Carlo Dossi Il Regno dei Cieli. La colonia felice a c. di Tommaso Pomilio con una nota di Guido Davico Bonino Napoli, Guida, 1985 pp. 172, lire 18.000 Autodiàgnosi quotidiana a c. di Laura Barile Milano, All'insegna del Pesce d'oro, 1984 pp. 52, lire 10.000 A Ila voce «Utopia» la letteratura italiana moderna risponde con deboli sussurri. Anche per questo la riproposta de La colonia felice dello scapigliato Dossi è una di quelle iniziative che fanno bene sperare nell'editoria cosiddetta «minore», in. tempi di scoramento per la «maggiore» (Carlo Dossi, Il Regno dei Cieli. La colonia felice, a cura di T. Pomilio, Napoli, Guida, 1985). Certo da Thomas More in qua il non-luogo (u-topos), incrociato già all'origine con l'ottimo-luogo (eu-topos), si è prestato a viaggi immaginari nella Città perfetta, a disquisizioni saggistiche su progetti di legislazione ideale, a sottili rovesciamenti dell'esistente, nei quali i valori di testimonianza e di rivelazione del mondo possibile sono in varie dosi prerequisiti del genere; per la verità piuttosto anguillesco, come si impara dal libro di Alberto Petrucciani, La finzione e la persuasione. L'utopia come genere letterario (Roma, Bulzoni, 1983). Molto anomalo il testo dossiano, che già nel sottotitolo si definisce «Utopia lirica», sottolineando con l'attributo la componente centripeta e narcisistica di cui l'autore è rimasto vittima compiacente in tutta la sua carriera. Solo se ci si rassegna a definizioni più morbide, tipo «tableaux imaginaires d'un idéal constructif de la vie en société, supposé réalisé et présenté dans le cadre d'un récit» (Raymond Trousson), o all'avvicinamento tra genere utopico e satira menippea alla Frye si può accostare serenamente La colonia felice, che nel 1874 tien dietro alle più note e formidabili operazioni decostruttive del romanzo che sono L'Altrieri (1868) e Vita di Alberto Pisani scritta da Carlo Dossi (1870), ma ripropone paradossalmente la forma romanzesca proprio laddove si sarebbe potuto evitarla, magari ricorrendo alla branca più saggistica del genere. Questa «sbornia di filantropià» racconta la ricostruzione di un patto di convivenza sociale da parte di un mucchio selvaggio di uomini e donne deportati su un'isola deserta e ivi abbandonati al puro istinto di sopravvivenza. Dapprima si fronteggiano la forza bruta di Gualdo il Beccaio e l'intelligenza del Letterato, insomma - come glossa il titolo del cap. II - il leone e la volpe, che nello scontro in un primo tempo ha la meglio. Ben presto però la nascita di una figlia che Tecla la Nera sforna al nerboruto Beccaio provoca la conversione: «amore ha forza assài più della Forza», postilla un autore att~nto agli effetti semantici delle maiuscole e, ahimè, anche a un sistema ritmico di accentazione che oggi appare uggioso e superfluo. Dunque, per l'utilità comune, leone e volpe si accordano rimettendo in auge l'eterna ideologia della famiglia. Così le tessere del mosaico anarchico-delinquenziale vanno a posto a due a due: Ambra l'Avvelenatrice con Sergio il Ranza, Ester con Rosario il Fanfirla, Olivetta Cuorbello con Amos il Lima, Carmen la Smorta con Giorgio il Rampina (a proposito, un'orgia onomastica tra canzoni della mala da Cerchia dei Navigli e autobiografie della «leggera»). L'unico che si sottrae al cappio coniugale, Mario il Nebbioso, cadrà tosto nelle amabili reti amorose della figlia giovinetta di Gualdo e, per conseguenza, sarà ricondotto alla societas degli ex delinquenne nella mitologia fascista. Ma Dossi non è Pirandello, scrittore di idee e non di paro!e. A onor del vero, dieci anni dopo l'utopia il Màrgine alla Desinenza in A (aggiunto alla seconda edizione del libro misogino) vanifica la polemica tra idealisti e realisti, in quanto «della realtà fanno parte integrante e l'illusione e il sogno e la fede e lo stesso idealismo», sicché l'affermazione potrebbe benissimo giustificare l'«utopia lirica»; ma è anche vero che· nello stesso Màrgine Dossi liquida senza mezzi termini l'uso dell'intreccio o plot narrativo, mentre scioglie un inno all'autonomia del livello stilistico e cioè al «geroglifico Dossi» con la sua denParallelamente (1896) ti, di cui l'ultimo capitolo esplicita così la spinta aggregatrice: «chiaramente appariva, come, non tanto le dèboli voci della coscienza morale, quanto le fisiche necessità, avèsseli spinti al bene comune, cioè alla giustizia». Q uesta è senza dubbio un'utopia redenti va (e regressiva) borghese, che al prefatore Davico Bonino evoca La nuova colonia pirandelliana per quell'ambiguo trionfo della famiglia in Dossi e !'ancor più stupefacente finale di Pirandello, con la prostitutz abbarbicata alla sua creatura, Madre con la maiuscola destinata a matronale celebrazio- ~ sità retorica e «l'ingegnosa oscurità di stile che fà la delizia degli intelligenti e la disperazione del pubblicaccio». Ora nella Colonia le due tensioni convivono: da una parte una trama romanzesca diciamo pure tutt'altro che osée, dall'altra un umorismo, un gusto del bon mote del calembour che fagocita l'intreccio mediante il sublime trovarobato lessicale e retorico del proverbiale pre-gaddismo di Dossi (ma Gadda, il «convoluto Eraclito di via San Simpliciano», addurrà più solide motivazioni gnoseologiche al suo pastiche). Lombardismi, dialettalismi d'altre regioni, voci gergali accanto a latinismi, arcaismi e neoformazioni dilagano dalle parti narrative a quelle descrittive, puri fondali ricamati di stupore, e invadono perfino i dialoghi dei deportati, in modo che l'espressionismo sconfessa la suggestione mimetica del romanzo: tutt'altro che bachtinianamente pluridiscorsiva la variegata parola dossiana è soggettiva e adialettica. Lo fa giustamente notare nella postfazione molto densa Tommaso Pomilio, che però nelle note ai singoli termini abbonda troppo con la definizione di hapax, attribuendo a Dossi un eccesso di iniziativa lessicale e semantica che quel divoratore di vocabolari non intendeva perpetrare. Per esempio ebanino 'eburneo' e insoavendo (Frugoni, Tenca, Nievo) non sono forme dossiane; furia/e 'che spinge alla furia' è tra l'altro in Marino, Foscolo, D'Annunzio; ragnaia 'ragnatela' sarà raro, ma non è «risemantizzazione dossiana». Sul versante retorico le figure etimologiche avvitano su se stesse la lettura («Gualdo, mietendo, sospirava ai mietuti» con addensamento metaforico su mietuti=defunti; «Forestina temette il timore»); i chiasmi semantici ironizzano concettosamente il messaggio, se del finale embrassons nous si dice: «parèa perfino che l'entusiasmo, passeggera follìa, si tramutasse in follìa, duraturo entusiasmo». A dispetto dell'assunto, l'ironia più che critica dell'esistente, e dunque mezzo euristico, è nihilizzante; come dire: la persuasione, di cui l'utopia in quanto genere è portatrice, si fa qui travolgere da una retorica disgregatrice. L'«io sol'io» di una Nota azzurra (la 2271) è presa di voce continua di un narratore che invade con un umorismo alla Jean Paul Richter l'intreccio e alla fine lo sfibra in un Erewhon stilistico. Perciò non stupisce la Diffida aggiunta alla quarta edizione (1883) e presente nella ristampa Guida, che giustamente a tale edizione si attiene. Dossi si rimangia tutto, filantropia su base utilitaristica e patina archeologizzante. La prima in omaggio al positivismo lombrosiano e forse alla virata politica del Dossi ghost writer di Crispi: «L'uomo malvagio, non è correggìbile» dicono psichiatria, chimica organica e statistica criminale, fino a suggerire lo sterminio dello scellerato e della sua famiglia usque ad quartam generationem; la seconda in quanto residuo anacronistico di un'originaria infatuazione per i «barocchi del classicismo», che sarebbe dovuta sfociare in un lavoro teatrale con scenari di architettura romana per i dialoghi tra Marco Aurelio e Lucio Vero; la deriva di un siffatto progetto iniziale sarebbe rimasta a contaminare col «sapor ràncido di latinismi» la contemporaneità necessaria al romanzo. In tal modo l'autore stesso «diffida» a leggere pacificamente il suo «spròposito» e al contempo costringe a rileggerlo, per quanto in modo straniato. Ef di pochi anni anteriore al Màrgine e alla Diffida un'altra curiosa manifestazione dell'umorismo saturnino del Dossi, l'inedita fino a ora Autodiàgnosi quotidiana in forma di prefazione a un libro che non c'è (a cura di Laura Barile, Milano, All'insegna del Pesce d'oro, 1984), In una dozzina di pagine straordinarie colui che scrive si offre, oggetto spontaneo di diagnosi, all'amico Lombroso come esempio probante delle sue teorie sull'ereditarietà e sul nesso genio-follia. Nell'Autodiàgnosi Dossi- sembra sostenere a spada tratta l'eteronomia dell'arte con una spietata rassegna di tare familiari e un autobiografismo in chiave neurastenica, nel quale vengono sdoppiati il soggetto in «io» ragguagliante e !'egli Carlo Dossi oggetto di anamnesi: a quest'ultimo si attribuiscono disturbi gravissimi con una terminologia medica abborracciata che fa sospettare il solito rovesciamento ironico. Atassia motoria e linguale colpirebbe lo scrittore dopo periodi di studio matto e disperatissimo, perdita di «Mnemosine» e una sorta di afasia sarebbero responsabili del «garbuglio di pervertiti vocàboli, di tempi di verbo errati, di suoni di voce stonati», insomma dello stile «tutto a cancellature» di cui pure si inorgogliscono molte Note azzurre e di cui celebra l'apoteosi il Màrgine sopra citato, guarda caso improntato a un'opposta idea di autonomia della sfera stilistica e a una concezione del rapporto autore-lettore, non più rispettivamente padre e bambino, ma collaboratori nel parto di idee che scaturisce dalla rottura del vecchio patto di verosimiglianza. Qui siamo già alle soglie delle varie avanguardie del Novecento. L'amicizia con Cesare Lombroso, documentata con cura da Laura Barile, che ha steso postfazione e note impeccabili, è del tutto comprensibile perfino al di là della moda positivista. Anche lo scienziato, a sua volta chiacchierato e visto con sospetto tra Pavia e Torino dove insegnò, deificava il genio giusto mentre lo esorcizzava mettendolo in rapporto col «diverso» per eccellenza, pazzo o criminale che fosse; anche lui era attratto dal gusto del catalogo e dei nessi arditi o bizzarri; anche lui, infine, era agli occhi del Dossi un personaggio paradossale. Questa Nota azzurra sul famoso studioso della pellagra parla da sé: «Per criticare poi la pazzia, Lombroso si pensa di convertirla in pellagra, e però dà ai matti ogni mattina un bicchiere di raccagna con un grano di melica - Tiene anche una capponaja di pollastri pellagrosi e impazziti a forza di maiz guasto». Il fatto è che una carica antifrastica serpeggia in tutte le opere del conte Alberto Carlo Pisani-Dossi e la cosiddetta realtà è volentieri sopraffatta dai veleni di una scrittura ilaro-melanconica. Scrittore dandy per eccellenza, Narciso prigioniero di un gioco labirintico di 'O specchi verbali, ma soprattutto gran virtuoso, i cui «salti spesso mortali sullo stesso posto» (p. 10 ~ dell'Autodiàgnosi e Nota azzurra ~ 1719) potrebbero regalargli un po- ~ ..C) sto nella galleria dei ritratti di arti- E sti come saltimbanchi di cui ha ~ ~ detto un bel libro di Jean Staro- "' binski. ~
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