Alfabeta - anno VII - n. 74/75 - lug./ago. 1985

demiche - Wittgenstein era tremendamente esigente con le poche persone che riusciva a sopportare, come dicono di uno in Inghilterra che è demanding. Non lo faceva per ostilità o per pedanteria - e qui il tono di G. allontanandosi dalle aule ritornò ad essere quello di prima - no, non per quello, ma perché probabilmente doveva parlare dall'ombra del segreto della sua natura che un difetto di coraggio gli impediva di penetrare. «E quando morì nella primavera del 1951, lui era ancora dove era stato nel 1937, quando aveva fatto leggere ad alcuni amici fidati la sua confessione; era ancora dove era nel 1931, quando aveva manifestato il suo bisogno di fare una confessione; era ancora dove era stato nel 1914 sotto le granate dei russi senza dormire per trenta ore di seguito. «E ti potrei dire che era ancora dove era il 28 maggio 1913 quando aveva litigato in maniera che dire veemente è ancora troppo poco con Bertrand Russell, il suo ex maestro, che gli aveva mostrato il dattiloscritto del suo libro sulla teoria della conoscenza che non avrebbe poi pubblicato, a causa delle obiezioni di Wittgenstein che egli non era del resto nemmeno riuscito a capire. Russell era sconvolto e per uscire dallo sconforto aveva scritto una lettera a una sua amica, Lady Ottoline Morrell: 'lo posso andare avanti solo con quello che vedo, ma se lo pubblico, lui, Wittgenstein dirà che sono un furfante. Bene, bene - aveva aggiunto in un poscritto - è la nuova generazione che batte alla porta e io devo farle posto. Ma oramai è diventato un incubo per me'». «Parricidio!», esclamò Sandro. «E accidenti che onestà intellettuale da parte di Russell che dopotutto non era nemmeno riuscito a capire sino in fondo le obiezioni di Wittgenstein. Se pensi che al giorno d'oggi uno legge e poi va subito a scrivere, come quelli che avendo un cattivo assorbimento intestinale subito dopo aver mangiato devono corr_ereal gabinetto!» «Dobbiamo credere - osservò G. - che quando Russell scrisse che Wittgenstein si era espresso in maniera confusa, come se facesse fatica a trovare le parole, egli abbia detto la verità e che non abbia nemmeno avuto una falsa impressione. Ora, io credo che Wittgenstein si fosse espresso in maniera confusa proprio perché parlava dal centro della sua natura che gli era ignota. Per vigliaccheria, come lui stesso diceva. E a questo punto, se ritorniamo allo scontro tra lui e Russell, verrebbe da pensare che questa natura oscura sia stata più potente della chiarezza della ragione dispiegata e di qualsiasi argomentazione. Del resto questo spiega come mai nella vita a un certo punto la risoluzione prevalga sull'argomentazione. Mi ha sempre colpito come due o più persone parlino e discutano, seguano vicendevolmente il filo del loro ragionamento, e poi alla fine decidano come se si fossero parlati in un altro mondo diverso da quello in cui stanno. E, se mi lasci fare un po' di letteratura, ti direi che quella volta fu" la tenebra che era dentro Wittgenstein a parlare, come il tuono di un temporale lontano. «E così - concluse G. - la tenebra annidata in ciascun uomo può invalidare il sistema di idee chiare di un altro, e se poi in particolare il mistero della propria natura ha l'occasione di incontrare la lealtà di un uomo il quale peraltro si accontenta della sua luce intellettuale, ecco che allora un libro non verrà mai pubblicato. Quello di Russell non lo è ancora stato, nemmeno ora». G. stava pensando che c'era sempre stato per quell'uomo qualcosa che ogni volta veniva prima di quello che era detto o scritto, ed era stato tutto il suo tormento. «Ma oltre a quello che mi hai raccontato, che vita faceva?», domandò Sandro. «Te l'ho detto, pensava, scriveva, poi spariva, e quindi tornava». «E quando tornava?» «Quando tornava, aveva cambiato ogni volta mestiere. Non riteneva che si potesse fare dell'altro a questo mondo; che bisognava pensare, e poi una volta pensato qualcosa, che bisognasse partire. E che se si partiva si partiva non per fare un viaggio, ma per fare un altro mestiere. Forse così pensa uno che passa la vita a cercarsi». «E l'amore?» «Niente». «Neanche una donna?» «Zero». «Ma ha fatto capire in qualche modo il suo atteggiamento su queste cose?» «Oh, sì, due cose importantissime!», rispose G., che aveva l'impressione di scoprirlo mentre lo diceva incalzato dalla domanda di Sandro. «E allora, dimmele!», disse Sandro aspettandosi un nuovo piacere. «Una volta - cominciò a riferire G. -, mentre si trovava in un campo di prigionia in Italia, urr altro soldato, austriaco come lui che lo andava a cercare spesso, lo aveva preso a braccetto. E Wittgenstein gli aveva detto: 'La prego di non venirmi più a cercare, perché quando parlo con Lei ho come l'impressione di parlare con mia madre'». «Uhm - fece Sandro -, e l'altra cosa? Dicevi che erano due». Prima di rispondere, G. continuò a pensare a quel campo di prigionia immerso nella luce del caldo giallastra di Cassino. Una cosa così poco austriaca. E poi subentrò l'immagine di una cittadina inglese, con gli alberi, le case, i prati, ciascuna cosa ben distinta e separata da ogni altra, come vuole la chiarezza di quel paese in cui uno ha sempre l'impressione, perlomeno se non ci è nato, di essere un eterno alunno delle scuole eleGiancarlo Schiaffini mentari. «L'altra cosa avvenne in Inghilterra. A uno che era stato un suo studente, e che gli annunciava la sua intenzione di sposarsi, Wittgenstein aveva detto: 'Non ha già guai abbastanza, per cercarsene degli altri?' Ma poi qualche giorno dopo gli aveva mandato un biglietto, in un paese del Surrey: 'La prego, non pensi dopo quello che Le ho detto l'altro giorno che io sia una vecchia zitella'. «Come vedi - continuò G. - se uno non viene a capo della propria natura o la cerca senza trovarla per mancanza di coraggio, ebbene quest'uomo, che si tormenta ma Angelo Bissolotti continua nondimeno a sentirsi un vigliacco, sarà sempre un intransigente con i suoi simili. Del resto è da questa disperazione che vengono fuori i criminali, i quali vogliono in fondo una cosa molto semplice, vogliono il nulla, che non ci sia più nulla. Che ci sia magari una piazza, ma che nessuno la attraversi. Basta una persona che in una sera d'estate la attraversi ad eccitarli inverosimilmente o ad abbatterli». «Mi viene in mente - disse Sandro - quel medico francese nel dopoguerra che aveva ucciso una ventina dei suoi pazienti, uno dopo l'altro nello studio dove li riceveva». «E quale era stato il movente?» «Beh, veramente non lo so, ma me lo hai fatto venire in mente tu - continuò Sandro - perché quando ci fu il processo, al giudice che gli chiedeva degli schiarimenti sul movente dei suoi omicidi, il medico aveva risposto semplicemente: 'Disperazione, Vostro Onore, disperazione'». S i era fatto tardi, e dalle finestre della sala si vedevano le case, gli alberi e i lampioni abbandonati a se stessi, come se una nuova guerra avesse fatto un'altra grande operazione di sgombero del pianeta. «Bisogna che vada - disse Sandro alzandosi -, ti lascio una sigaretta, sei rimasto senza». Poi giuocando a fare il precettore sentenzioso disse maliziosamente: «Un giorno lo scriverai quello che mi hai raccontato e allora lo leggeremo!» «Chissà, forse un giorno mi metterò a scrivere ogni cosa, ma sarà come cambiare vita» rispose G. accompagnandolo alla porta. Quando il suo amico fu uscito, G. si fermò davanti alla finestra. Era solo, sua moglie e i ragazzi erano partiti e su di lui si era raccolto un tempo raro e immenso. Poi rimase appoggiato a guardare alla finestra; anche se non pioveva e non nevicava, c'era sempre qualcosa che scendeva su quella piazza, lentamente, senza peso, una scia che stava a mezzo tra la luce e la voce, ininterrottamente. G. continuò a pensare a Wittgenstein; l'aveva letto per anni e ci aveva scritto sopra libri e articoli. Ma ebbe l'impressione di non averlo mai pensato o che comunque cominciava solo adesso a pensarlo. Come se avesse il coraggio per la prima volta di pensarlo in maniera libera e disorganizzata. Wittgenstein avrebbe subìto, in altre paroié,11 destino che per una volta G. gli avrebbe impresso affrontandolo dal punto di vista di una libertà anarchica, nella quale per una volta G. intendeva non rispondere ad altri che a se stesso. Ora, Wittgenstein aveva scritto per trent'anni il medesimo libro, affermando cose diverse, ricominciando sempre daccapo, correggendosi, continuandolo a chiamare «mein Buch», il mio libro. Ma poi del resto Wittgenstein stesso l'aveva confessato, che lui non voleva sostenere alcuna tesi. Come fa del resto a sostenerne qualcuna chi ha il problema di accertare la propria natura? E così Wittgenstein aveva continuato a scrivere e a riscrivere l'enigma di sé. Aveva scritto montagne di fogli, affermando cose diverse, ma finendo sempre per precipitare in un centro di sé, al quale peraltro aspirava, ma -che non gli riusciva di dire. Aveva passato l'esistenza a camminare intorno a quel centro, aveva tentato di irrompervi dentro, e al tempo stesso aveva costruito un mucchio di dottrine differenti l'una dall'altra per diffidare chiunque dal volerci entrare. Questo era andato sotto il titolo della condotta della saggezza. Peraltro lui stesso, contraddicendosi - ma ha importanza? - aveva ammesso che la saggezza è «una cosa fredda e insipida». Aveva fatto filosofia, logica e matematica per diffidare chiunque dal voler entrare in quel centro che è prima di ogni inizio, quello che lui aveva chiamato «il grido primitivo». Ma dietro ad ogni analisi, ad ogni proposizione che scriveva, rispuntava sempre lo stesso spettro di quel centro della sua vita. La vigliaccheria della sua natura, come egli la chiamava, si era attorcigliata al suo pensiero come un parassita si attacca a una pianta. «Io sono infinitamente vigliacco», aveva confessato Wittgenstein una volta e così non aveva mai saputo come il linguaggio si riferisca al mondo e alla vita. Mancava il punto di contatto, ma da questo discendevano tutte le sue conseguenze, proprio il tutto di ogni cosa. Poi, com'era inevitabile, G. scivolò su delle immagini che non riguardavano più Wittgenstein, né la logica, né la scienza, né la matematica, e cioè i suoi oggetti professionali. E non fu certo senza sentimento di colpa che G. si mise a pensare le immagini della propria vita che non si prestano a diventare oggetti di una professione e nemmeno di un'escussione concettuale rigorosa. Ed era per questo che quelle immagini le pensava già con la nostalgia che si porta verso le cose che sono in sé innocenti, ma che vengono specchiate dalla colpa, e che nondimeno avrebbero potuto essere, avranno potuto essere, saranno state la propria felicità. G. ricordava e si ripeteva quello che il mondo, le situazioni della vita gli avevano detto e contemporaneamente gli avevano fatto capire che non si può dire, o che non si deve dire. Come se le strade di Londra o di New York gli avessero detto: «Sì, in realtà io sono proprio tutto quello che tu vedi e credi, ma per tutto quanto c'è di più vero in quello che tu vedi di me, scordami». Ma G. era solo, non doveva certo fare lezione di notte, né comunque l'indomani, e poi la famiglia

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