Alfabeta - anno VII - n. 76 - settembre 1985

stesso materiale, dalla Bonomi (nell'articolo cit. in Lingua Nostra, 1980), si potranno condurre ancora ricerche molto fruttuose. Si potranno individuare, tra l'altro, le sorgenti a cui si attinge per questo ormai pressante bisogno di (.,-lessicospecifico: forestierismi, di cui si tentano più adattamenti (il fenomeno è vistosissimo nel campo, anch'esso tecnico, della moda e dell'arredamento), dialettalismi, neoformazioni di estrazione latina o greca, rideterminazioni semantiche, composti, derivati. Un aspetto ancora tutto da cogliere ci sembra quello del contrasto, talora stridente in uno stesso testo, tra la modernità dell'ormai inevitabile lessico scientifico e il permanere di strutture morfologiche e sintattiche chiaramente arcaizzanti e da prosa d'arte. Ad esempio, su l'Economista del 1844 un articolo sulla lavorazione del burro (qui sempre butirro: per regionalismo o cultismo?) è costellato di forme come anco, sur, chiamasi, state (per estate), seco, disaggradito, de', inversioni come nulla lasciarvi mancare, perfino un chiasmo (colui che ha il carico di levare il butirro dal pennaggio ed impastare lo deve, è anco obbligato di. .. ). Altrove (nell' Ape delle cognizioni utili, 1836; vedi a p. 445), il commento ai termini borsistici ingloba forme come evvi, meco, perigli. Per finire, ecco una serie di inversioni decisamente poetiche dell'aggettivo predicativo nella descrizione di un'autopsia (il brano viene riportato nella Gazzetta medica di Milano del 1844, dove lo stesso redattore nota la «stranezza I n questo suo Nel fare poesia, secondo la formula proposta dalla nuova e interessante collezione «<pWVlld»i Sansoni, Antonio Porta commenta e antologizza il proprio lavoro poetico, con propositi autointerpretativi rivolti al passato, ma più ancora al presente e al futuro. Ci dà pertanto una scelta autocommentata della sua poesia, in cui la stessa scelta antologica vuole automaticamente costituire la premessa e la «condizione» per l'ottima messa a fuoco della sua immagine di scrittore energicamente impegnato nella sua attiva maturità di cinquantenne, e per cui il commentarsi e l'antologizzarsi non sono altro che un modo diverso di esprimersi e di inventare una propria diversa e imprevista dimensione creativa. Qual essa possa essere ce lo spiega molto bene Porta nella premessa che ha lo stesso titolo del libro e, in particolare, nelle parole che la concludono: «L'accento politico della poesia è conseguenza dell'accento etico della sua necessità, che allunga le radici fino al territorio della libertà di pensiero, legataproprio al mondo della polis, alla storia delle sue lotte e delle sue trasformazioni, che la lingua di tutti esprime in prima istanza così come richiede, in un momento successivo, l'opera del poeta-palombaro». Questa del «poeta-palombaro» è forse la prima metafora che Porta qui ci dà del suo lavoro, in parte da identificarsi con lo scrittore di neoavanguardia e col partecipante attivo (ma anche anomalo) del Gruppo 63, e con l'autore di testi molto tesi e caratterizzati da una surrealtà non peraltro automatica, come in «Europa cavalca un toro nero», o come in «Dialogo con Herz» e, soprattutto, col poemetto «Aprire», nato per eliminazione e riduzione da un materiale molto più vasto, che ha trovato a poco a della lingua»; vedi a p. 484): traumatica violenza, acuta infiammazione, morbosi fenomeni, cadaveriche ricerche, gastroenterica flemassia. E si vedano anche i veloci rilievi (con segnalazioni di elleno, eglino, ei, la forte percentuale di forme di imperfetto in -ea ecc.) già compiuti dalla Bonomi nel suo articolo del 1980 (pp. 142sg.). Il «ritorno a terra» della nostra lingua pubblica, vien fatto di commentare, era appena cominciato sotto i primi colpi delle nuove scienze e tecniche. Ma questa antologia offrirà materiale prezioso per lavorare anche in direzione opposta: cioè per misurare la forza di penetrazione di talune forme del parlato (gli dativo onnivalente, pleonasmi pronominali, concordanze a senso, anacoluti) già notati dalla Bonomi. Queste testimonianze, che fanno ponte tra l'uso (tanto più elastico) degli scrittori di epoche anteriori e le libertà dei giornalisti odierni, varranno ad attenuare alcune correnti accuse nei confronti di questi ultimi? I n attesa che ci venga fornito il promesso studio linguistico di questa grandiosa antologia della prosa giornalistica, una quantità di spunti di storia linguistica si trae consultando, intanto, il ricco Indice analitico del Saggio introduttivo (pp. CCXIIICCXXI). Ma anche la lettura delle Concordanze e delle Liste di frequenza ci spalanca un orizzonte di fatti linguistici tutto da indagare. I criteri seguiti nel costituire i contesti (un rigo di non oltre 76 battute, in cui l'elemento focale viene collocato in posizione centrale o, comunque, regolato in rapporto alla punteggiatura), nell'ordinarli e nel ricondurre le forme ai lemmi (e talvolta questi a dei capolemmi) sono esposti con grande chiarezza da Andrea Masini nell'Introduzione (pp. I-XX) alle Concordanze. Sono ben note le difficoltà che pongono il trattamento e la sistemazione dei materiali linguistici in sede di spoglio e tabulazione con procedure elettroniche. La Bonomi e il Masini, con l'ausilio di Remo Bindi e Eugenio Picchi e sotto la guida espertissima di Antonio Zampolli dell'Istituto di Linguistica computazionale del Cnr (operante a Pisa), hanno trovato soluzioni che ci -sembrano pienamente adeguate al caso affrontato. Il passaggio dallo sterminato repertorio di «forme» al più controllabile repertorio di «lemmi» è stato realizzato mettendo a frutto il «Dizionario Italiano di Macchina» (Orni), strumento di grande utilità ormai approntato da anni in seno all'Istituto pisano, e quindi il riferimento alla «norma» attuale per l'individuazione dei «capilemma»: il Orni prende a base, com'è noto, il Vocabolario della lingua italiana di N. Zingarelli (ed. 1970), variamente integrato. Questo tipo di lemmatizzazione ha portato a dei risultati molto interessanti, che si riassumono in tale maniera: la norma linguistica del primo Ottocento risulta relativamente vicina a quella dei nostri giorni, nel senso che è notevole la percentuale di forme oggi affermate come standard e già presenti, a volte anche dominanti, nella lingua di quel corpus; sono pochi, e segnalati con un triangolino nero accanto alla riga di lemmatizzazione, i casi di assenza della forma standard nel corpus ottocentesco (non ricorre accludere bensì acchiudere, non sussurro ma susurro, non aeronautico ma aereonautico, non elemosiniere ma limosiniere, non epitaffio ma epitafio ecc.). Sono ancora molte, però, le oscillazioni formali (tra esporre e sporre, esposizione e sposizione ecc.; forti ancora quelle tra biglietto e viglietto, estate e state, giovane e giovine, grammatica e gramatica ecc.). Ma il coefficiente di diversità .delle forme linguistiche ottocentesche si innalza decisamente quando passiamo a osservare la morfologia dei verbi, dei pronomi e delle preposizioni articolate: non resta che consultare i lemmi relativi, ad esempio, dei verbi essere, avere, andare, potere, fare che ci regalano ancora forme come fora, fia, ebbimo, anderà, ponno, potrìa ecc., e una miriade di forme di tempi finiti col si o con altri pronomi enclitici ( vassi, diessi, evvi ecc.). Fenomeno questo che ci porterebbe a ripetere ciò che abbiamo detto sulla fortissima conservatività delle strutture sintattiche di questa prosa. L'opportunissimo ordinamento cronologico dei contesti all'interno di ogni gruppo di forme permetterà di compiere interessanti rilievi sulle tendenze evolutive di questa lingua nell'arco del primo cinquantennio dell'Ottocento. Le Liste di frequenza (dapprima alfabetiche, per lemmi e forme, e poi Nelfarepoesia Marco Forti poco una sua forma tesa, lancinante, quando non ossessiva, in una sorta di informalità maculata di segni e di tensione, che si spinge, con energia, a traversare lo specchio verbale. Che, d'altra parte, la lingua della neoavanguardia risultasse stretta alla poesia di Porta si è cominciato già a vedere nelle sequenze di «Rapporti umani» in cui più nude azioni ritmiche si alternano a forme dialogiche e quasi narrative sia pure essenziali e per certi lati ancora surreali; o nel poemetto «Come se fosse un ritmo» in cui - come suggerisce benissimo Porta autocommentandosi - emerge in modo sempre più evidente l'aspetto costruttivo della neoavanguardia che egli ha praticato, contro quello ludico o corrosivo di altri avanguardisti che, infine, non lo riguardava. La tendenza che in Porta si viene sempre meglio configurando è quella della sostituzione dell'io lirico o simbolico di tanta (e anche magistrale o esemplare) poesia novecentesca con veri e propri personaggi parlanti, che ne svolgono via via le funzioni straniate, in una sorta di mutante e dinamico «uno nessuno e centomila» dell'immaginazione poetica. Tale è la «passeggera»di «Come se fosse un ritmo», o la Rosa di « La rose», o l'immagine del nomade del- /'« Utopia del nomade», una sequenza fra le più felici in cui, nei primi anni Settanta, si comincia a respirare in qualcosa il vitalismo del Porta maturo di oggi: «uomini e donne galleggianti guardano in alto I non cadono doni né frutti I è una visione per tutti... ». Se in «Rimario» Porta si affiderà ancora, con senso del giuoco, alle molte e anche provocatorie combinatorietà della rima, nella maturità di «Passeggero» ci darà un ennesimo autoritratto del personaggio-poeta, che si disegna come fosse quello di un altro, e (nella poesia VII) come se l'altro fosse il fratello del poeta stesso, Mario, morto nel '75, in cui paiono coincidere rimbaudianamente identificazione e straniamento in un assoluto. Così tendono ora sempre più a riemergere i significati sui significanti, come nella serie nutrita delle « Brevi lettere»scritte fra il '76 e 1'81 sotto la suggestione della lettura delle poesie di Bertolt Brecht, per comunicare idee o Primo studio per Ecchymose (1884) pensieri, oltre che per esprimersi e dar forma alla comunicazione. Le «Brevi lettere» toccano forse un limite in questa direzione, che Porta non supererà più. Altrove il dinamismo della parola si affida piuttosto alla creazione dal loro interno di altre figure porta-parola, o addirittura con l'identificazione, per amore, del poeta stesso con l'Ofelia del suo «Amleto», che non è poi altri che la Rose inseguita informalisticamente nel poemetto che le è dedicato. Siamo così pervenuti al passato appena prossimo di Passi passaggi, con la relativa visione delle sette poesie su «New York», in cui il poeta prima nomade e passeggero si trasforma ancora in freccia di percezione dinamica in una città che «non ammette debolezze o incertezze. Manhattan è il regno della bellezza così come l'hanno concepita gli uomini del nostro secolo... », e il cui commento (a p. 97) è pari pari un nuovo testo portiano, se vogliamo, una variazione poetica in prosa, su quello che, in versi, è uno dei suoi componimenti più felici e attivi: «fino a che negli occhi in forma di lacrima si apre I soffiata. dai venti la montagna di cristallo I e ci tocchiamo con un dito sulle labbra I offerte fino alla gola che canta». È una freccia d'amore e di fulmineità, che si ripeterà con altre finalità, anche comunicative oltre che espressive, nella serie «Come può un poeta essere amato?» del- /'81-82 e che, nell'essenzialità di Invasioni degli stessi anni, fa ulteriormente avanzare la piena vitalità di una poesia che proprio nella sua fretta antisimbolista, nel «tocca e passa» di un dettato sliricato e volutamente concettuale, ne trova suo malgrado i simboli: in: «rinchiuso ne~'armadio I l'aquilone I vola nella mia mente», o in: «la bestia enorme acquattata I questa notte si è riempita di neve I la mattina si alza, la scuote via». Ma con un poeta come Porta non sai mai a che punto sei. Lo credi ancora immerso nel/'oltranza attiva/passiva delle Invasioni (il poeta che invade il suo universo di segni e ne è a sua volta invaso), e già lo trovi teso a mettere fra parentesi il tempo esprimendolo, a esprimere l'io poetico inclusivo esistenzialmente del suo prossimo contesto di riferimenti. Nasce allora la forma nuovamente estesa della «Canzone» dell'83, col suo bell'envoy che irride gli sguardi riper rango decrescente dei lemmi) offrono un ulteriore ausilio a chi vorrà - ormai potendo - tracciare un profilo della lingua media scritta del primo Ottocento. Se una storia della nostra lingua va disegnata, come crediamo, in una prospettiva che parta dal presente - cioè dagli esiti che un così lungo processo storico ha avuto nella lingua dell'odierna società italiana - non può non apparire subito l'importanza che va attribuita al fenomeno del primo irrompere di una prosa destinata a trattare i più vari «generi» per un pubblico italiano ormai decisamente allargato, anche se non di massa. Ancora un esempio, molto significativo: come suggerisce la De Stefanis, il precedente stilistico più diretto della prosa delle moderne cronache sportive si trova nelle cronache teatrali dell'avanzante Ottocento, l'epoca dei primi grandi trionfi della Scala e dei furori suscitati dalla «div.ina»Malibran. Sarebbe ingiusto non segnalare anche qui che quest'opera è stata incoraggiata, nel suo lungo cammino, dal consiglio di molti illustri studiosi di storia linguistica italiana (B. Migliorini, G. Nencioni, M. Vitale, G. Lepschy) e di storia del giornalismo (Marino Berengo, Carlo Capra, Franco Della Peruta), e si è giovata dell'ausilio di molti altri studiosi (bibliotecari, ricercatori dell'Accademia della Crusca ecc.), tutti menzionati dagli autori. E, inoltre, che alla sua costosissima realizzazione hanno contribuito varie istituzioni canadesi e italiane. nunciatari e ride allegramente nello specchio del poeta, con la straordinaria invenzione del «minuscolo luì» che mima più in alto di tutti il falco «ali tese», che punta in un prato al topolino, sua preda, in un fantasmagorico e sconcertante rovesciamento fra predatori e predati. È già una forma capovolta di trasfigurazione, che anticipa quella delle inedite «Essenze» dell'8485, in cui Porta sposta ancora il confine della sua poesia. Vi reintroduce, ma in chiave non simbolica né orfica, la dimensione creativamente attiva del sogno, che in «Annuncio» diviene pratica poetica, scrittura: «Allora decido di scrivere questi versi... ». È una scrittura dai più centri e livelli, che si ripeterà più avanti, nella poesia «4» della serie, nata da una successione di scoperchiamenti e disvelamenti di immagini, come catturata dalla camera oscura di un occhio selettore/organizzatore. E più nella poesia «6 (Gli sposi)», dove una serie di movimenti narrati in lunghi versi pseudoanapestici, altre volte usati da Porta, coglie un punto non detto di significazione fugata, la trasfigurazione della scena poetica nella molteplicità di sguardi e di strati temporali, che danno vita a un'azione policentrica e polisensa. Un universo - come è sempre nella poesia di Porta quando veramente funziona - di vita che nudamente si graffisce formandosi, di essenza la cui metafora di trasferimento si fissa vitalisticamente un istante prima di gelarsi in simbolo, un istante avanti che il caldo del sangue e del corpo si recinga in forma, in icona. Antonio Porta Nel fare poesia (1958-1985) Firenze, Sansoni, 1985 pp. 129, lire 16.000

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