I n un racconto di Richard Matheson (Through Channels, 1952), un poliziotto registra il racconto di Leo, un bambino terrorizzato, in stato di shock. Click, swish, swish; e Leo racconta dicome fossero apparse quelle strane bocche nel suo televisore, grandi, larghe, aperte, e quelle lettere che dicevano EAT, mangia (pubblicità, forse, aveva detto la madre); e di quando era tornato, quella sera, nella stanza maleodorante e scivolosa, dominata dalla fioca luce del televisore. Sullo· schermo c'era scritto ATE, mangiato. Poi, Leo aveva acceso la luce ... La televisione uccide, dunque, in questo racconto dal brivido sottile che prefigura il Poltergeist più recente di Spielberg/Hooper. Anzi, meglio, la televisione «mangia», fagocita la famiglia con il suo spessore molliccio, straboccando su dai canali con i suoi caldi, grassi umori. Essa dunque contiene, sin dall'inizio della sua storia, una metafora mortuaria. La provoca negli anni Cinquanta la «paura» della televisione da parte del cinema (la tv «uccide» il cinema classico, Hollywood «muore» e inventa per istinto di sopravvivenza nuove tecnologie competitive) e da parte degli intellettuali (la televisione ingloba e fagocita la nuova famiglia massificata americana). La evoca negli anni Sessanta la sensazione ricorrente di una «morte» generalizzata del mezzo-cinema e dello specifico filmico, ucciso dalla televisione. E negli anni Ottanta è l'angoscia più cosmica verso un sistema di intersezioni/commistioni delle macro/microtecnologie, a suscitare questo brivido macabro, questo big chili funebre. La televisione è un killer. The Killers si intitola anche il primo tvmovie - mai trasmesso per la sua violenza e dirottato verso le sale cinematografiche - di Don Siegel. Spesso, anche nel cmema hollywoodiano contemporaneo, quando si cita o si mette in campo la televisione, lo si fa con un brivido horror: in Halloween la televisione trasmette un cult movie (La cosa da un altro mondo) mentre incombe la strage. In Gremlins l'elettrodomestico televisivo contrappunta con un altro classico di fantascienza (L'invasione degli ultracorpi) l'imminente mutazione. E quando, nel dibattito sull'estetica postmoderna, si parla di «parassitismo» (un fenomeno dilagante nel cinema e nella televisione contemporanei), anche in quel momento si evoca in qualche modo la (o una) morte. Se dalla grammatologia si trasferisce la nozione di «parassita» alla critica e alla pratica filmica/televisiva, si vede come i continui omaggi, citazioni, controusi, riproduzioni, remakes di testi e apparati precedenti, siano un macabro caso di vampirismo. D i fronte a questo spazio della mutazione, la critica è in qualche modo assente. L'analista della nuova cultura iconica è passivo, il critico - soprattutto quello televisivo - è travolto dal flusso e dagli incroci, dalle visioni e dal visibile. Non riesce a produrre teoria. Anche nel caso della teoria televisiva si può dire che essa sia per molti versi «parassita». La televisione è vista sempre «in relazione a». In relazione al cinema, soprattutto, col quale è legata da anni in un dibattito sulle possibili convergenze tra i due mezzi; in relazione alla storia, di cui diventa fonte o effetto; in relazione alla musica, come è avvenuto e avviene nel caso della videomusic ecc. Manca, invece, una compiuta analisi della televisione come testo e come forma specifica; anche se, naturalmente, il lavoro non parte Attraversoi canali da zero. Ricordo la ricerca condotta da anni dal Bfi e in generale dalla critica inglese (Reading Television di John Fiske e John Hartley, Stuart Hood on Television dello stesso Hood, il lavoro della rivista Screen). Ricordo, anche in Italia, gli ottimi tentativi di sistemazione teorica di Bettetini _(La conversazione audiovisiva, Tra cinema e televisione), di Casetti (L'immagine al plurale), di Calabrese (I replicanti). La difficoltà teorica nei confronti della forma televisiva viene forse dalle modalità dello stesso testo televisivo, «incerto», se non «introvabile». La fluidità, l'evanescenza, la labilità dell'immagine teletrasmessa fanno del testo televisivo qualcosa di incontrollabile e imprendibile. Ancor più che nel caso del cinema, la televisione sconta l'impossibilità di fermare l'immagine, di conservarla, di ritenerla (anche nel senso della conservazione e dell'archiviazione). Di fronte a questa scivolosità e viscidità del testo televisivo (anche quando esso è estrapolato dal suo contesto, quello del contenitore, del palinsesto, della rete, del flusso visivo) la stessa critica si trova a adottare le forme dell'oggetto in esame. Diventa cioè una metacritica, una critica condizionata di suggestioni diverse, un re-make di citazioni, di riporti, di rimanenze. Le rimanenze e persistenze (persino a livello di retina) di subtesti diversi: il messaggio pubblicitario, l'eventuale interruzione, la presentazione, il contenitore, il commento ecc. Ci si trova, insomma, di fronte a una (con)fusione teorica, nel doppio senso di un disorientamento e di una polisemia, di una moltiplicazione e diversificazione degli approcci. Da questo magma teorico ancora non raffreddato emergono alcuni problemi chiave: a) la forma televisiva, b) il «flusso», c) i rapporti tra cinema e televisione, d) la serialità, e) la relazione espansa con la Storia, d) le prospettive dell' «immagine elettronica», e) la condensazione del testo e della narrazione in una forma concentrata, come può essero il videoclip, o diluita, come nel caso del tv-movie. Per quanto riguarda i primi due punti, bisogna partire dai già ricordati studi britannici dall'archetipo teorico della teoria televisiva anglosassone, vale a dire Raymond Williams (autore di Television, Technology and Cultura/ Form, un classico forse oggi superato), e soprattutto dal recente volume di John Ellis, Visible Fictions. Ellis, soggetto attivo delle teoriche e della pratica televisiva (dirige la società Large Door e lavora per il famoso Channel Four britannico), pur restando inevitabilmente legato alla sudditanza della televisione nei confronti del cinema, tenta un'analisi dei due mezzi in quanto forme specifiche. Ne studia i differenti discorsi narrativi, le forme culturali, i differenti pubblici e modi della visione, la composizione dell'apparato e del mezzo dal punto di vista tecnologico. Così, il necessario confronto col «padre», con la forma cinema, è visto in termini di differenziazione più che di convergenza e di commistione. Un fenomeno d'altra parte, questo dell'incrocio e della combinazione tra i due mezzi, che Vito Zagarrio caratterizza la loro evoluzione attuale, dal punto di vista delle tecnologie (gli effetti elettronici nel cinema hollywoodiano, il videoequipment in ripresa e in edizione) e da quello dei modi e dei formati narrativi (il film per la televisione, il sequel cinematografico). S i inquadrano in questo megatrend i prodotti massimi (dal punto di vista del loro modo di produzione) e quelli minimi. Da un lato, cioè, l'apparato televisivo - o, per essere più precisi, il rapporto tra dispositivo e audience - influisce sulle tendenze del cinema più ricco, quello hollywoodiano; dove le abitudini e i nuovi costumi del pubblico - lo spettatore «totale» televisivo - determinano la confezione dei prodotti. È il caso di prodotti di show-business come Ghostbusters, Gremlins, Cotton Club, o lo stesso Beverly Hills Cop, fondati sulla commistione dei generi tradizionali (horror+commedia, situation comedy+detective story, detective story+musical), basati cioè su una esplosione/ricomposizione di codici di cui è in parte responsabile la diversa «visione» televisiva - complessa, segmentata, taylorizzata - insieme al nuovo pubblico che vi si è nutrito .. Il nuovo «supertesto» televisivo - per usare una formula cara al critico americano Nick Browr:ie-, il mega-testo spesso casuale e astratto che si forma nel rapporto spettatore-schermo televisivo (con la mediazione del telecomando), ha certamente facilitato lo slittamento del prodotto hollywoodiano verso casi di cross genre impensabili un decennio fa: il western stellare di Star Wars, quello avventuroso e fantasy di Indiana Jones, la fantascienza «zavattiniana» di E. T. Dall'altro lato si situano prodotti medi e minimi dell'incrocio tra cinema e televisione: i medi sono, ormai, le micronarrazioni della videomusic; casi di «racconto elettronico» ormai sganciati dalla stessa immediatezza del lancio pubblicitario (il formato può non essere più quello canonico dei tre/quattro minuti, ma espandersi verso le dimensioni dello short filmico, come nel caso di Thriller di Landis). E medi sono anche i commercials, come quelli d'«autore» e di alto budget italiani (vedi la ormai famosa Bari/la di Fellini). Nello spot pubblicitario (Ellis ne parla come della quintessenza della «forma» televisiva) come nella videomusica si assiste a una contrazione e a una condensazione del racconto; spot e clip diventano veri e propri archetipi della forma narrativa televisiva. I prodotti «minimi» sono invece quelli - più emarginati dal mercato ma anche più sensibili alla mutazione e più consapevoli della propria operazione - dell'avanguardia audiovisiva: l' «artronica» di Gianni Toti, la videosperimentazione «ibrida» di Yagamuchi e dell'avanguardia giapponese in generale, la video-arte, spesso collegata alla computer graphic e alla pubblicità, americana, per non parlare di videoartisti antesignani come Godard o l'italiano Alberto Grifi. Come collegamento tra prodotti «minimi» (nel senso dell'avanguardia) e «medio-alti» (nel senso dell'industria culturale e dello show biz), c'è poi uno spazio privilegiato, occupabile da pochi: tra i pochi Francis Coppola, con il suo piano di fiction, con la sua ipotesi di fare avanguardia all'interno dei codici e dei modi di produzione hollywoodiani, con il suo acrobatico miscelamento di pellicola e elettronica, di culturale e commerciale, di povero e ricco. Anche di questo infrangersi delle barriere (è forse corresponsabile la televisione, che nel suo palinsesto ha assuefatto a una visione «parallela» e omogenea di elementi diversi, di «spezzoni» di realtà il cui puzzle è ricomponibile ormai dietro o al di là dell'apparato, nella testa dello spettatore: film e news, pubblicità e documentario, soap opera e series, quiz e inchiesta ecc. Inoltre, la cultura televisiva ha legittimato la qualità dell'immaginario popolare, ha dato statuto e credibilità ai B-movies che ha contribuito a diffondere e reso oggetto di culto, ha prodotto e imposto una serie riprodotta all'infinito di merci che affondavano le loro origini appunto nel B-movie, o nella radio, nei fumetti, nella letteratura d'appendice, insomma nella cultura più na'if e orecchiabile, nell'immaginario collettivo, nei miti di massa. U no dei nodi di questo livellamento e riequilibrio degli • specifici e delle sfere culturali, a livello delle modalità televisive, è senz'altro il made-for television-movie. Ancor più che le series o le miniseries, il tv-movie è una chiave del discorso. Questo modo specifico della forma televisiva americana (anche se in Italia molti tv-movies sono usciti nelle sale, in America essi sono esclusivamente destinati al pubblico televisivo) e di una televisione matura (alla fine degli anni Sessanta) è un significativo baricentro teorico; tanto che riflette bene i vari problemi sopra citati. È ad esempio una delle espressioni più avanzate del rapporto cinema-televisione, dato che col cinema tradizionale ha in comune il formato (la tradizionale ora e mezzo del lungometraggio), la composizione chimica (è girato in pellicola, a differenza di alcune series), la grammatica filmica. È però nello stesso tempo una forma tipica della narrazione televisiva e ha un suo preciso modo di produzione, diverso dal cinema per budget, organizzazione del set, casting degli attori. Oltre a essere indizio di un tipico modello produttivo, è anche sintomo di un pubblico che partecipa in modo diverso di quello cinematografico alla stessa produzione del testo, con i suoi umori familiari, le sue valutazioni morali. Proprio per questo contatto diverso col pubblico - che assiste allo sviluppo della vicenda propostagli in modo più distratto che nella sala buia cinematografica ma anche in modo più «familiare» - anche la modalità della narrazione cambia nel tv-movie rispetto al film per le sale. Si assiste al fenomeno opposto alla «condensazione» della videomusica e degli spot pubblicitari; qui la narrazione è dilatata, diluita, quasi in tempo reale. Sono abolite le ellissi. Seguendo la tradizione degli anthology dramas degli anni Cinquanta, il pubblico viene portato per mano «in mezzo» a una situazione che lo riguarda. You are there, tu sei lì, come diceva la serie di docudramas ante litteram degli anni Cinquanta. E se il pubblico è «lì», la fiction diventa cronaca, fatto, realtà, cui si partecipa in modo emotivo. Non con l'eros voyeuristico del cinema, ma con una proiezione/immersione nef «problema» proposto. Il made-for television-movie, infatti, propone sempre un problema, una issue: il cancro, la droga, lo stupro, l'infermità, l'handicap fisico, l'ecologia, la razza. Oppure ricostruisce eventi famosi, o famose biografie: Bogart, Roosevelt, Howard Hughes, i fratelli Whright, o il raid di Entebbe. In ogni caso lo spettatore viene portato in contatto con la Storia. Forse una storia a dispense, banalizzata e drammatizzata in modo popolare, ma che comunque è indicativa di un bisogno di esserci, di consumare la notizia o il fatto in modo diretto, esclusivo, soggettivo. Il made-f or television-movie, infine, è un nodo di congiunzione tra anthology drama - di cui è erede-, film - di cui occupa lo spazio e il tempo -, series - di cui è spesso «pilota» e quindi direttamente progenitore. Insomma il tv-movie è una chiave di volta; un passaggio tra il patchwork degli anni Cinquanta (quando la televisione in diretta e il mescolamento delle tecnologie creavano anche non volutamente pastiches altamente teorici) e quello degli anni Ottanta (videomusica e esplosione dei generi). Il tv-movie è forse un momento debole rispetto ai due momenti forti che gli sono ai lati; ma ne è comunque l'anello necessario, o forse la riprova, la legittimazione. Anch'esso grande «parassita», luogo della citazione, del remake onnivoro (come è onnivoro il suo pubblico): remakes di film famosi, di vite vissute, di fatti accaduti, remade della stessa forma televisiva. E dunque anch'esso mortuario, nonostante esorcizzi il male e la morte mettendo ossessivamente in scena cancri e paralisi, handicap e follie. Cfr. John Ellis Visible Fictions London/Boston, Routledge & Kegan Paul, 1982 Autori vari American History/American Television. Interpreting the Video Past a c. di J.E. O'Connor New York, Ungar, 1983 Robert Sklar Prime-Time American. Life On and Behind the Television Screen Oxford/New York, Oxford Univ. Press, 1980 (paperback 1982) Originale televisivo Concorso internazionale del Salso Film & TV Festival Salsomaggiore, 18-25 aprile 1985 L'immagine elettronica Bologna, febbraio 1985 25° Festival di Montecarlo Mercato dei programmi televisivi febbraio 1985 Autori vari Hollywood in progress. Lungo gli anni sessanta Mostra Internazionale del Nuovo Cinema, 1984 (pubblicato in occasione della Terza Rassegna Internazionale Retrospettiva di Ancona 20-25 novembre 1984)
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