Alfabeta - anno VII - n. 77 - ottobre 1985

Jabèsl,ascritt.ureal'esilio... Edmond Jabès Le parcours Paris; Gallimard, 1985 pp. 106, ff 65 1.1 pensiero metafisico comincia• col porre la questione dell'origine. Ha sempre cominciato da lì: da un'origine che esso stesso pone, come Eidos,. ma çhe non ammette di aver posto, nel mentre ritiene che il mondo. ne sia una conseguenza, un mero effetto,. Questo svelarsi della presenza come effetto chiama in causa la causa (aition) in un luogo separato responsabile, non co-responsabile della presenza. Anche la teologia cristiana nasce da qui: dall'oggettivazione di Dio e della Legge. Essa ha in comune con la metafisica la fondazione del concetto di limite, che - ponendosi come inizio - crea l'illusione che la libertà sia trasgressione. Tutto il pensiero occidentale ruota attorno all'idea che il Bene e il Male siano i due volti complementari di uno stesso limite, di una stessa Legge. Di fronte alla sua porta l'uomo - come il contadino di Kafka - sta in attesa per poterla valicare: ma l'invalicabilità della soglia trasforma questa attesa in ribellione. Chi si ribella è bandito dal consorzio civile: ma non è proprio la sua ribellione, il suo oltrepassamento del limite, a presentarsi come eccezione che conferma la Regola? Non è proprio la trasgressione del linguaggio che ne determina il fondamento? L'oltrepassamento è infatti sempre una risposta che vanifica la profondità tragica della domanda, e la sua essenziale solitudine; esso comporta la separazione della causa dal!'effetto, della risposta dall'interrogazione; l'affermazione dell'invisibile (eidos) sul visibile; il rifiuto dell'orizzonte mondano come unico orizzonte che sia dato all'uomo per vivere. All'opposto: mantenere l'interrogazione nella sua essenza irrinunciabile di domanda, in modo che la risposta conservi sempre la sua radice interrogante: ecco il compito, ecco la sovversione dell'esistenza ebraica della quale, sempre, la scrittura di Jabès racconta. Anche in quest'ultimo libro: Le parcours (Il percorso). Qual è il percorso? È forse il cammino rassicurante che ci conduce dall'inautentico all'autentico, dal «Si» della chiacchiera alla riappropriazione dell'essere inteso come essenza, alla tensione dell'attesa? Niente di tutto questo. La verità, disancorata da ogni fondamento originario, non è che «l'histoire d'une vie». Perenne rappresentazione, essa si racconta: «Si Dieu a fondé le monde sur le Livre (le Sien), le livre (celui de l'homme) et le Récit - de quel récit s'agit-il? Celui de Dieu ou celui de l'homme? Celui de l'un et de l'autre? Contrairement à ce que l'on a coutume de penser, la fiction n'est pas, a priori, mensonge. Pour le juif, la verité est dans le récit; elle est meme le récit. On ne raconte que sa vérité parce que la vérité est notre histoire» (Se Dio ha fondato il mondo sul Libro (il Suo), sul libro (quello dell'uomo) e sul Racconto - di quale racconto si tratta? Quello di Dio o quello dell'uomo? Quello dell'uno e dell'altro? Contrariamente a quanto si è abituati a pensare, la finzione non è, a priori, menzogna. Per l'ebreo, la . ,verità è nel racconto; essa è il racconto stesso. Non si racconta che la propria verità perché la verità è • la nostra storia). Per que~to l'essere ebreo diviene la metafora dell'esserci in generale, in un'epoca, come quella at- . tuale, in cui lo svanire della Certezza, della Causa primitiva, collocata al principio della storia, questo svanire rinvigorisce - paradossalmente - ogni certezza, quella dell'esserci, qui e ora, della creatura mortale: «D'un abime à l'autre, notre parcours demeure celui du livre; d'une mort sans certitude à une mort certaine» (Da un abisso all'altro, il nostro percorso resta quello del libro; da una morte senza certezza a una morte certa). Lf origine, sottratta così a qualsiasi tentazione sostanzialistica, si pone «au bout», alla fine del processo, perché la de-cisione (intesa come distacco) consiste nell'infinità del de-cidersi, non essendo l'erranza che infinita ripetizion<=d! el distacco iniziale. Abramo, distaccandosi da Sumer, indica che il percorso è l'essenza dell'ebraismo: e Dio, da parte sua, mostra che l'origine non è nient'affatto il cominciamento. Lo «spaesamento» dell'uomo si rivela così lo specchio dello «spaesamento» di Dio: «Dieu à Sumer, en se dissimulant dans la lettre, a soulevé une partie de son voile» (Dio a Sumer, dissimulandosi nella lettera, ha sollevato una parte -del suo velo). Ma questo svelamento parziale che Dio attua, dissimulandosi nella scrittura, nel Libro, e «denunciando» quindi l'origine, comporta la rinuncia al nome, che - d'ora in poi - presentandosi come immagine, affioramento della parola nella pagina bianca, rinvia a una sostanza ignot~, sempre differita, sempre cercata: all'interrogazione come destino. Immagine di un'immagine. Questa «origine» non è, perciò, che un passaggio, il quale si costituisce come «non-luogo» per eccellenza. È stato certo Maurice Blanchot a cogliere per primo il senso profondo che l'esperienza ebraica ha assunto per il mondo moderno: «l'Abramo dell'Ebraismo ci invita non solo a passare da una via all'altra, ma a dirigerci dovunque ci sia un passaggio da compiere, mantenendo quello stato intermedio tra le due rive che è la verità del passaggio» (M. Blanchot, Essere ebrei, in L'infinito intrattenimento, trad. di R. Ferrara, Torino, Einaudi, 1977, p. 169). Ed è proprio questo non-luogo che, nella sua latitanza, garantisce la fertilità: la vita come manque e come sofferenza perenne, alla ricerca dell'Altro, che ne diviene la dolorosa ferita: «Au milieu du désert - Qui le situerait? -, / un trait imaginaire, une froµtiére. / A ce fleuve, l'esprit doit sa fertilité. / La solitude de la pensée est celle du sillon: une meme blessure» (In mez,zoal deserto - Chi lo potrebbe individuare?-,/ un tratto immaginario, una. frontiera. / A questo fiume, lo spirito deve la sua fertilità. / La solitudine del pensiero è quella del solco: una stessa ferita). Il percorso si definisce, così, per via negativa: come· la strada che non c'è di fronte a noi, ma che noi, nel tempo, nel frattempo, percorriamo. Sempre lontani e sempre vicini rispetto alla meta, il nostro corpo, ferita nella ferita («Non c'è ferita che non sia stata ferita»: con queste parole Jabès aveva chiuso il Libro della sovversione non sospétta), porta le tracce della scrittura, allo stesso modo in cui, nel racconto di Kafka Nella colonia penale, l'iscrizione viene incisa dagli aghi dell'erpice nel corpo del condannato. Per questo l'ebreo, già col solo fatto di essere creatura, traccia un percorso: scrive e riscrive eternamente il libro dal quale egli stesso è scritto. Il libro rappresenta la sua certezza, ma, a un tempo, l'incertezza del carrimino con il quale la sua vita si identifica: «Ces pages . de réflexions, d'opiniatres interrogations - réfléchir, questionner n'étant, peut-etre, que donner en pature à la pensée, un reflet - ne ~ _.,. dn't'..'w-' ••: ".·~~·, -J:. ' . ' ~,. ... ,~ .. , . ,~, :.,'I✓ sont que feuillets retenus d'un livre en suspens dans le livre meme, où la certitude a, pour adversaire, la certitude; où, démunis, juif et écriv'àin, dans leur commune soumission au texte, s'y risquent, à la recherche de leur verité» (Queste pagine di riflessioni, di ostinate interrogazioni - poiché riflettere, interrogare non è, forse, che dare in pasto al pensiero un riflesso - sono solo foglietti di un libro sul libro stesso, in cui la certezza ha, per avversaria, la certezza; in cui, disarmati, ebreo e scrittore, nella loro comune sottomissione al testo, si arrischiano, alla ricerca della loro verità). Con questa differenza, rispetto a Kafka (come ha acutamente mostrato Massimo Cacciari nell'ulmo suo Icone della Legge, Milano, Adelphi, 1985): che mentre lì il soggetto rimane assu'rdamente avvinto alla sua. pretesa dj ide~tità, accogliendo il verdetto come inesplicabile e ingiusta condanna, enigmatica logica di un «Si» inaccettabile, cui egli risponde con un'ostinata protesta (cfr. la frase che chiude La condanna: «Cari genitori, eppure io vi ho sempre amati»); qui, nel Percorso di Jabès, tutto viene accolto nell'abbandono di ogni resistenza (démua nis), tale da richiamarci, nell'at-. tualità stessa del linguaggio poetico, il Gelassenheit (abbandono) di Heidegger. Accettazione dell'inafferrabilità dell'Io, che porta alla formulazione della domanda a livello della sua essenza pura. Perciò, mentre in Kafka lo straniero è vissuto corrie estraneità irriducibile dell'Io, perché è colui che viene, nella sua «indifferenza», a distruggere ogni «differenza», così come in G. Trakl «un bianco straniero entra in casa» a segnare il sentimento angoscioso . della «caducità» aperta su un futuro popolato di Angstgespenster (spettri di paura), in Jabès, al contrario, l'étranger è presente nell'Io stesso, quando esso vuol essere veramente Io: «Si 'Je' est vraiment 'Je', son emploi ne pourrait etre revendiqué que par un etranger» (Se 'Io' è veramente 'Io', il suo impiego non potrebbe essere rivendicato che da uno straniero). L o straniero è colui che deve . essere accolto nella notte dell'Io, come colui che definisce il vuoto del proprio nome, in una lotta incessante: che è quella di Giacobbe, ma anche quella di Israele, la cui solitudine nasce «dal particolare rapporto con se stessa, dall'aver posto nelle sue vicinanze la lontananza estrema, l'infinita distanza, la presenza estranea» (Blanchot, p. 169). Solo accogliendo l'estraneo come differente, mantenendolo nel-- la sua intrinseca e irripetibile differenza, si può uscire dalla logica del com-prehendere, che ha contraddistinto il sapere in Occidente come logica dell'afferramento e della distruzione dell'Altro. In questo si distingue la parola del Percorso dalle vuote chiacchiere della metafisica. Per l'umanesimo ebraico, «parlare a qualcuno significa accettare di non introdùrlo nel sistema delle cose da sapere o degli esseri da conoscere, anzi riconoscerlo come ignoto e accoglierlo come estraneo senza costringerlo a intaccare la sua differenza» (Blanchot, p. 172). L'«Io è un altro» di Rimbaud, che nella trasgressione linguistica manteneva l'eco di una protesta, e quindi la rivendicazione «politica» di un'autenticità espropriata, diviene in Jabès sprofondamento nella dissoluzione dell'identità: impossibilità di perdersi proprio nell'accettazione della propria perdita, perché se l'Io non è mai stato radicato in un luogo circoscritto (non è mai stato soggetto), niente può essere perduto; al contrario, è la perdita stessa che viene recuperata come la dimensione più propria dell'esistenza: «Perdre •terre: se perdre. Sans pays, à nulle époque, le juif ne s'est perdu. Il a récupéré sa perte, en s'y enlisant, en s'y lisant» (Perdere terra: perdersi. Senza patria, in nessuna epoca, l'ebreo si è mai perduto. Egli ha recuperato la propria perdita, sprofondandosi in essa, leggendosi in essa). , Accettazione del legame, accettazione del Percorso. Come nel Livre des questions, e - forse più - nel Petit livre de la subversion sans soupçon e nel Récit, anche in quest'ultimo volume Jabès trasferisce la sua vision~ del mondo in un'opzione di stile. il racconto è anche questo: interrogare il segreto inattingibile riposto nella scrittura, la quale si manifesta come figura· metaforica dell'esistenza ebraica. Il vocabolo viene assunto nella sua verticalità, grondante di una storia millenaria .rivelantesi nell'errore che tradisce l'errare, nella lettera che si sottrae, contro la volontà dello scrittore, all'universo convenzionale della comunicazione linguistica, per aprire uno spazio di impensate. analogie .sulle quali il poeta si interroga. In questo, la scrittura è dotata, come l'umanesimo ebraico, di una sua intrinseca differenza. Come tradurre, ad esempio, l'osmosi tra vita e forma immanente •nel gioco verbelv'herbe? Gesto casuale e erroneo, che tradisce una verità in-traducibile: «Au commencement était la vie, puis la vie se fit verbe. Il m'est arrivé, une fois, d'écrire ce mot: v'herbe. Le brin d'herbe est premier indice, timide annonce du surgissement prochain de la Parole divine; sa prévisible - naturelle - conséquence: la précaire chance d'une écriture avant l'écrit» (All'inizio era la vita, poi la vita si fece verbo. Mi è capitato, una volta, di scrivere questa parola: v'herbe. Il filo d'erba è primo indizio, timido annunzio della prossima insorgenza della Parola divina; la sua prevedibile - naturale - conseguenza: la precaria possibilità di una scrittura precedente lo scritto). In questo Metodo le parole (mot, vocable, lettre) si distinguono per il grido originario, dissolventesi nella voce (mot), per il loro significato «archeologico» ( vocable), e per l'enigmatico segreto vivente in esse (lettre). Lo scrittore, operando in un orizzonte linguistico negativo (come direbbe R. Barthes), rivela la profondità mitica dell'io narrante, il quale, scoprendo nella scrittura le tracce cancellate di una storicità assoluta, viene scritto dall'oblio stesso della scrittura: «L'oubli m'écrit avec son oubli». Forse pochi poeti incarnano, con maggiore consapevolezza a livello di scrittura, questa drammatica dinamica che congiunge - e insieme separa - il corpo dello scrittore, il suo stile, con l'orizzonte della lingua alla quale egli fa riferimento, mettendo a nudo quello che Roland Barthes aveva individuato come irrisolubile paradosso: «Lo stile è quindi sempre un segreto; ma il versante silenzioso del suo riferimento non dipende dalla natura mobile e continuamente differibile del linguaggio; il suo segreto è un ricordo racchiuso nel corpo dello scrittore» (R. Bar- ~ . thes, Il grado zero della scrittura, (:3 .s Torino, Einaudi, 1982, p. 11). .ci.o Nel mormorio della scrittura si g_ palesa dunque quell'accettazione ~ °' della propria erranza che, lascian- ....., do la metafisica al suo destino, tra- ~ ..C) <lisceun percorso di pensiero che g si perde. Sul punto di perdersi, la 0 I'-.. lettera, sottraendosi, segue il suo "' corso. Come ci ricorda Blanchot, s:: «c'est cela aussi que nous rappelle ~ le murmure dégradant: ça suit son l wu~». ~

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