.La generm~,~, dei registi Claudio Meldolesi Fondamenti del teatro italiano. La generazione dei registi Firenze, Sansoni, 1984 pp. 577, lire 26.000 Ef vero che gli studi teatrali godono ormai di un certo credito, ma è un credito basato sul gusto per gli argomenti teatrali (che a molti paiono ancora nuovi e anomali) e non su un metodo nuovo di studiare un genere di fenomeni certamente anomalo nel contesto dei tradizionali generi artistici. La fortuna di cui gli studi teatrali oggi godono, specialmente in Italia, e non solo in ambito accademico, è quindi fondata sulla sabbia. Lo denunciano, fra l'altro, alcune sviste sintomatiche: libri caratterizzati da una profonda inquietudine metodologica vengono ignorati nella loro vera natura, e presi come esempi di grossa erudizione. Nel 1981, venne pubblicato dall'editore Bulzoni un libro dedicato al teatro altomedievale, Quem Quaeritis di Johann Drumbl. Era uno studio di grande attualità: l'autore non si staccava mai dalla filologia medioevale e così facendo arrivava a mostrare l'arbitrarietà del modo che ci sembra «naturale» di guardare il teatro. La precisione amata e pesante dei dettagli era la materia attraverso cui passava una traccia preziosa sul modo di pensare il pensiero teatrale. Venne visto come un prodotto d'alta specializzazione. Mi chiedo se accadrà qualcosa di simile con il libro di Claudio Meldolesi che è, sì, dedicato a un argomento a noi vicino (il teatro del secondo dopoguerra), ma che è anch'esso frutto e mostra d'una documentazione vasta e minuziosa. Il libro di Meldolesi osserva in particolare quindici anni, più particolarmente ancora l'ambito della così detta «regia critica», quella di Streh'ler, Squarzina, De Bosio, Lucignani, Pandolfi. La «regia critica» - ha spiegato Squarzina, a cui l'espressione risale - fu la risposta a una crisi politica e intellettuale. Fu la regia, dice Meldolesi, del «doppio percorso»: da una parte raffigurazione dei valori poetici e storici del testo, dall'altra sua attualizzazione, attraverso l'aggancio a problemi e inquietudini del presente. Meldolesi mostra come l'uso del doppio percorso abbia significato accettare amputazioni gravi: «Strehler rinunciò all'avanguardia, De Bosio ai valori pedagogici, Squarzina alla dialettica calda» (p. 518). Fondamenti del teatro italiano, infatti, malgrado il titolo che parrebbe ottimistico, è anche la storia di fallimenti nascosti dal successo, potenzialità non tradotte in atto e espunte anche dal ricordo. Ma il libro non è questo soltanto. Se lo fosse, striderebbe la sproporzione fra il fine e i mezzi: seicento pagine circa, una ricerca quasi decennale, lo scavo di documenti di prima mano (diari, lettere, fogli episodici e provinciali) e il tutto al servizio di una vicenda emblematica, è vero, ma un po' grigia, per la quale sembrerebbero più appropriate le dimensioni del saggio sintetico, dell'apologo storiografico. Ma, come nel Quem Quaeritis di Drumbl, anche qui la materia sembra traboccare perché è superata da ciò che la anima e diventa importante perché metté in forma un particolare metodo di ricerca. I n margine a una delle prime pagine, l'autore pone con discrezione una nota che in realtà costituisce il perno del suo lavoro: si oppone alla «storiografia bella» sul teatro, cioè a quel modo di studiare che si concentra sulle fasi di maturità e «addebita le incoerenze a un presunto stato adolescenziale», per inneggiare alla maturità come ~<ritrovataidentità del teatro» (p. 5, nota 3). La «storiografia bella» è - con pochissime eccezioni - la storiografia teatrale nel suo complesso, incapace di considerare, sia pure come sfondo, la vita materiale del teatro, la sua continuità. È la storiografia che mette in sequenza le opere (testi drammatici, spettacoli, poetiche) come pietre d'una collana il cui filo è costituito da una pseudoastrazione: il Teatro. Polemizzare con questo modo di far storia vuol dire individuare, oltre il velo di una continuità immaginaria, una continuità materiale: problemi strutturali e rapporti storici fra persone, tradizioni, comportamenti acquisiti e trasmessi, modi di produzione. In questo caso, il teatro smette d'essere un nobile aneddoto e diventa oggetto di storia: un ambito che con un grado accettabile di arbitrarietà può essere considerato come un insieme formalmente e storicamente a sé stante, e le cui trasformazioni possono essere rappresentate anche attraverso le dinamiche delle forze e dei dislivelli interni. Meldolesi è interessato soprattuto ai rapporti fra teatro e vita civile, ma non inganna il suo interesse con riassunti e inquadrature storiche o esibendo raggiere di riferimenti. Lavora in profondità, annoda i fili della sua storia, si costruisce un terreno in cui il particolare conduce organicamente al generale. E, soprattutto, tiene tutto in movimento. Già questo basta a spiegare l'esigenza di scendere in molti dettagli: la quantità di informazioni è qui il terriccio su cui tracciare un percorso storiografico persuasivo. Sembra che in questo libro si urtino due tendenze: l'una verso l'ordine, lo schema ampio, la periodizzazione decisa; l'altra nutrita dal gusto, o meglio: dalla saggezza del disordine. Fortunatamente è la seconda a prendere il sopravvento. E il disordine è solo apparente: il libro diventa la rappresentazione di un modo di guardare che continuamente si aggiusta sul suo oggetto, coinvolgendo il lettore. Il teatro di cui si fa la storia non è come se fosse già dato, ma si costruisce quasi sotto i nostri occhi, è il respiro generale che acquistano le singole storie individuali. H o letto per la prima volta questo libro quando esso era ancora 4 o 5 chili di fogli dattiloscritti; la prima impressione fu di un labirinto che costituiva lo sconosciuto retroterra dell'odierno teatro più noto. Ciò che oggi è l'establishment teatrale, nel bene e nel male, fu, nelle sue origini, un teatro quasi reinventato e scoperto da un gruppo di amici. Meldolesi sottolinea fin dall'inizio la dimensione amicale che caratterizza i mutamenti teatrali, mette bene in rilievo le sue «leggi»: «l'immancabile trauma da crescita non si verifica nel momento del disadattamento, bensì in quello dell'equilibrio raggiunto e professionalizzato». Trauma ed equilibrio, paradossalmente, si sovrappongono. Ne deriva alla scrittura dell'autore un altrettanto paradossale sovrapporsi della pietas, che caratterizza lo storico che cerca di conservare e comprendere il senso di ui:ipassato, al fredd~ giud~zio9i chi si fa storico, invece, per scontentezza del presente. Ecco, per esempio, Gi~nfranco De Bosio: lo vediamo lavorare a Padova dov·eha chiamato Jacques Lecoq e Eric Bentley, lo vediamo collaborare con il giovane Zorzi, imporre in un ambiente provinciale, riottoso alla cultura, presenze teatrali che faranno storia, e poi passare dall~ esigue dimensioni di un teatro separato (e universitario) all'angustia di un piccolo «servizio pubblico». Ma il punto si rivela di colpo un altro: «Gli mancava la qualità, essenziale ai riformatori, della ripugnanza per la mediocrità» (p. 455). Questa è la maniera di Meldolesi: improvvisamente si impenna, infila l'oggetto del discorso con una sola frase, lo fa fuori e lo conserva. Quelli che per un momento sono apparsi protagonisti delle loro storie e del loro teatro, d'improvviso mutano proporzione e divengono dettagli di un più vasto panorama. Malgrado la durezza, il colpo di spillo con cui l'autore infila i suoi personaggi è un gesto di rispetto, indica la necessità di inserire il personaggio non solo nella ricostruzione minuta, dove lo sguardo è sempre propizio, ma anche in un più ampio movimento storico, che richiede un giudizio più freddo e radicale. Si rivela, così, il senso della doppia natura del libro, fatto «di due libri intecciati, distinti anche se non separabili», come scrive l'autore nella Premessa. Da una parte, la vicenda dei giovani innovatori negli anni fra il '40 e il '55; dall'altra i. mutamenti del teatro italiano dalla fine del secolo scorso fin quasi a oggi. Una struttura a tutta prima sconcertante, del tutto asimmetrica. Delle due vicende, la prima è un episodio della seconda, ma è ad essa intrecciata. Dietro questa bizzarra scelta narrativa si nasconde una grande accortezza storiografica: l'autore riesce a usare ambedue le ottiche fra le quali, in genere, gli storici sono obbligati a scegliere: l'ottica che segue la concatenazione degli eventi dal basso e dall'interno e l'altra che osserva, in un ampio scenario e su tempi lunghi, sincronie e asincronie fra i movimenti di differenti sottoinsiemi culturali o sociali. La compresenza e la sfasatura fra le due ottiche determina - come per gli occhi, appunto - la profondità del campo visivo. ( .. f è un cardine obiettivo che permette la doppia e non simmetrica articolazione del libro: è ciò che avviene alla metà degli anni Cinquanta, quando si conclude l'apprendistato dei giovani riformatori e la vicenda secolare del teatro italiano contemporaneo giunge a una svolta decisiva. La cultura delle compagnie, su cui il teatro era a lungo vissuto, è definitivamente finita, e dopo il fermento dei primi anni del dopoguerra si giunge a una normalizzazione che spazza via le realtà estreme e minoritarie. Cade il Teatro di Massa di Sartarelli, cade il teatro da camere dei Gobbi, Pandolfi rinuncia al teatro attivo, De Bosio' cerca di mimetizzarsi per sopravvivere e si perde. Strehler sembra l'unico a non perdersi, ma tradisce una voce del suo talento. La «normalizzazione» della metà degli anni Cinquanta non fu una «restaurazione»: benché fosse frutto di cedimenti, di rinunce e smemoratezze, si appoggiò su nuovi valori artistici e culturali, su un'idea di teatro da affermare e da trasmettere. Perciò fu qualcosa di molto meno debole e molto meno insignificante dei tentativi, caratteristici degli anni Ottanta, di restaurare sul nulla un teatro «normale». Fu, comunque, una perdita. Sarebbe bello, se dal libro risultasse che essa fu imposta soprattutto dalla forza. I protagonisti di questa storia, invece, hanno ceduto più alle loro interne debolezze che alla forza altrui. Le loro azioni, viste a distanza, mostrano alcuni caratteri ricorrenti: rigore e fedeltà nella vita intellettuale e nelle posizioni ideologiche; cedevolezza e trasformismo nelle scelte pratiche, spesso valutate come «meglio-che-niente». È strano, ma questa fu forse l'ultima seduzione del fascismo. Il fascismo aveva indotto a pensare che le idee fossero inconsistenti, mutevoli, mentre decisiva era la pura azione. Così avvelenò molte vite intellettuali, intaccandone il morale. Ma con queste considerazioni da apologo siamo fuori dal piano del libro, che invece insegue le ragioni concrete che costituiscono i fondamenti dell'attuale sistema teatrale italiano. D'ora in avanti, chi vorrà studiare il teatro di quegli anni (ma non soltanto il teatro, anche la cultura del suo complesso), non potrà non riferirsi a questo libro, tanto esso è ricco di tesi, di tentativi di spiegazione, anche in rapporto con gli avvenimenti più piccoli, con le notizie più marginali. Un atteggiamento razionale spinto così a fondo, fino ai capillari, non sarebbe possibile senza un radicale straniamento del punto di vista. Ed è su questo che dobbiamo fermarci,· è qui, probabilmente, l'aspetto più importante del libro. Costretti, dunque, a tacere dell'intelligenza storica con cui sono trattati gli episodi e i dettagli, ricorderemo almeno il caso più sorprendente e forse significativo, che riguarda Strehler. Strehler, e con lui i critici e i biografi ligi, hanno messo il silenzio su tutta una porzione della prima attività del regista. È proprio intorno a questo lapsus che Meldolesi va a indagare, e ritrova una personalità artistica che contrasta con la figura che Strehler si è poi costruito adattandosi. È uno Strehler tabulatore, sperimentatore d'avanguardia, amante della fiaba e della clownerie. È, contro ogni successiva apparenza, una delle matrici della formazione di Dario Fo. Scrive Meldolesi: «Per certi versi, il successivo rifiuto di Strehler da parte di Fo fu un atto di fedeltà all'altro Strehler, quello conoscibile, oggi, solo per via archeologica» (p. 327). L a doppia natura del libro e la sfasatura fra un'ottica ravvicinata e un'ottica a distanza (quella sfasatura che, si diceva, determina la profondità del campo) si servono di un espediente narrativo fondamentale: Meldolesi occulta, disseminandola qua e là in pagine e occasioni diverse, la «spiegazione» che parrebbe in grado di ordinare i fatti e comporli in un quadro stabile. È, naturalmente, una spiegazione interna al metabolismo teatrale, e potremmo esporla così: nella storia del teatro, l'unità minima efficace non è l'individuo, ma il gruppo, la compagnia, l'ensemble forte di un laeder forte. Questo vale per Stanislavskij e per Copeau, per i Beck e per Grotowski, per Barba e la Mnouchkine. Parliamo, infatti, non delle sole trasformazioni artistiche e spettacolari, ma di quelle che riguardano la vita materiale e l'organizzazione dei teatri e modificano l'assetto dell'ambiente teatrale. La generazione della «regia critica» operò anche a questo livello, non soltanto a quello artistico:' è la generazione dei teatri stabili e, più in generale, quella che cambiò il modo di produrre teatro in Italia. Ma, caso forse unico nella storia del teatro moderno, fu una generazione di individui, non di compagnie: ci furono teste e strutture, ma non organismi teatrali. Questa situazione, che contraddice la natura materiale del teatro, basterebbe a spiegare ciò che è essenziale nella riforma teatrale del dopoguerra italiano: l'altissimo grado di elaborazione critica, le incoerenze, i compromessi continui, la necessità delle amputazioni. Meldolesi ricorda più volte (cfr. per esempio, pp. 177, 253, 289, 340) quanto sia stato decisivo il mancato legame fra i giovani registi e gli attori, e sottolinea la strana lacuna per cui le nuove idee degli autori degli spettacoli non contagiarono gli attori, mutandone la cultura: una lacuna, sia detto fra parentesi, di cui si vedono nuove conseguenze persino nel povero «ritorno all'attore» che caratterizza il teatro degli anni Ottanta. Meldolesi appartiene alla generazione di coloro che sono oggi poco più che quarantenni, coloro che misero piede per la prima volta a teatro quando già la normalizzazione era avvenuta, e che hanno vissuto come un capovolgimento delle loro stesse conoscenze l'esplosione dell'unità del teatro sul finire degli anni Sessanta e nei Settanta. Più che un'età, però, questa zona fra due normalizzazioni (sia pure assai diverse fra loro) diventa un luogo critico da cui osservare con occhio straniato sia le esperienze degli innovatori subito dopo il fascismo, sia le peri_colose tendenze del teatro attuale. Il libro, malgrado l'atteggiamento storiografico severo, è dedicato a coloro che oggi fanno teatro in maniera anomala e sono minacciata dalla tendenza alla normalizzazione. La comprensione lucida delle dinamiche che possono mettersi in moto in tale frangente è uno strumento vitale per chi vuole opporsi alle avverse condizioni esterne e, sopratt"4tto, alle forze autodistruttrici che si liberano nei processi di riadattamento. ~ Ne risulta un paradosso: che c::s proprio ciò che a prima vista sem- -~ brerebbe appartenere al linguag- c:i.. gio specialistico dello storico del ~ °' teatro, gli aspetti più ruvidi e di- ....... staccati del racconto, sono i segna- ~ -e:, li dell'atteggiamento più appassio- E - ~ nato, dello sforzo personale di rion ,u cedere al discorso in prima perso- "' na, di tenersi lontani dai fatti tanto ~ più quanto più essi ci riguardano ~ direttamente, proprio per contra- ~ starli. ;! - c::s
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