Cfr. Schede socialismo e sui rapporti tra dittatura del proletariato e socialdemocrazia. Incerto tra indagine storica e modellistica sociologica da applicare al socialismo reale, Parkin spreca qui qualcuna delle carte di critica del marxismo che aveva accumulato in precedenza. Queste pagine sollecitano del resto un'osservazione più disarmata che maliziosa: perché l'edizione italiana non riproduce fedelmente il titolo Marxism and Class Theory. A Bourgeois Critique, tanto più che nella prefazione si accenna alle valenze di questo titolo? Sarà diventato anche disdicevole, oggi, aderire al marxismo. Ma è già così poco chic e commercialmente così poco remunerativo occuparsene? Frank Parkin Classi sociali e Stato. Un'analisi neo-weberiana trad. di P. Trivellato Bologna, Zanichelli, 1985 Il Welfare in Italia Luca Paolazzi Un rizzarsi di peli, accompagnato da un digrignare rabbioso di denti e seguito da un'eruzione di improperi contro ruberie e malcostume politico, sarebbe una reazione ferina e un po' eccessiva, ma non del tutto ingiustificata, di chi si sentisse proporre come argomento di lettura il tema Il Welfare State in Italia di Maurizio Ferrera (Il Mulino, 1984). Al di là dello scherzo, dinanzi a tale questione due vie d'uscita sono ormai dominanti nell'opinione pubblica: l'eliminazione dello «Stato di benessere», e con esso dell'apparato burocratico in cui sgùazzano i protagonisti dei ben noti scandali e sprechi; oppure un arrendersi, un impotente gettare la spugna di fronte a un problema così spinoso. La ricerca di Ferrera (facilmente leggibile anche dai non addetti, benché condotta con rigore analitico) ci fa capire che in realtà quelle sono delle non-soluzioni. La seconda perché consente alla «grande coalizione» di beneficiari e contribuenti-evasori di continuare a premere sulla classe politica affinché il deficit mutuo-previdenziale venga finanziato attraverso indebitamento. La prima perché, come è efficacemente descritto nel primo capitolo del libro, l'intervento dello Stato in campo sociale non è un belletto della società opulenta, ma una necessità provocata dall'avvento dei sistemi di produzione industriali, che hanno mutato i rapporti sociali e sfaldato la rete di solidarietà preesistente. Il processo storico che ha condotto alle attuali forme pervasive di intervento dello Stato ha inizio alla fine dell'Ottocento e si sviluppa attraverso precise tappe, sia dal punto di vista dell'estensione della cittadinanza sociale (dall'assicurazione dei lavoratori fino alla sicurezza per tutti i residenti), sia da quello della copertura dei rischi (dall'invalidità provocata dagli infortuni sul lavoro ai sussidi di disoccupazione). Questo processo ha interessato, per limitarsi al campo di indagine del Ferrera, tutte le nazioni europee, seguendo strade parzialmente diverse da nazione a nazione e classificabili in due modelli: quello anglo-scandinavo (o universalistico-egualitario) e quello continentale (o particolaristico-meritocratico). In quest'ultimo rientra anche il sistema di ·stato sociale italiano e i livelli di spesa e occupazionali raggiunti dalla nostra pubblica amministrazione non appaiono anomali, se correttamente comparati a quelli delle altre nazioni. Anche la crisi del Welfare State è un fatto europeo, ma la situazione italiana è aggravata da due elementi assolutamente nostrani: l'ampio ricorso all'indebitamento per finanziare il «buco» mutuo-previdenziale e la penetrazione politico-partitica delle strutture amministrative (momento indispensabile alla «strutturazione clientelare del mercato politico» italiano). Nel capitolo conclusivo Ferrera fornisce alcuni spunti interessanti per una riforma dei correnti modelli di Stato assistenziale, spunti dedotti dalle più evidenti carenze suoi mille modi, nelle forme stravaganti che nel manierismo tengono ad additarla, a travestirla forse, sicché possa apparire un estremo modo di addomesticarla attraverso la follia. La stranezza e l'artefazione indicano da una parte che la natura non è naturale, e dall'altra che gli umani non sono concepibili, che tutto avviene in un teatro che per primo deride la propria unità, frantumandosi in un gioco di molteplicità e di reversibilità. Nella messinscena asociale della società di Watteau, nel recupero irrecuperabile, fuori da ogni feticismo antiquariale della Transavanguardia, Bonito Oliva indica la dolcezza del furto, e della storia che si lascia derubare - una storia che non è più una dura lex, né un incubo come diceva Joyce, quanto piuttosto una nebulosa, compiacente, ammiccante, allumeuse, civetta, e STEFANO Di\RRIGO MONDADORI e che mirano a un sistema di intervento più equo ma anche più limitato, in modo da lasciar spazio ai nuovi bisogni emergenti (dirÙto all'informazione e alla riqualificazione professionale, sicurezza e protezione ambientali). Non gli sfugge che in Italia «l'edificazione del nuovo Welfare State ha come prerequisito fondamentale la correzione dei due difetti politico-strutturali (cui si è sopra accennato) dell'attuale sistema», attraverso <~unadistribuzione dei diritti sociali e dei doveri fiscali più equilibrata e trasparente». La solidità d'impianto della ricerca e la ricchezza di dati esaminati fanno di queste affermazioni non una formula vuota ma una valida base di dibattito. Maurizio Ferrera Il Welfare State in Italia. Sviluppo e crisi in prospettiva comparata Bologna, Il Mulino, 1984 Maniere di Bonito Oliva Umberto Silva Con Minori Maniere, scritti che spaziano dal Cinquecento alla Transavanguardia, Achille Bonito Oliva prosegue il discorso iniziato con il suo primo libro importante, L'ideologia del traditore, e lo porta a compimento, ovvero a sfinimento, là dove il segno si slabbra nel capriccio, nell'ornamento. Se il passo di Bonito Oliva prende il via dalla lateralità, dalla citazione - modi tutto sommato ancora rassicuranti del porsi e del guardare - ecco che repentinamente, fin dalle prime pagine di Minori Maniere,. esso cede, indulge, all'occasione e all'accidente, infrangendo ogni visione del mondo, seppure particolare, elaborata, contorta. Non c'è visione del mondo che resista alla pulsione, nei nessuno le può togliere niente perché lei dà quel che non ha. «Tutto ha lasciato il suo posto» scrive Bonito Oliva, all'antitesi del «Tutto è già accaduto» dei cantori della Crisi. Niente è accaduto, non c'è un prima e un dopo ma un nomadismo che celebra l'atto. Fuori della mistica dell'azione, l'atto non è soggetto al tempo, la rapina è del tempo, l'atto è mancato, incollocabile, non c'è sequela di atti, non c'è avanguardia e postmoderno, quanto trans, transfert, un tempo logico e non cronologico, un tempo inspiegabile, che non si lascia piegare a topologia, a necropoli, a storia dell'arte, ma che esige di essere sempre inventato - come in queste pagine di Bonito Oliva-, un tempo interno all'opera e che la sovverte: è il tempo capriccioso, il barometro non resta fisso, né sul sereno né sul temporale, e la variabilità dell'umore configura la bizzarria dell'oscillazione, senza periodicità, in un falso movimento circolare, in un dondolìo melanconico anch'esso artificiale, meccanico, ornamento e non essenza del moto e dell'esistenza. Il primo manierismo - sottolinea Bonito Oliva - nas-cecontemporaneo al Concilio di Trento, che tra l'altro riafferma prepotentemente alcuni dogmi del cristianesimo quali· la transustanziazione. Non c'è sostanza nel manierismo, non c'è essenza, quanto una trasformazione che prende i modi dell'ornamentazione e della catastrofe. Inutile cercare di centralizzare il dettaglio, di farne il fallo del quadro, di porlo come onnisignificante di un estremo tentativo di teocratizzare lo sguardo. Dal manierismo si compie pienamente la schisi tra occhio e sguardo, sguardo indomabile, che neppure l'opera riesce a catturare, perché già spostato altrove, e che comunque, per il momento, si tiene ai margini, pronto a_fuggire, a disimpegnarsi, o resta in orbita, fuori comunque dal terreno minato dell'interpretazione esaustiva. L'ornamento che Bonito Oliva indica in Klimt è appunto questo orbitare dello sguardo, questo suo mimetismo, per cui «il significato dell'opera viene stordito, attenuato e reso relativo» dalla «gratuità d'un linguaggio che mima la gratuità dell'esistenza, l'improbabilità di ogni progretto». Gratuità che trova le sue espressioni più alte nella drammaticità, di Schiele per esempio, là dove la posa e la vertigine, l'esibizionismo e l'erotismo, non assurgono alla metafisica, alla religione, all'ontologia, ma ancora una volta altro non sono che teatro, quel teatro irrappresentabile, autocannibalico che è forse la punta estrema del manierismo, così come la vertigine di Don Giovanni era divenire Tartufo. Sicché il grido acuminato, immaturo e aspro di Schiele, non perché incontra un ostacolo ma perché irrompe nella più dolce delle dimensioni, nel vuoto, si torce per l'estremo capriccio, per il raccapriccio. Achille Bonito Oliva Minori Maniere. Dal '500 alla Transavanguardia Milano, Feltrinelli, 1985 pp. 143, ili., lire 26.000 Doppio deserto Gianna Sarra Una prosciugata scrittura, tutt'uno con la disincantata ideologia che li sostiene, anima questi racconti dal pervicace titolo Doppio deserto - appena usciti per la Pellicanolibri - di Tommaso Di Francesco, autore fin qui di poesie e poemetti (l'ultimo, Trobar, con una prefazione di R. Roversi, è uscito nei Quaderni di Barbablù nel 1984) con cui le poesie mantengono una certa contiguità di stile. È sempre interessante osservare il momento in cui da un poeta nasce, o si distacca, il narratore; un enigma vitale che qui l'autore ci scopre nel semi-autobiografismo del racconto Laila e il nano: «Spiavo io dalla porta socchiusa ( ... ) Nano; del circo liberato, la teneva sollevata e l'abbassava con cadenza regolare, sulle sue verità, da non farsene nemmeno accorgere da lei, ed era una nascondarella-acchiapparella insieme, un tuttigiuperterra estatico, di sospiri pieni. In quell'attimo esatto avvenne per me la separazione tra la poesia e il racconto. Da tempo la poesia per lei era mio segreto racconto personale. Di fronte a quella scena sentii il ferro del chirurgo scindermi di netto la pelle e da un'altra parte se ne andò la possibilità di raccontare». L'emozione d'una sofferenza che incide sull'amore «a vivo» crea la dissociazione da cui si stacca «il frutto del fuoco», la prosa della maturità: non più - o non solo - l'abbandono e il «canto»; ma, misto allo slancio del cuore, al «volo», il controllo, l'esigenza, il rifiuto, la contrattazione, il calcolo: la politica insomma, e la sua rabbia. Ciò che viene a crearsi a questo punto è un «doppio deserto»: «Dentro e fuori, credo che voglia dire - azzarda umilmente nella Prefazione Paolo Volponi-, siccome è impossibile bonificarli entrambi, occorre almeno provare a misurare quello interno». Ora il deserto è per eccellenza, e da sempre, il luogo della verità - perché senza ombre -, il luogo in cui l'uomo si rivela adultero, idolatra, assassino (vedi il racconto La battaglia di Anghiari, in cui non a caso la scena del mancato delitto si svolge sulla sabbia di un'arroventata e «deserta» spiagCarloSalinari GiancarloMazzacurati La criticadella letteraturaitaliana Voi. I pp. 1204 L. 24.000 Voi. Il pp. 1000 L. 24.000 RomanaRutelli Dialoghicol testo pp. 204 L. 18.000 RomoloRuncini Lapaurae l'immaginario socialenella letteratura I Il Gothic Romance pp. 232 L. 17.500 AntonioPalermo Letteraturae contemporaneità pp. 208 L. 17.500 MarioAndreaRigoni Saggi sul pensiero leopardiano pp. 132 L. 10.500 MatteoPalumbo Gli orizzontidella verità Saggio su Guicciardini pp. 152 L. 11.500 G. Bataille - A. Kojève - J. Wahl - E. Weil - R. Queneau Sulla fme della storia a cura di M. Giampa e F. Di Stefano pp. 168 L. 13.000 Jean Pierre Di Giacomo Rappresentazioni socialie movimenti collettivi pp. 140 L. 12.000 FrancoRizzo Buio a Palazzo pp. 124 L. 10.500 MarcoTangheroni La-cittàdell'argento Iglesias dalle origini alla fine del Medioevo con un'appendice di Claudia Giorgioni Mercuriali pp. 464 L. 34.000 Elio Masturzi Anatomiadi un personalcomputer pp. 192 L. 20.000 :=;:_ illìii Più libri più idee
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