stravolto dallo sfinimento, mi parvero enormi: ombre indistinte di due giganti. Eretti, immobili, uno davanti all'altro, guardavano in silenzio nell'orizzonte informe della nebbia. Un cappello rosso baluginava al buio sul loro capo. Come avevano fatto a precedermi e ad esser già lassù? Mi sentii agghiacciare. Provai a chiamarli, ma la voce si soffocò in un rantolo affannato. Pensai che forse, durante la salita, io avevo deviato senza accorgermene per un più lungo percorso laterale, così che loro erano giunti prima di me al passaggio innevato e poi su quella cresta. Supposi allora che Adeline fosse insieme a loro, e ansando selvaggiamente ripresi la scalata. Quando giunsi in cima alla cresta, non trovai nessuno; scorsi soltanto, nella caligine che abbrunava, le luci accese del rifugio: la notte fra non molto avrebbe impigliato ogni mio passo. Mentre ero ancora fermo sulla cresta, ecco che dal fondo, dal passaggio innevato, si levò un grido acuto che mi parve di Adeline. Tornai indietro a precipizio, scorsi la donna raggomitolata su una cengia, poco sopra il passaggio maledetto. Teneva in grembo il cacatua. Ninman tremava, aveva le piume velate da un altro, non suo, biancore: quello della neve. Levò a noi dal grembo il suo occhio desolato e nero, poi, con mio raccapriccio, sbottò in uno e in un altro colpo di tosse cavernosa: sputò, scatarrò, sembrava di udire il gorgoglio laido di un dito che rimesta dentro al fango. Infine, di botto, smise di rugliare, e con una voce da basso profondo pronunciò una frase: «Oh-krah-tih!. .. » «Ohkrah-tih !» ripeté, quasi volesse imprimerla in un libro a venire, in ogni libro: nell'udire quella frase, giunta dalla Melanesia e dal suo inferno, pensai per un momento che la letteratura non sarebbe morta mai, ma che il motivo della sua immortalità dipendeva da qualcosa di mostruoso ... Un istante dopo Ninman si intirizzì e restò stecchito fra le braccia di Adeline: la donna se l'era visto venir su in volo dalla tenebra offuscata della gola, per poi crollare nella neve di fianco a lei che si stava arrampicando ... Ma dov'erano Markus e Kalmus? Verso la notte che avanzava gridammo invano i loro nomi. Pensammo allora che fossero già giunti al riparo nel rifugio e corremmo a quella volta, con il pappagallo fra le braccia. Ma al rifugio Santner nessuno aveva visto i due gemelli. Con le fiaccole e le torce, accompagnati da altri uomini in un lugubre corteo, tornammo di nuovo fino al passaggio nella neve, illuminammo di una funesta luce le pareti della gola. Fu una ricerca allucinata, attonita, che durò da quella notte per molti altri giorni ancora. Non fu mai di loro rinvenuta traccia alcuna. LJ inverno scorso, durante un viaggio in Thailandia, mi son fermato a Bangkok per qualche tempo. Un mattino, con una barca, ho voluto farmi portare in uno dei canali laterali che intersecano la parte occidentale della città, dietro il Tempio del- )'Aurora, a Thonburi: Le case, qui a Thonburi, sorgono su palafitte o su isole a fior d'acquq ricoperte di giardini. Ci si muove in un rigoglio verdeggiante di gigli d'acqua e di canneti e di piccoli orti galleggianti; corone di fiori pendono sulle piroghe dai balconi. Di tanto in tanto, lambito alla base dalle onde molli, emerge fra le palme un tempio dorato e azzurro. Il viaggiatore va, e si squaglia nell'aria un olezzo di profumi dolciastri e infradiciati, e nella putredine marrone dei canali germoglia una verzura luminosa. È come percorrere una palude marcescente eppure in festa: bambini si tuffano dai ponti, donne si affacciano alle verande inghirl_andate. In una di queste piccole case di legno, su palafitte, da diversi anni ormai, Adeline vive, insieme ad una donna amata. Ha lasciato il mondo di prima in un senso assai profondo: non è più tornata in patria e nemmeno, credo, all'amore per un uomo. Accoccolati a bere il Francesco Leonetti tè sul balconcino della villa, mentre sotto di noi scivolavano le piroghe cariche di una minuscola, multicolore mercanzia, abbiamo rie-· vocato brevemente i giorni di quella lontana estate. «Dopo la loro scomparsa» Adeline dice, «ero terrorizzata dall'idea di aspettare un figlio. Non venne, per fortuna, ma se fosse nato non avrei saputo se era di Markus anziché di Kalmus. Né certo avrei mai potuto distinguere in lui in futuro una somiglianza che appartenesse all'uno e non all'altro. A quel tempo Kalmus seguiva Markus come un'ombra. Oppure era Markus che all'ombra di Kalmus si sentiva sempre più vicino. Nella malinconia amara dell'uno verso l'altro son spariti, son volati via. lo non riesco a credere che siano morti. Ma non mi posso neppure figurare che sian fuggiti a vivere in qualche isola dell'Oceania. «Ricordi quel che si diceva a Vigo? Per breve tempo si vagheggiò di loro, ci fu chi li sognò come i numi tutelari di quei momenti in cui si sente la testa che si annebbia; dissero ai bambini che si potevan scorgere le loro ombre passeggiare nella foschia del mattino presto ... Ma questa tenue diceria non durò nemmeno una stagione ... Eran due fratelli tanto, tanto delicati. Il più leggero peso della vita atterrava la loro mente così lieve ... «Non so se sai quanto Markus desiderasse quel bambino. Aveva rinunciato a scrivere, aveva capito che scrittore non sarebbe stato mai, gli mancava la forza per partire alla ricerca della 'grande ispirazione'; tuttavia pensò a quel punto che la spinta all'ispirazione avrebbe potuto infonderla nel figlio, voleva testardamente far di lui quell'artista che non era riuscito a divenire ... Ma ero io, credo, che non volevo questo figlio, già chiamato con il nome di poeta. E fu per togliergli quel nome oneroso, forse, che con l'ombra di Kalmus coprii il bambino. Markus lo sapeva. Mi unii a Kalmus, forse, per soffocare nel mio bambino, che non c'era ancora, il peso di quel nome che per lui era già deciso. «Dico 'forse', perché adesso non so più, non sento le cose come le sentivo allora. Dopo essere venuta qui, amando amata un'altra donna, l'immagine dei miei due sposi è divenuta tanto pallida, ma il ricordo di quel bambino inesistente mi si è fatto invece come non mai vicino. Avrebbe ormai dieci anni, quasi; sento nostalgia del suo viso che non si è formato; mi strugge il desiderio di vederlo vivere aécanto a noi ... In un certo senso questo figlio, o la nQstalgia dolcissima per questo figlio, è il frutto dell'amore per un'altra donna. Non sentivo prima alcuna nostalgia. Ma ora ho lei e, amando lei, ho come generato, qui a Thonburi, questo bambino della nostalgia ... » «È un bambino della palude» rispondo, «di questa palude in festa». «Oh, sì» sorride, «ricordo quel sogno. C'era una palude. Ma era, quella, una palude abbandonata». «Perché non era ancora nato il bambino, il bambino poeta che avrebbe dovuto percorrerla e cantarla». «Non ancora nato e mai più nato. E però il bambino è come se ci fosse, come se l'avessi in seguito rigenerato, dopo averlo invano concepito tanti anni prima ... perché, se no, ne avverto così spesso la presenza, fra questi canali colorati? Quel bambino che ritorna, dopo dieci anni, è il dono immateriale del mio nuovo amore ... » «Il bambino della palude, questo bambino lieve che c'è e non c'è, avrebbe dovuto portare a salvazione la letteratura che va morendo ... » «Ma il bambino che non volevo allora, tuttavia guarda come aleggia qui fra noi; con la sua presenza leggera in questo dialogo egli ci sorride e ci intrattiene ... » «E mentre così ci intrattiene e viene e va, intrattiene anche la letteratura, che sempre va morendo, ma dalla morte poi ritorna ... » Il principiod!'la"narrazione Cf è sempre una sera nella vita di un uomo nella quale egli parla con un amico fino a tarda notte per entrare nell'anfratto della tenebra e nella profondità del tempo per ricongiungersi dove egli si aspetta. Da bambino G., nel corso di un'esistenza irregolare condotta con suo padre pittore, durante la guerra che di notte aveva restituito le strade e le piazze alla loro solitudine, aveva assistito in cucina, l'unico luogo caldo della casa, alle conversazioniinterminabili,prolungate fino alle ore piccole, degli amici, per lo più colleghi, di suo padre. Non riusciva quasi mai a capire quello che dicevano e nondimeno assisteva silenzioso a quelle discussioni nelle quali essi sembravano rifondare daccapo ogni volta la loro vita, approfittando del silenzio e della solitudine; del resto con il silenzio e la solitudine la guerra trasformava la città in una terra di avventure. G. ricevette una sera un amico, uno più giovane di lui. Naturalmente G., come tutti, riceveva amici, ma avrebbe voluto parlare con il Diavolo. Tutti, una sera, vorrebbero fare tardi con il Diavolo per sovvertire finalmente la calma scena della vita che continua là fuori. Ma l'alternativa non è così secca, perché ciascuno una sera, se non può parlare con il Diavolo, stringerà però con l'amico, che viene sempre al suo posto, un patto con il Diavolo. Il Tempo, poi, somiglia ad· una di quelle donne che devono essere corteggiate e che poi, soltanto dopo una serie di approcci, aprono infine le loro braccia. Impossibile prenderlo di petto e afferrarlo subito. Sarebbe più economico, anziché fare così tardi e sentirsi mortalmente stanchi il mattino dopo, cominciare subito appena ci si siede. Ma anche quella sera a G. e al suo amico la cosa risultò impossibile. Certo, astrattamente parlando, avrebbero anche potuto aggredire la cosa immediatamente, ma allora sarebbe finita subito lì o di lì a poco, e invece è soltanto quando si aspetta fino a tardi che il Tempo con il volto che è atteso e desiderato finalmente arriva da sé; sa lui quando deve arrivare, e da quel momento in poi non finisce mai. Spalanca una voragine inesauribile, e lo si può troncare solo per decisione o per stanchezza, perché Lui quando è ben arrivato è certo più forte di tutti gli amici che su questa terra si possono ritrovare insieme una sera. Ma nei confronti del Tempo, ecco un altro requisito essenziale: bisogna necessariamente avvicinarcisi insieme. Se non ci si avvicina insieme, all'unisono, Lui non sopraggiunge. Così, dunque, G. e il suo amico cominciarono ad istruire le prime schermaglie con il Tempo, con i primi approcci della conversazione che, a differenza di altre, di tutte le altre attività umane, è più stanca al principio che non alla fine del suo esercizio. Poi, più avanti, molto più avanti, entrambi avvertirono che il momento si stava avvicinando, che il Tempo diventava promettente ed era una seduzione. Fu più o meno allora che G., rivolgendosi al suo amico Sandro con maggiore determinazione, gli disse: «Ecco, io ho la sensazione che ormai ogni cosa venga da lontano e che il nostro stesso pensare sia soltanto la eco che risuona dal fondo della nostra vita. Viene un momento in cui non si ha più interesse a vivere la propria vita, ma a raccontarla. E più precisamente, a raccontare l'altra storia eh½ è rimasta sempre in penombra, che se anche crediamo di averla raccontata in realtà non l'abbiamo raccontata, anche se è l'unica che abbiamo veramente vissuta». «Ma come raccontarla?» domandò Sandro il quale, avvertendo una certa curiosità, si accendeva divertito una sigaretta. «E se poi non si è scrittori di professione, come si fa?» G. non aveva alcuna sicura convinzione al riguardo, e ammise che era tutto incerto. Ma poi aggiunse: «Bisogna farsi male, di questo, sì, sono certo; farsi male in tutti i sensi; perché, come dice Wittgenstein, uno non può scrivere nulla che sia migliore di quello che egli è. Ma se non mi fa ombra l'ipocondria, farsi male - continuò G. - vuol dire anche avere coraggio di farsi male persmo fisicamente, compromettere il corpo, accettare l'eventualità o la certezza di un cattivo assorbimento intestinale, gli spasmi del colon, rappresentare anche questo e tutto il resto della vita com'è, né migliore né peggiore di quello che è, e nondimeno - e, vedi, questo è il punto - nondimeno raccontarla come se fosse bella perché la si sta semplicemente raccontando». «In questo momento com'è?» gli domandò sorridendo Sandro. «In questo momento, per esempio, è bella, perché è come se cominciassimo già a raccontarla». Mettendoci un po' più di impegno Sandro dichiarò per parte sua: «Mah, si potrebbe dire che tanti, tanti secoli fa c'erano stati i decreti del Fato, poi la voce della salvezza, la voce di Dio, e poi più recentemente il conflitto delle classi sociali a fornire quella che, anche se è un termine un po' romantico ma serve per intenderci, si chiamava ispirazione o qualcosa del genere. Ma ora?» «Non è tanto - rispose G. - che prima c'era Dio e ora siamo rimasti soli perché, pur senza saperne nulla, io credo che dovevano esserci dei problemi anche per parlare con Lui. Guarda, noi siamo, come deve essere, sempre allo stesso punto. Anzi, è il fatto che in un certo senso siamo sempre allo stesso punto, nonostante tanto strepito e rumore, ciò da cui dobbiamo imparare più che da ogni altra cosa». Sandro aveva interesse per quello che G. gli confessava, ma soprattutto lo divertiva sapere come sarebbe andata d'ora innanzi con il lavoro di G., che dopotutto insegnava da anni Filosofia all'Università. E ora lo incuriosiva prevedere che piega avrebbe preso la sua vita, visto che G. era uno di quegli uomini dei quali si dice che «sono capaci di rinnovarsi». G., questa volta, la prese da lontano: «Cartesio volendo ripensare tutto daccapo, cominciando da 'Penso, quindi sono', forse voleva raccontare la sua vita, stanco di combattere la Guerra dei Trent'anni. Ognuno vuole in realtà raccontare la sua vita. Ci sono mille modi di farlo; ognuno ti racconta la sua vita, perfino quando non te ne accorgi. Questo è il principio di ogni cosa». E ora G., per quanto solitario ma non insocievole, avvertì lo strano legame che lo univa a tutti gli uomini. E con un certo calore continuò a dire: «Allora è come se io o te potessimo dire: 'Ora ho capito, c'è voluto del tempo, ma ora sono vicino alla tua candela, Cartesio, quella che illumina la scrittura delle tue Meditazioni Metafisiche'. Ma poi chi scrive dissertazioni su Cartesio è un fascista, o perlomeno un taccagno». Sandro scoppiò a ridere e domandò: «C'è qualcosa di meglio secondo te?» «Sicuro che c'è, meglio allora fare una strapazzata di sentimenti
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