Alfabeta - anno VII - n. 74/75 - lug./ago. 1985

come la Tosca di Puccini, alla quale si crede per metà e bisogna far finta di niente su tutto il resto; ma nella Tosca lei e Mario Cavaradossi muoiono, nonostante tutto, in maniera normale, quasi prevedibile, in accordo con le norme e le condizioni che tutti si aspettano. Invece l'eroe coperto,, colui che aspira alla narrazione è. Scarpia, sì, proprio lui, il prefetto di polizia, che per passione dimentica 'Iddio', ed è l'unico in tutta la vicenda a correre l'i~previsto. In fondo, quelli per i quali il pubblico parteggia, Tosca e Cavaradossi, sono degli attori esterni della vicenda, lo sfondo normale e ben protetto di essa». «L'unico?», domandò incredulo Sandro, ma sempre divertito. «L'unico che percepisce gli accadimenti dall'interno. In fondo, Scarpia è dalla parte dei deboli per via della passione, perché - ammesso che in questa vita nessuno ha più sicurezza di un altro, come la fine di Scarpia ampiamente dimostra - egli è nondimeno colui che ha l'intenzione proibita dentro di sé, che vuol dire di sé e della sua passione travolgente, un dramma anche per lui che è uno sbirro ma che è uno sbirro il quale ha qualche problema a dimenticare Dio, e per questo si prende una coltellata. Dunque - concluse G. - anche Scarpia è una vittima della narrazione mancata». G. pensava di non saper propriamente raccontare. «Il mondo è grande, così vasto da creare una difficoltà - egli continuò - e paradossalmente con questa formula sembra che lo si possa raccogliere in mano come un oggetto. La crudeltà del mondo, al giorno d'oggi, si mostra nella circostanza che gli autori che in passato hanno raccontato e narrato non sono di aiuto. Poi, a complicare tutto, si è aggiunta nel frattempo l'idea che non ci sia più nulla da raccontare». G., che aveva parlato camminando avanti e indietro, si era seduto. Era quello stadio intermedio della conversazione in cui sopraggiunge una pausa a metà del cammino verso la notte. G da bambino, grazie a certi conoscenti di suo pa- • dre, aveva assistito dietro le quinte all'esecuzione di alcuni melodrammi; allora gli era sembrato che Scarpia o la Traviata, uscendo di scena, si portassero dietro la loro passione e il loro destino nel camerino dove andavano a cambiarsi e a struccarsi. Molti anni dopo il più piccolo dei suoi figli aveva fatto la comparsa nella Tosca, il chierichetto. E lui di nuovo lì, dietro le quinte, tra riflettori, cantanti, tecnici, operai, macchinisti, aveva visto suo figlio tutto vestito di rosso. «Com'è lineare la condotta della vita» aveva pensato adesso, e si era sentito capace di amare tutto e tutti e di poter rinunciare a qualsiasi cosa, come avviene quando per una particolare congiuntura ci si trova dentro cose grandi e lontane. Nel pullman che li riconduceva a casa, G. si era sentito soddisfatto perché aveva ricevuto la propria narrazione. Poi, per effetto di una risoluzione ulteriore, G. cominciò a spiegare a Sandro che forse lo interessava maggiormente l'antefatto della narrazione che non la stessa narrazione, se non altro come traccia e spia della difficoltà della narrazione. Come può colpire in generale l'antefatto che prepara una cosa, più che non la cosa stessa. Come può colpire maggiormente la coordinazione e la contrazione dei muscoli di un cavallo prima di spiccare il salto, che non il salto. «No, in questo senso non è il salto che mi interessa» disse G. scoprendo il suo paradossale cammino verso la narrazione, e a questo punto poté confessare a Sandro che proprio per questo riteneva di non essere un intellettuale, di non essere un professionista. «Diciamo così - esordì G. - che l'antefatto o il preannuncio della narrazione mi sono più accessibili. Del resto, chi bada più alle conclusioni del testo di Cartesio? Ma chi può, invece, dimenticare il suo primo gesto, e cioè Cartesio al lume della candela che si accinge a rimuovere e a dimettere tutto quello che ha preso come vero fino allora e che avverte per la prima volta la propria voce interna éhe gli sussurra: 'Penso, quindi sono'?» Invece, il resto delle sue meditazioni aveva finito per confondersi con i bagliori e i clamori della Guerra dei Trent'anni. E per questo, non c'era stato nemmeno più bisogno di una candela. «Eccellente!» rideva Sandro e gli aveva offerto un'altra sigaretta per incoraggiarlo a dire dell'altro. Ma G., fermo all'antefatto della narrazione, non conosceva la tecnica e la procedura del raccontare; ad ogni passo era esposto al pericolo di cadere in qualche trappola. Dappertutto c'erano trappole disposte dagli stessi scrittori; non l'avevano fatto apposta. La difficoltà dipendeva dalla circostanza che era soltanto la loro vita o relitti della loro vita quello che avevano lasciato. E i successori tendevano a riattaccarvisi; come se fosse più facile per loro vivere la vita di qualche scrittore passato che non la propria; cosa che peraltro in un certo senso è anche vera. Ma è certo che la narrazione, che non sia simbiosi o una forma di vita parassitaria, comincia invece dall'incomprensione e poi dalla deliberata trasgressione nei confronti delle generazioni precedenti. E lui, G., al quale mancava la tecnica della narrazione, era però entrato negli antefatti della narrazione: era stato dietro le quinte dei teatri dove venivano eseguiti il Rigoletto o la Traviata (in cui nel duetto del quarto atto il tenore baciava il soprano; a proposito, era proprio necessario baciarla così, in quel modo?); e successivamente aveva deciso di fare l'assistente universitario perché in un pomeriggio d'estate si era trovato stranamente solo in un Istituto di Filosofia e in quelle sale decorate di stucchi e deserte un'immagine seducente si era impadronita di lui. Prendeva chiaramente una cosa per l'altra, come può fare· chi, pur non essendo un bambino o essendo destinato a esserlo per tutta la vita, si trova sempre al principio di ogni cosa, in quella sorta di inabilità che consente la trasmutazione di ogni cosa in qualsiasi altra. Quel pomeriggio, quelle sale .stuccate e deserte avevano evocato figure e piaceri inattesi. Il principio della narrazione consisteva nel prendere una cosa per l'altra. Il senso di questo peculiare processo consisteva nella circostanza che G. con tutta la sua intelligenza e con tutta la sua volontà si muoveva in una certa direzione prestabilita e poi fatalmente gli arrivava qualcosa da una direzione diversa, completamente differente. E questo faceva parte del principio della narrazione il quale, senza che G. ancora o mai lo sapesse, intanto stava già scrivendo la sua vita. Esisteva una scrittura che si andava componendo senza il suo autore. Che esistesse una scrittura che si andava componendo senza che G. ... lo sapesse o ne fosse l'autore, questo è comunque certo che fosse tutta la verità della sua vita. «Il principio della narrazione, il suo antefatto per chi a scrivere non ha nemmeno cominciato - ricominciò a dire G. a Sandro - consiste nella peculiare circostanza per cui uno si fissa degli scopi ordinari e consueti e poi finisce per ricevere e vivere di fatto un'altra ·storia. E quel principio finisce per segnare il destino di una persona perché, per quanto egli faccia e per quanto nasconda davanti a se stesso l'evidenza, alla fine egli scopre che ha vissuto un'altra storia la quale ha un significato diverso da quello che egli si prefiggeva o si aspettava comunque di vivere; e tutto questo accade in una persona se in lei governa il principio della narrazione. Per una persona così, come io credo di essere - concluse G. - allora ogni cosa può essere messa in conflitto con la propria origine, e anche questo è ancora il segreto della narrazione». «Ora capisco - esclamò Sandro - perché al principio dicevi che ogni cosa viene da lontano; io pensavo più esattamente che tu volessi dire che ogni cosa si trova in uno C.C.C.P. strano rapporto con tutte le distanze che la circondano. Che come una voce richiama una eco infinita di altre voci, un posto è sempre qualcosa di vicino sullo sfondo delle sue lontananze». «Se il principio della narrazione fosse qualcosa come un destino - continuò G. - allora per chi è segnato dal principio della narrazione ogni atto finisce per avere un significato diverso da quello che ordinariamente dovrebbe avere. Per scrivere bisogna essere dei disadatti, dei misfits; non so se sia anche per questo che dopo aver scritto qualcosa si prova una particolare sensazione di debolezza e di povertà». Sandro era interessato a quella idea che in tutta la faccenda dello scrivere uno non riconoscesse più la sua vita e finisse per non esistere nemmeno più. «Beh sì, certo, perché ci si ritrova, formalmente parlando, sempre di fronte alla medesima situazione; qualcosa si muove da lontano per andare, quando vi riesce, verso qualcosa di lontàno là davanti e in mezzo sta un uomo che deve prendere una incredibile decisione. Ciò che sconcerta è che la situazione somiglia al raggiungimento di uno scopo, e invece non ha proprio nulla a che vedere con il conseguimento di uno scopo. È impossibile in qualche momento della vita evitare quella decisione; si possono mettere sù tutte le strategie, tutti gli esorcismi che vuoi, ma alla fine l'ombra della narrazione finisce per prevalere, perché viene un momento, una sera, a me di solito nel tardo pomeriggio, se proprio deve accadere, in cui devi riconoscere che la tua storia è stata ancora una volta diversa da quella che tu per qualche ragione volevi credere. Se mi passi l'espressione, è come essere già scritti prima ancora di scrivere». «Verrebbe da pensare in base a quello che hai detto che al mondo ci siano molti più scrittori potenziali di quanto si creda» osservò Sandro, che ormai ci aveva preso gusto. «Ed è proprio così - aggiunse G.-, non ci sono ingegneri potenziali o dentisti potenziali, ma esiste un mucchio di persone che vivono la loro vita ordinaria e accanto a essa sono anche gli attori di una seconda storia, che è come un'ombra che racchiude dei mondi possibili che, malgrado non esistano, costituiscono proprio ciò che ciascuno di loro effettivamente è. Sono tutti coloro che vivono segnati dal principio o dal destino, se vogliamo usare questa parola, della narrazione. Si potrebbe perfino dire che non hanno nemmeno bisogno di esistere, perché ad essi basta la loro ombra». G aveva studiato per una vita le opere di Wittgen- • stein. Ma quella sera per una volta lui ebbe il coraggio di considerarle in maniera diversa da quella usuale. Naturalmente gli sembrava di commettere una trasgressione, ma in lui l'immagine era sopraggiunta da sé proprio in quel momento che l'intera opera di Wittgenstein - che come tutti sanno tratta di filosofia, di logica e di matematica - fosse stata uno sforzo incessante di tenere a bada un'onda oscura della vita che non aveva mai smesso di incalzarlo come una corrente che cercava di incendiare tutti i suoi pensieri. Wittgenstein l'aveva tenuta sotto controllo chiamandola «l'indicibile», «l'ineffabile», I' Unsagbare. Lui, in sostanza, aveva respinto tutto quello che un individuo può umanamente respingere: aveva respinto la civiltà contemporanea, il sesso, il successo; si era trasformato in un eremita, ma nemmeno quando era stato più lontano dagli altri uomini aveva mai smesso di pensare a quella belva che stava acquattata in lui, così come in linea di principio in ogni uomo, e che poi nell'arte, nella letteratura, nella filosofia appare fuori come un animale addomesticato. Era una penosa trasgressione per G. pensare Wittgenstein in questa maniera e si accompagnava a quella specifica sensazione di colpa che si ha tutte le volte che si concepisce la verità non come un oggetto ben ritagliato, ma come un sospetto, o semplicemente un senso o un alone diffuso. E il passo successivo fu quello di considerare che la sua trasgressione consisteva nel riconoscere la trasgressione di Wittgenstein e di rimetterla al centro della vita di lui. «Devi sapere una cosa - disse G. rivolgendosi di nuovo a Sandro - devi sapere che nel 1931 Wittgenstein era andato da un suo scolaro, un certo Drury, e gli aveva detto con un senso di urgenza e di agitazione che aveva scritto un Gestiindnis, una confessione. Wittgenstein glielo aveva detto come di solito lui diceva le cose, come se ogni volta fosse l'ultima e quella definitiva. 'Un uomo deve sapere che razza di uomo è prima di fare qualsiasi cosa' aveva detto a Drury, e nei medesimi giorni aveva scritto a Bertrand Russell: 'Come potrei essere un logico, un matematico, se prima non so che uomo sono?' E proprio per questo, per il fatto di non avere il coraggio di volerlo sapere, Wittgenstein aveya detto una vqlta ai suoi amici: 'Io sono infinitamente vigliacco', 'Ich bin unendlich feig'». «Ma poi il filosofo, il logico, il matematico lo ha fatto! E come se lo ha fatto!» osservò Sandro. «Appunto per questo si era sentito un vigliacco. Perché via via che faceva filosofia e Iogicà, un occhio retrostante in lui gli mostrava che non erano l'intelligenza e l'abilità ciò che gli mancava, ma il coraggio di riconoscere la propria natura. Ed era tutta la sua vigliaccheria». «Scusa - lo interruppe Sandro - ma lui come si è comportato nella sua vita?» «Oh, quanto a questo molto coraggiosamente. Per mettersi alla prova, si era arruolato volontario durante la prima guerra mondiale e si era fatto spedire in prima linea sul fronte orientale; una volta trenta ore di seguito sotto le granate dei russi che sembrava che non la volessero smettere più. Ma a rassicurarlo non erano bastati né gli encomi, né per un altro verso le sue idee nuove, per alcuni addirittura sconvolgenti, sulla logica e sulla matematica. E poi - concluse G. - chi può dire se egli abbia rivolto il coraggio nella direzione giusta, voglio dire, dove esisteva effettivamente la difficoltà?» Sandro fece a questo punto un lungo sorriso di simpatia e di intelligenza. «Wittgenstein visse come un frate - riprese G. - in una semplicità limpida come un volto appena lavato. Del resto, sembra che avesse sempre la faccia come se fosse appena lavata, e non doveva essere soltanto una questione di igiene. Nella stanzetta dove lavorava, per lo più mangiava pane, burro e un po' di cacao. Si preparava la cioccolata in una pentola, e siccome non la scrostava mai, alla fine i residui raggiungevano l'orlo della pentola e allora non c'era più spazio per fare la cioccolata. «Quanto ai rapporti personali - e qui G. sentì che cominciava involontariamente a sdottrinare come gli succedeva nelle aule acca-

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