come in una candida nebbia palustre, punteggiata di splendenti fiori rosa ... M entre Markus divagava in tal maniera, avvertii appena appena alle mie spalle uno scalpiccìo, un sommesso scatarrare. Mi voltai adagio lasciando svanire le parole del mio amico: con il gomito appoggiato a un cassettone, una palandrana addosso bianca e rosea, di foggia esotica, c'era Kalmus. Rimasi colpito innanzi tutto dall'espressione maligna e amareggiata con cui ci sogguardava. Era effettivamente identico a Markus, ma un Markus contraffatto, infettato da qualche influsso bizzarro o velenoso: sembrava un suo doppione uscito dal mondo stregato della natura, come se nell'oscurità di una foresta, che so, un castoro o un cervo si fossero presa la briga di copiare al meglio l'immagine di Markus, col risultato di dar vita a una sorta di elfo, di coboldo. Eppure Kalmus non era solo questo: c'era in lui qualcosa come un profondo disappunto, una noia, uno scoraggiamento amaro, e tale acredine dolente toglieva ogni perfidia dal suo viso, faceva pensare a una mestizia sterminata e senza contenuto, un dolore della mente, che dolorava così, fuori di ogni pensiero, nel vuoto e a vuoto. Nell'occhio acquoso di Markus mi parve allora di ritrovare quella stessa fatica dell'intelligenza, o la paura di venire invasi da una simile fatica, la quale inceppa l'intelletto, e lo atterra, e lo appiattisce in una bruma bianca. Tuttavia Kalmus si mise a parlare: «Scusate ... » gracidò con una voce secca, aspra, un mezzo sorriso già teso a deprezzare quel che si accingeva a dire, «... scusate se ho anch'io qualcosa che vi potrei esporre ... » Chiarì che sulla fine della letteratura non aveva alcuna idea, tantomeno sulla letteratura in sé; ma in compenso sapeva qualcosa sulle sue origini; o meglio, voleva raccontare una credenza delle Nuove Ebridi, riguardo al modo con cui nascono i racconti, i miti, le storie, se non da scrivere, almeno da narrare. Spiegò dunque che laggiù, nella zona meridionale dell'isola di Malekula, dove lui a lungo aveva soggiornato, presso la tribù degli Small Nambas, quando un uomo muore, gli si costruisce una statua funeraria di nome «rambaramp»: il tronco di una felce arborescente viene ricoperto di foglie e stecchi, in modo da simulare la forma del corpo; e sul tronco si incastra il cranio del cadavere, spiccato dalla salma dieci giorni dopo il decesso: è un cranio rimodellato con creta e resina, così da riprodurre le sembianze del defunto che diviene da quel momento un antenato protettore; la statua rambaramp rappresenta dunque l'effigie di un morto cui chiedere aiuto, cui tributare offerte e devozione; essa viene conservata sino a quando dura il ricordo personale del defunto o sino a quando non comincia a disfarsi e a cadere in pezzi; a questo punto il cranio viene portato al cimitero e l'antenato non sarà più oggetto di un culto personale. Ebbene, quando il rambaramp inizia a slabbrarsi e a scricchiolare, quando l'impalcatura si scompagina e il volto si sbrandella, allora, per la prima volta !-'antenato borbotta qualche cosa: è ·un mugolìo ansan"tee tossicchiante, un bofonchio appena percettibile dall'orecchio di qualche magro sacerdote;· sarà poi quest'ultimo che, ripetendo amplificati, davanti a un uditorio, i colpi di tosse, i borborigmi, i rutti emessi dall'antenato che si allontana, inframmezzerà tali rumori con il racconto, mai prima udito, di una nuova storia, traduzione del borboglio cadaverico; questo racconto novello è stato dunque generato così: ispirato dalla gola disfatta di un morto: sono i morti che, prima di venir dimenticati interamente, danno vita a un soffio stridulo, e il sacerdote lo riecheggia, e lo decifra, e lo diffonde poi nel mondo ... «Così è» aggiunse Kalmus. «Di più non so ... Ma, per cambiar discorso, sarebbe buffo pensare che quando Markus ed io andremo all'altro mondo, se al momento del trapasso ci troveremo a Malekula, gli Small Nambas ci faranno il rambaramp: due teste uguali di ossa e creta, vicine l'una all'altra, le orbite marroni, lo stesso ghigno sdentato sulla prima e la seconda ... » Quest'ultima frase, ancor più inaspettata delle precedenti, mi sbalordì; e mi par di rammentare che i capelli a spazzola di Markus si drizzassero ancor di più nel raccapriccio; ma forse sbaglio: lui sobbalzò, sì, ma subito si quietò e a testa bassa non proferì parola. Q uel che avvenne poco dopo l'ho pressoché dimenticato. So che a un certo punto uscii e rimasi fuori a cena: loro intravvidi la figura di Adeline: et:a in piedi ... con Markus ... nuda ... no, con Kalmus! ... si stavano baciando ed abbracciando ... Risalii in camera sgomento, mi gettai a braccia aperte sopra il letto: Markus, Markus, che stai facendo? Che cosa vuole questo gemello tornato a casa col pappagallo? Pareva che si stesse attuando un evento primordiale, un mito spaventosamente arcaico... cominciai a sudare. Sudai violentemente, per tutta notte, infradiciai il letto. AI mattino, come svuotato, purificato, ero pronto per il dramma. Uscii solo e mi incamminai lungo i prati che si aprono alle pendici del Rosengarten, verso Santa Giuliana, poco oltre la funivia che sale da Vigo fino al rifugio Ciampedìe. Trovai distesi nell'erba Adeline e Kalmus. Markus, mi spiegarono, era rimasto alla pensione: voleva insegnare qualche nuova frase a Ninman, il cacatua. Non feci parola del mio incontro notturno con l'uccello, venni però a sapere che Kalmus l'aveva acquistato in Australia e poi tenuto sempre con sé, nei sette anni di soggiorno alle Nuove Ebridi. Era un pappagallo ancora giovane, imparava a parlaMarinella Guatterini non volevano mangiare, io avevo un impegno che mi trattenne sino a tardi. Ma a notte fonda, mentre dormivo nella cameretta della pensione, fui svegliato da una voce che dietro la porta mi diceva: «Vieni, amore ... » Confuso dal sonno, mi parve la voce di Adeline, ma una voce stranita, innaturale, come emessa dalla cavità di un giocattolo meccanico. Pensai che ero stato io a deformarla nel mio sonno e che là fuori Adeline mi chiamava; mi alzai veloce e aprii in silenzio quella porta. Nel corridoio, appollaiato sopra un falso cameriere, se ne stava un cacatua: era un pappagallo bianco,. ma, con una tenue sfumatura rosa, che si faceva quasi arancio sulla cresta; pareva un uccello grande e buono, mi guardava con una pupilla triste: «Vieni', amore ... » ripeté, contraffacendo orribilmente la voce di Adeline. Ne fui offeso e stomacato, volli scendere al piano di sotto, per sciacquarmi il volto nel bagno di servizio. Ma mentre stavo per entrarvi, dietro una porta a vetri illuminata re con grande abilità. Sapeva già, mi dissero, imitare la voce di Adeline; a volte invece, ma era raro e accadeva nei momenti più impensati, ripeteva la voce profonda di un sacerdote degli Small Nambas, voce udita a Malekula, gutturale, spezzata, a sua volta eco della voce infera con cui balbettano i rambaramp ... Ascoltavo questi discorsi e intanto fissavo in lontananza la finestrina della pensione Dal Piaz, dove Markus si esercitava col pappagallo. Perché non veniva? Dunque sapeva o sospettava? Fra noi tre, distesi al sole, c'era un'aria torbida, annebbiata e appesantita da un'amarezza greve. Non mi veniva in mente niente da dire., ero stolido, con la mente ottenebrata. Chiesi, tanto per chiedere, notizie sulla piantagione di banani; Kalmus, una pagliuzza in bocca·, mi rispose a stento, come uno gnomo che fa fatica nell'adeguarsi alla voce umana. Adeline dormiva o fingeva di dormire. Il Rosengarten splendeva verso il cielo. A mezzogiorno, il.cacatua sopra una spalla, arrivò Markus. Era taciturno. Con un certo fastidio gli notai sul labbro la stessa piega amara del fratello. Per cercar di ravvivare l'atmosfera, proposi loro di fotografarli. Si animarono un poco. Li ritrassi così, come poi rimasero per lunghi anni, nel quadretto incorniciato della pensione Dal Piaz. Poco dopo Markus volle far ripetere a Ninman la frase che si sforzava di insegnargli; era una frase, ci disse, che riguardava la loro madre, i loro genitori ... Stese quindi un braccio per prenderlo dalla spalla del fratello; fece, non so, un movimento sbagliato, o un ghigno, o un gesto goffo: insomma, qualche cosa per cui il cacatua si spaventò. Avvenne in un attimo: Ninman lanciò uno strido e spiccò il volo verso le cime del Rosengarten. Ci sobbalzò il cuore in gola, in modo, almeno per me, addirittura spropositato. Più attonito di tutti apparve Kalmus, cui il pappagallo finora non era mai sfuggito. Passò qualche secondo prima che gli tornasse il fiato per chiamarlo. Ma il cacatua era già un punto bianco fra le rupi rosa delle Dolomiti. Che fare? Ragionevole sarebbe stato rimanere ad aspettare il suo gio Preuss; ma arrivati a metà strada piegammo a sinistra e prendemmo di nuovo a salire verso il passo delle Coronelle. Non avevamo mangiato, eravamo già esausti, bruttati dal sudore. Tutt'intorno le pareti gigantesche del Rosengarten sembravano volersi scostare da noi, per non prender parte a una simile vicenda. Toccammo il passo delle Coronelle, c'involammo in giù alla volta del rifugio Fronza, ma quando eravamo ormai vicini girammo a destra, su per il lunghissimo sentiero 542, che attraverso i ghiaioni porta fino al passo Santner. Giunti con le gambe tremanti ai piedi del passo, il sole era ormai prossimo al tramonto, scese su di noi una nebbia grigia, da spavento. Da quel momento smettemmo di guardare in cielo e al pappagallo non pensammo più. Dovevamo al più presto ora arrampicarci fra le rocce erte fino al valico, in modo da pernottare poi nel vicino rifugio Santner. Era una scalata impegnativa, si poteva smarrir la strada al buio, c'era il pericolo di precipitare nel ghiaione. Andai avanti prima io, poi Adeline e infine i due Untereiner. Vi è, quasi alla fine della salita, Shiro Daimon ritorno. Ma Kalmus venne preso da una furia tenebrosa. Volle salire con noi sulla montagna, raggiungere l'uccello bianco. Corremmo a prendere la funivia per arrivare almeno a Ciampedìe. Durante la salita Markus non parlava; forse, non ricordo bene, non lo udii parlare più; teneva gli occhi a terra, era come svuotato, imbambolato. E, arrivati a Ciampedìe, nessuna traccia di Ninman. Ma Kalmus parve individuare di colpo la pista da seguire. Come inebetiti, a passo di corsa, senza opporci, ci trascinammo dietro a lui. Cominciò così, e durò per otto ore, la marcia spaventosa e catastrofica, marcia intrapresa sempre a testa alta, con gli occhi strabuzzati che, cercavano una creatura lucente, in volo su nel cielo. Prend.emmo il sentiero 545, sotto le Cigolade, e giungemmo al ri0 fugio Roda di Vael; da lì, senza fermarci., ci trascinammo in su, verso i Mugoni, e quindi a destra, al passo delle Cigolade, e dal passo in giù, lungo il sentiero che scende alle Porte Negre e al rifuun passaggio molto ripido, esposto, coperto di una neve che al di sotto si inabissa in una gola, in un canalone stretto fra rocce e sassi, dirupante in giù e in giù, fino al ghiaione. Chi, come noi, non ha picozza e scarpe adatte, deve stringersi alla neve, e adunghiarla, e issarsi in su così, nella speranza che una mano o un piede non gli sguizzi via, scaraventandolo nel baratro. Il passaggio ad ogni modo è breve e richiede pochi passi; superandolo, feci appena in tempo a intraveder di sotto la gola sprofondare in una caligine nerastra. Poi, quando fui dall'altra parte, mi voltai indietro per seguire i movimenti di Adeline. Ma proprio allora venni disturbato da un rumore strano, come di terriccio, o di pentolone che ribolle: era simile a uno scalpicciare, un brontolar profondo, uno sfrigolare di sassi incandescenti .. Levai di scatto gli occhi in alto e, sopra di me, in piedi su un costone, vidi stagliarsi nella nebbia grigia il profilo di Markus e Kal- . mus Untereiner. Forse perché
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