Alfabeta - anno VII - n. 76 - settembre 1985

Cfr. Schede Cogolin anno secondo Maurizio Spatola Il Festival internazionale di poesia organizzato dall'Apero/Paca - l'associazione di poeti ed editori di Provenza e Costa Azzurra - ha celebrato il suo nuovo appuntamento incernierandosi su due temi di discussione tanto di estrema attualità quanto ampiamente divaricati sia nella loro valenza astratta che nelle (eventuali) conseguenze concrete. Ripensare a Ezra Pound nel centenario della nascita e approfondire il discorso sul futuro della «poesia in pubblico» - il cui seme è stato gettato il 1° giugno durante Milanopoesia e sull'ultimo numero di Alfabeta con l'intervento-proposta di Jean-Jacques Lebel - difficilmente possono, se non essere ricondotti a una matrice comune, trovar collocazione e sviluppo sullo stesso terreno «storico», linfa e ramificazione lungo lo stesso tronco d'idee progettuali. Eppure i nodi più interessanti, nel viluppo di sensazioni prodotte dalle seconde «Recontres Poétiques» di Cogolin, tra inedite performances e «rituali» ma accattivanti-readings, fra rigide «lezioni» di poesia concreta, mostre didattiche e folcloristiche improvvisazioni (i «Chjama è Rispondi» corsi), si sono rivelati, almeno a giudizio di chi scrive, proprio questi due antitetici momenti: dei quali per altro manca qui lo spazio di dar conto in maniera esaustiva, per cui occorre di necessità limitarsi a qualche breve cenno. Sarebbe in ogni caso improbo misurare in poche righe profondità e ampiezza della spaccatura, emersa nel corso del seminario su Pound, fra coloro che hanno scelto di analizzare asetticamente il «talento» e la «forza» sprigionati dal poeta americano nel suo lavoro di reinvenzione e trasfigurazione dei linguaggi (questa in sintesi la strada percorsa da De Campos, Darras, Roubaud), e chi invece (Gavronsky, Tagliaferri), pur avendo superato certi tabù di segno antifascista divenuti obsoleti, non intende passare sopra al fatto che lo stesso Pound - «fascista americano»? - sosteneva energicamente «il legame fra scrittura e azione secondo i modelli di Malatesta e Mussolini». Ovvero, come ha detto Tagliaferri: «Leggere i suoi testi sì, ma tenendo ben separate la produzione sacralizzata di questo maestro della modernità e la visione del mondo, razzista e antisemita, che nutriva la sua opera». Lo scontro fra le due opposte tendenze è stato anche acceso, sul filo d'una polemica dai toni non sempre propriamente accademici: dibattito perciò non sterile ma vivace e stimolante. Scontro vivace (ma quanto stimolante non si può ancora dire) anche sull'altro versante, quello concernente - nella prospettiva della creazione di .un ente europeo per lo sviluppo dei festival di poesia - proposte e dubbi delle associazioni promotrici del progetto: Milanopoesia, One World Poetry, Polyphonix e la stessa Apero/Paca. Asse dialettico del problema - come è stato detto chiaramente durante il dibattito cui hanno partecipato, con Balestrini, Blaine e Viton dell'Apero!Paca, Lebel di Polyphonix, Bonvin del Festival de Genève, Sassi di Milanopoesia, Ellen Zweig del San Francisco Festival - la natura del «compromesso» in ogni modo costituito dalla istituzionalizzazione di queste manifestazioni, finora caratterizzate più dall'autonomia creativa e di ricerca, dalla «casualità» e dallo spontaneismo, che dall'identità - anche politica - dello «sponsor», istituzione culturale, mecenate privato o ente amministrativo pubblico che sia. Istituire un apposito ente supernazionale pro-festival, accedere a finanziamenti pubblici per la cultura, privilegiare (necessariamente, ma non per questo ambiguamente) taluni rapporti politici ed economici, significa automaticamente rischiare di cadere nelle trappole della cultura «dominante», di restare impaniati nelle sabbie mobili della burocrazia, di far etichettare artisticamente, ideologicamente, politicamente «avanguardie» e «sperimentalismi», indipendenti e autogestiti per antonomasia? Cogolin '85 non ha risolto il dilemma. Ha però chiarito lo spessore del distacco - non incolmabile per altro - fra chi ritiene questo passo inevitabile (pena la sopravvivenza stessa dei festival di poesia) e comunque positivo, e chi tentenna o vi_si oppone decisamente, temendo conseguenze disastrose, prevedendo ingabbiamenti e imbavagliamenti, intravedendo magari il crollo d'un sogno nato con Dada. La discussione resta aperta. E veniamo alle «Rencontres» cogoliniane fuor di tavole rotonde (e diatribe). Gli organizzatori - Julien Blaine di Doc(k)s, Liliane Giraudon e Jean-Jacques Viton di Banana Split, Françoise Ferrari di Skoria, Nanni Balestrini di Manicle - hanno avuto buon gioco nel ripetere, cambiando i protagonisti, lo schema dell'84; il successo precedente l'imponeva. Così i poeti sono stati presentati, nelle matinées e soirées fra il 6 e il 12 luglio, secondo le due logiche prevalenti già l'anno scorso: il filonebase delle singole riviste aderenti ali'Apero/Paca e l'identità nazionale. Nel secondo caso, l'invito è toccato quest'anno a spagnoli, greci, marocchini,· austnac1 (i «concreti» di Vienna), francesi, corsi. Di spicco le presenze, in questo settore, di Nanos Valaoritis, Mando Aravantinou, Heinz Gappmayr (introdotto forse un po' troppo didatticamente da lise Garnier), Fernando Millan, con Jean Monod e Bruno Montels piacevoli sorprese. Unica vera, avvertibile caduta, quella degli africani, solo due sui cinque attesi però: Loakira e Hirmich hanno fatto rimpiangere i virtuosismi '84 del tunisino Meddeb, provocando precoce affollamento al bar del Coq Hotel. Tra i protagonisti degli appuntamenti pomeridiani invece - caso a parte la presenza «storica» di Gherasim Luca, come l'anno prima quella di Haroldo De Campos, accolto come un profeta -, hanno lasciato il segno l'americano Gregory Berglund con le sue litanie cadenzate di origine pellerossa (ma anche per la sua incredibile storia di ex controllore nucleare in una base missilistica, considerato schizofrenico e rinchiuso in manicomio perché «incapace» di premere il «bottone rosso» durante un'esercitazione); e il performer Paul Zelemansky, il solito, ineffabile Tom Raworth, gli italiani Corrado Costa ed Eugenio Miccini, Serge Pey ecc. Le riviste, infine, anche loro spettacolarizzate: D'Atelier, Tribu, Baobab, Ecbolade, Tartalecreme, Txt, Land e .altre. I loro autori-editori hanno preso parte inoltre al secondo seminario in programma, sui mezzi poveri di riproduzione della poesia (riguardanti le tecniche della polaroid, della fotocopia, del ciclostile), insieme con Balestrini, Blaine, Giraudon, Viton e Adriano Spatola di Tam Tam, quest'anno tarpato del suo classico «Aviation Aviateur». Ancora una volta una grande, fruttifera marmellata, insomma, patrocinatore un sindaco, quello di Cogolin, dal nome ch'è tutto un programma, per un poeta fonetico: Patrick Glo. Rencontres intemationales de poésie de Cogolin seconda edizione Cogolin, 6-12 luglio 1985 La materia del cantore Carmela Fratantonio Il compito del poeta, sembra affermare Mario Grasso con l'insieme della sua opera, è quello del cantore - dell'aspro presente, del futuro impensabile, del passato che fluisce all'eterno. Se, nei Guerrieri di Riace e nel suo seguito, Concabala ( che uscirà in autunno presso Scheiwiller), la misura è quella dell'infinito, del mare, del poema, in queste Lettere a Lory la misura è dei giorni (sia pure datati astrologicamente!), dei luoghi, delle briciole. In quanto cantore che si adegua alla materia da cantare, anche in questa raccolta Grasso non esclude nessun tono, nessun accento, sicché l'effetto complessivo risulta piacevolmente dissonante. Dal corruccio all'elegia, dal rancore alla generosità, dall'indignazione all'addoloramento, vengono saggiate, con estrema duttilità, molte corde, molti registri espressivi, molte soluzioni metriche: dalle più chiuse e tradizionali come il sonetto a quelle vagamente barbare, dalle canzoni che più-libere-di-così-non-si-può a quelle falsamente composte nella rima, da componimenti lunghi e tornanti a quelli brevi e rappresi. Nonostante la varietà e la divisione in sezioni fortemente carat- .. terizzate, il libro è da leggere nella sua unità di fondo. Tra il mondo degradato della prima sezione, che tocca i punti infetti dell'attualità, e il mondo sensitivo dell'ultima, tra la vena civile e la propensione erotica, non esiste una differenza abissale: la tensione preoccupata per le nuove generazioni trova il suo oggetto (e quindi la sua requie) nel nome femminile che le incarna, Lory. Incise da una mano anonima su una balaustrata, queste due sillabe diventano sigillo verso cui convergono sillabe altrimenti disperse, il segno del durevole contro il transitorio così frequentemente richiamato (tufo, plastilina, farina, argilla... ). Dietro di esse si accenna, a volte, a una paternità impossibile fin dalla prima parola del testo, Co-0 ·, miso. «Le rampe della mia adolescenza erano saHte ripide», afferma l'autore, contro .9ueste_precipitazioni di senso verso un uso militaristico e distruttivo, il poeta oppone la veemenza dei propri mutamenti di senso verso il ricongiungimento e la pienezza. Così, dietro il nome-senhal si profila una presenza salvifica e una splendida definizione di poesia come «sciarada / scritta e risolta con la mia carezza». Mario Grasso Lettere a Lory Caltanissetta-Roma, Sciascia, 1984 pp. 191, lire 16.000 Cfr. Mostre d'arte Bonito Oliva capocannoniere Marco Meneguzzo È normale che si parli di Genazzano - la mostra è però «Nuove trame dell'arte» - soprattutto in relazione ad altre mostre sugli anni Ottanta (vedi quelle padane di Caroli e Barilli), e di come A.B.O. abbia battuto in volata i suoi più cattedratici rivali: all'arte infatti - e ciò si dice con disincantata rassegnazione - si è sostituito il suo sistema, che ora prende anche il sopravvento nel dibattito culturale, complici tutti, dai mass media (non si può non parlare di queste manifestazioni, come non si può non andare a vedere Guerre stellari) agli stessi artisti (non trovo più un giovane artista disposto a parlare del lavoro, ma tutti, con l'entusiasmo del neofita, sanno tutto di marketing). Genazzano allora è un'operazione riuscita, rinnova i fasti de «Le stanze» di sei anni fa (consacrazione ufficiale della Transavanguardia, con la paternità dei Poveristi), coagula un milieu culturale ai Castelli, rilancia - se ce ne fosse bisogno - la figura del critico come artista (A.B.O. è come Paolo Rossi: rapina i gol, ma è capocannoniere), ci consola del nuovo che non si vede con l'usato sicuro. Piuttosto fa specie, nel testo di Bonito Oliva, la voglia di differenziare gli artisti secondo un Genius foci nazionale - che in molti casi esiste - e di rilevarne la più meditata attenzione verso il passato prossimo delle avanguardie e delle transavanguardie, quasi a costruire una nuova storia della pittura (anni di nomadismo culturale alla fine stancano, e la storia è sempre consolatoria e consacratoria) che parta dall'anno zero della Transavanguardia: ma, così facendo, si reinstaura il meccanismo del superamento, dell'avanguardia, e pare abbandonarsi quell'orizzontalità di esperienze che aveva decretato la fine di ciò che A.B.O. stesso aveva definito «darwinismo linguistico». Le «Nuove trame dell'arte» assomigliano così a una sorta di restaurazione, talora epigonica ta- .lora approssimativa, di un'idea di mestiere - non del mestiere stesso -, con una forte ingerenza, bisogna dirlo, di alcune gallerie che hanno monopolizzato la rassegna. E i sessantadue artisti? Un lussuoso catalogo Electa fornisce due riproduzioni a testa. Nuove trame dell'arte a c. di Achille Bonito Oliva Castello di Genazzano Un furioso disegnatore Marco Meneguzzo Il disegno, per un artista portato alla teatralizzazione come Eliseo Mattiacci, dovrebbe a rigore svolgere la sua onesta funzione di 'design' - di progetto, cioè - e non di 'drawing' vero e proprio. Fortunatamente non è così. Anzi, nulla vieta che sia proprio l'opera realizzata (ma non è anche questo disegno una realizzazione?) a suggerire il suo fantasma cartaceo. Suggerire è il verbo di suggerimento, ma non è molto lontano da suggestione, e è proprio la suggestione che fa di queste carte qualcosa di più importante di un progetto e, talora, della cosiddetta opera. Mattiacci, si direbbe, è un disegnatore eclettico. Il suo segno è veloce, disinvolto sin quasi al disinteresse, brutàle - apparentemente - come una didascalia: solo che, a ben vedere, non di didascalie si tratta, ma piuttosto di aforismi. Ecco la suggestione ... Il disegno lascia spazio alla fantasia. Più spazio. Ma non per la banale questione delle possibilità della pittura rispetto alla realtà degli oggetti, quanto piuttosto perché il segno di Mattiacci riesce sempre a giocare tra il dentro della rappresentazione e il fuori della presentazione, tra l'oggetto e la sua trasfigurazione attraverso il gesto lasciato sulla carta. Si stabiliscono così singolari analogie tra gli oggetti, grazie alla realtà unificante del segno, che ne evidenzia gli andamenti dinamici, e ne costruisce così segreti percorsi mentali, quasi un diario non intimo. Per questo, il disegno di Mattiacci - furioso disegnatore, tra gli artisti della sua generazione e della sua area - va visto riempiendosi gli occhi, cercando voracemente di capirne (alla latina) più di quanto lo sguardo non possa contenerne: vagare tra le analogie di forma, come in uno spartito moderno, a lettura libera ma dotato di strutture interne diverse dalla diacronia. Al contrario dei suoi lavori ambientati, dove l'accento critico e l'evocazione emotiva sono posti nelle straordinarie capacità di assemblaggio di materiali e di vicinanze quasi metafisiche di oggetti, nei disegni - può sembrare paradossale - si crea lo spazio mentale, il luogo di questi avvenimenti: «Vuoto» è una grande carta del 1985, dove il luogo dell'atto estetiC.O avviene fuori del foglio, che raccoglie soltanto le frange - reali e metaforiche - di questo pensiero, ribaltando così, con straordinaria intuizione, il concetto stesso di disegno. Eliseo Mattiacci: Frammenti di totalità disegnate Casa del Machiavelli Sant' Andrea in Percussina • \O ...... \::i s::: -~ Cl.. ~ °' ...... ~ -e E ~ ~ "' ~ i:! .s ~ -e ;g, \::i

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