggio è più che un'analogia, se è veramente metafora (e quindi è più che metafora), allora ciò che nel nostro io percepiamo come parola viva e ciò che, dal nostro 'tu', vivo risuona a noi di rimando, deve «star scritto» anche nella grande testimonianza storica della rivelazione, di cui abbiamo riconosciuto la necessità proprio a partire dall'attualità della nostra viva esperienza. Ancora una volta noi cerchiamo la parola dell'uomo nella parola di Dio. La metafora dell'amore atiraversa, come metafora, l'intera rivelazione. Presso i profeti è la metafora sempre ri.- corrente. Ma dev'essere ben più che una metafora. E lo è solo quando compare senza un «ciò significa», quindi senza un rinvio a ciò di cui dev'essere metafora. Non è sufficiente, dunque, che il rapporto di Dio con l'uomo venga raffigurato con la metafora del rapporto tra l'amante e l'amata; nella parola di Dio dev'esserci immediatamente il rapporto dell'amante con l'amata, cioè il significante senz'alcun rimando al significato. E così lo troviamo nel Cantico dei Cantici. In questa metafora non è più possibile vedere «soltanto una metafora». Qui il lettore è posto, a quanto pare, di fronte ali'alternativa tra l'accogliere il senso «puramente umano», puramente sensuale (e certo allora finirà col chiedersi per quale bizzarro errore queste pagine siano finite in mezzo alla parola di Dio) e il riconoscere che qui proprio in questo senso puramente sensibile, direttamente e non «solo» metaforicamente, ·si cela il significato più profondo. Fino alle soglie del XIX secolo si è percorsa unanimemente la seconda via. Il Cantico dei Cantici era riconosciuto come cantico d'amore e proprio in questo, al tempo stesso, lo si riconosceva immediatamente come poema «mistico». Si sapeva, appunto, che l"io' e il 'tu' del linguaggio intraumano sono senz'altro anche l"io'e il 'tu' tra Dio e l'uomo. Si sapeva che nel linguaggio la·differenza tra «immanenza» e «trascendenza» si dilegua. Non benché, ma proprio perché il Cantico dei Cantici era un canto d'amore «autentico», vale a dire «profano», proprio per questo era un autentico canto «spirituale» dell'amore di Dio per l'uomo. L'uomo ama poiché Dio ama e così come Dio ama. La sua anima umana è l'anima destata e amata da Dio. Era riservato al passaggio dal XVIII al XIX secolo il compito di sconvolgere e di intorbidare questa visione emotivamente chiara, perché radicata nella rivelazione, del rapporto tra l'umano e il divino, tra profano e spirituale, tra anima e rivelazione. Quando Herder e Goethe presero a considerare il Cantico dei Cantici come una raccolta di canti d'amore «profani», con la designazione «profani» s'intendeva esprimere nulla più e nulla meno se non che Dio non ama. E questa era davvero la loro opinione. L'uomo poteva magari «amare» Dio come il simbolo della perfezione, ma mai e poi mai aveva il diritto di pretendere che Dio a sua volta lo «ri»-amasse in risposta. La negazione spinoziana dell'amore di Dio per la singola anima fu ben accolta presso gli spinozisti tedeschi; se proprio doveva amare, Dio poteva al più essere il « Padre che tutto ama»; venne n""egatol'autentico rapporto d'amore di Dio per la singola anima e così si fece del Cantico dei Cantici un canto d'amore «puramente umano». Poiché l'amore autentico, che appunto non è amore universale ( Alliebe), c'è soltanto tra esseri umani. Dio aveva così cessato di parlare la lingua degli uomini; si trasferiva nuovamente nel suo nascondimento neopagano-spinoziano, oltre la volta celeste degli «attributi» coperta dalle nubi dei «modi». Ciò che davvero significava questo dichiarare il linguaggio dell'anima un linguaggio «puramente umano», divenne chiaro soltanto col processo del tempo. Herder e Goethe avevano ancora involontariamente conservato così tanto della concezione tramandata da considerare il Cantico dei Cantici solo come una raccolta di canti d'amore, lasciandogli dunque tutto il suo carattere soggettivo, lirico, di rivelazione dell'anima. Ma dopo di loro ci si spinse ben oltre sulla stessa strada. Ora che il Cantico dei Cantici si doveva intendere in modo «puramente umano», si poteva fare anche il passo che va dal «puramente umano» al «puGianfranco Bono/a ramente profano». Il Cantico venne dunque spogliato, quanto più si poté, delle sue valenze liriche. In tutte le sue pagine si cercò di vedere a ogni costo azione drammatica e contenuto epico; l'oscurità che gli era peculiare, dovuta al fatto che oltre al pastore interveniva evidentemente anche un secondo amante, il «re», pareva addirittura esigere tali interpretazioni e offrire loro libero campo. Così il secolo XIX ne è pieno, benché per altro nessuna interpretazione sia simile all'altra; per nessun altro libro della Bibbia la critica testuale ha proposto riordinamenti così ampi, veri e propri sconvolgimenti del testo tramandato. Obiettivo era sempre la trasformazione dell'elemento lirico, l"io' e il 'tu' della poesia, nella perspicuità epica dell"egli' e dell"essa'. Il linguaggio della rivelazione alt'anima aveva qualcosa d'inquietante per lo spirito di questo secolo, che rifaceva tutto a propria immagine, riducendolo a qualcosa di obiettivo, di profano. La negazione della parola di Dio, inizialmente avvenuta ancora nella gioia esuberante per la parola dell'uomo ora divenuta «pura», si vendicò ben presto sulla parola dell'uomo, la quale, una volta separata dal suo immediato, vivo, fiducioso essere una cosa sola con quella, si irrigidì nella morta obiettività della terza persona. Ma, a questo punto, dalla scienza venne anche il contraccolpo. La disperata arbitrarietà e l'avventurismo criticotestuale di tutte le interpretazioni nel senso dell'obiettività del Singspiel misero gli spiriti dotti in condizione di accogliere una nuova prospettiva. La crux vera e propria di questi interpreti er(l l'enigmatico rapporto del pastore con il re e della Sulamita con entrambi. Costei era fedele? o infedele? a uno dei due? o ad entrambi? e così via nell'infinito delle combinazioni in cui la sagacia dell'erotismo dotto è sempre usa eccellere. La soluzione semplice, cara alla concezione «mistica» del passato, secondo la quale il pastore e il re erano la stessa persona, cioè Dio, naturalmente era stata superata da molto tempo. Ma tutt'a un tratto si scoprì che presso i contadini della Siria ancora oggi il matrimonio si festeggia sotto il velo metaforico di un matrimonio regale, e lo sposo viene celebrato come il re e la ":1C"'l c:::s i:: -~ E::)., ~ °' -. ~ -e ~ è5 l'-.... l'-.... t: ~ ~ -e g ~------------------------------------------------------------------------- ... <:::

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