Alfabeta - anno VII - n. 74/75 - lug./ago. 1985

Il bambinqianp~ tlla palude A Viga di Fassa, nella pensione del calzolaio Dal Piaz, c'è una fotografia dei gemelli Markus e Kalmus Untereiner. La fotografia è appesa proprio nell'atrio d'ingresso, e mostra i due gemelli in piedi, la mano poggiata al tronco di un larice, le rupi del Rosengarten sullo sfondo; accoccolata fra l'erba, ai piedi del marito, c'è Adeline, la moglie di Markus; mentre sulla spalla di Kalmus se ne sta appollaiat_o un pappagallo bianco del pacifico, Ninman, il cacatua che Kalmus aveva portato dalle Nuove Ebridi. La fotografia è nell'atrio da ormai dieci anni, ma ora ho saputo che Dal Piaz sta per vendere la pensione e ritirarsi a Trento; quasi cieco, non porterà la fotografia con sé, né immagino che i nuovi proprietari la lasceranno in quel posto che da sempre è stato il suo. Così, con la perdita della fotografia, scattata da me giusto poche ore prima della sparizione dei gemelli dalla valle in cui soggiornavano - con la perdita, dicevo, di quella fotografia, svanisce a Viga di Fassa l'ultima testimonianza dei gemelli Untereiner. Il caso, rimasto sempre insoluto, della loro enigmatica sparizione, quasi quasi fece fiorire attorno al loro ricordo un mito; ma il mito appariva troppo fragile e misterioso, non riuscì a consolidarsi in una storia che fosse raccontabile e presto si disfece: fra pochi mesi ne rimarrà men che nulla, e men che nulla è anche questo racconto che, in sostituzione della fotografia perduta, mi accingo ora a scrivere: testimonianza di una storia la quale, come non fu mai, così non verrà mai narrata nella valle ... e onoscevo Markus, non Kalmus. Compagni d'università, avevamo in fatto di donne gli stessi gusti: così, finiti gli studi, convenimmo tacitamente di non frequentarci troppo spesso. Tuttavia di tanto in tanto i nostri incontri si ripetevano: è che ci piaceva la letteratura. ci assomigliavamo, discutevamo di critica letteraria con opinioni somiglianti. Di Kalmus sapevo l'esistenza. «Eeh, mio fratello Kalmus ... » rievocava Markus, e sospirava: «... ricordo che, quando eravamo bambini, non mangiava o si nutriva di nascosto: mentre eravamo a tavola se ne stava alle nostre spalle, in piedi, un gomito appoggiato altermosifone. Non parlava, ci sbirciava assorto, magro, coi capelli rossi che fiammeggiavano sulla testa bassa, la bocca sardonica o amara e tetra. Pareva un fratello non mio. un figlio della nebbia. Identico a me d'aspetto, mi faceva pensare a volte che fossimo venuti entrambi dalla nebbia ... » A diciotto anni, mentre Markus progettava di diventar saggista o narratore. Kalmus, sempre taciturno e inquieto, era partito per la Melanesia: incolto, non interessato a nulla, aveva avuto la stravagante possibilità di acquistare una piantagione di banani nelle isole delle Nuove Ebridi. Ogni volta che Markus si sentiva svuotato di idee, Ptivo di ispirazione e sterile, pensava al fratello lontano. quel gemello ottuso e cupo, che pareva una concrezione di foschia rossastra; amava Kalmus, gli veniva misteriosamente da supporre che per creare davvero un'opera d'a~te dovesse sempre tenersi accanto l'immagine anoressica, amara e vuota di un simile gemello. Quando già stava per partire verso l'Oceania, ancora cercava di trattenerlo: «Ma non pensi che sia meglio rimanere?» Col gomito appoggiato a un tavç>lino, l'altro scuoteva il collo scarno, gracchiava in un sarcasmo inacidito: «No ... no ... io non penso niente ... io me ne vado via ... » Markus, chissà come, usciva da simili dialoghi con la mente plumbea e però stregato, quasi l'ispirazione a scrivere dovesse venirgli un giorno proprio da quel «no ... no ... » tanto greve e buio. Nell'agosto del 1975, sette anni dopo la partenza di Kalmus, ricevetti una breve lettera di Markus, spedita dalla pensione Dal Piaz: «Son quasi dieci mesi che non ci incontriamo. Mio fratello Kalmus è ritornato. Dopo la morte dei nostri genitori, avvenuta, come forse sai, questa primavera, Kalmus ha lasciato le Nuove Ebridi, viene ora a vivere con me. Non so che pensare. È un fratello sconosciuto, ma mi unisce a lui.qualcosa come una tristezza infinita o un enigma dell'affetto che lui, non io, conosce. Parla sempre poco, mi segue, le labbra appena increspate in un sogghigno. È possibile, ripensandoci, che i miei genitori avvertissero la sua semplice presenza con un senso di imbarazzo, vergogna o turbamento. Ciò deve essergli assai pesato: così, torna ora che son scomparsi. Di viso ci assomigiiamo ancora, siamo anzi identici: Wil/iam Forsythe porta addirittura i miei stessi baffi a punta, il pizzetto rosso, i capelli a spazzola tagliati corti. Ma di un particolare, non so perché, preferisco avvertirti prima, nel caso di un incontro: Kalmus non è cresciuto più di tanto: per denutrizione o per una qualche malattia contratta nell'adolescenza, è rimasto Giovanni Giudici basso: raggiungerà sì e no il metro e mezzo: venticinque centimetri meno di me: è il mio gemello nano ... «E poi un'altra cosa, di cui potrai stupire: poco prima del suo arrivo mi sono sposato con un antico amore, nostra compagna del primo anno di unjversità: Adeline, che ben ricorderai, così come lei tuttora ti ricorda .. Ora, poiché siamo tutti e tre in villeggiatura da Dal Piaz, poiché c'è già una camera riservata_ per un tuo auspicato arrivo, vienici a trovare: ho letto alcuni racconti di cui vorrei discutere con te ... Ho letto, dicevo: quanto a scrivere, non ho a tutt'oggi ancora scritto nulla; ma, come ben sai, studio, mi preparo, e intanto aspetto la grande ispirazione ... Un saluto dalla tua vecchia conoscenza: Markus Untereiner». Appena arrivato a Viga incontrai Adeline, sola, nell'atrio della pensione Dal Piaz. Inaspettatamente mi sentii di colpo pervadere dall'antico sentimento: «Adeline, ti ricordo sempre così com'eri allora!» feci in tempo a sussurrarle, mentre le stringevo il polso, la mente obnubilata. Furono una frase e un gesto avventati, di cui subito mi pentii e di cui tanto più mi vergognai in seguito, di fronte agli avvenimenti cui mi capitò di assistere. Adeline si divincolò in silenzio dalla mia stretta e appoggiò una mano allo stipite della porta; nell'altra mano teneva abbandonato ..un ventaglio semiaperto; e da quella soglia in ombra gettò nei miei occhi uno sguardo assorto e vuoto; preso nel velo di tale sguardo,-peqsai per un momento ai volti remoti e sospesi che hanno le figure dei quadri o q11elle donne che si tengono lontane non da uno, ma da ogni uomo ... Poi il momento passò e salimmo al piano di sopra, dove Markus mi aspettava affondato in una poltrona. Lo trovai più smagrito, nervoso ed irritabile: pareva in affanno per una sua cosa che taceva. Il lungo naso a gobba doppia, i tondi occhi verdi e lacrimosi, in contrasto coi baffi arricciati all'insù, gli conferivano una certa aria da somaro, quel che in realtà non era. Ma l'impressione patetica e farsesca era quel giorno ancor più accentuata da un enorme colletto bianco che spiccava come una gorgiera sul maglione nero. Perché concedersi un simile colletto, con una moglie tanto bella al fianco? Acconciato a quel modo pareva la caricatura di un ritratto di Rembrandt, o una presa in giro di se stesso in quanto sposo e amante: ma quella matrimoniale era una parte della sua vita che io non conoscevo ancora ... Mi par di ricordare - son passati dieci anni ormai - che quasi subito, tenendo una mano smunta nella mano di Adeline, mi raccontò un suo sogno. Aveva visto una palude: ninfee, giacinti, fior di loto nell'acqua bianca da cui altissimi emergevano alberi dal fogliame tenue tenue. Nella palude era un gran silenzio, un abbandono. Fra i festoni dei rampicanti scivolava una piroga con due figure delicate in piedi: erano cerbiatte, cerbiatte in forma semiumana, anzi femminile. Andavano chissà dove, non più in attesa di un incontro. La palude infatti non veniva visitata da nessuno: rimaneva abbandonata nella sua bellezza ... Così più o meno il sogno, meraviglioso e triste al tempo stesso. Suggestionati da quel senso di desolazione luminosa, venimmo a discutere di letteratura, della sua crisi, della sua fine eventuale. Ricordo che si parlò del numero sempre più scarso di scrittori validi, come se stentasse a emergere una nuova generazione di grandi autori. Pareva, disse Markus, che gli scrittori attuali volessero attingere sempre meno alla grande emozione, al trascendente, cioè alla fonte dell'ispirazione. E la letteratura, nell'epoca della sua fine ormai vicina, si sarebbe potuta raffigurare così: come una vasta palude silente, non più frequentata da nessuno. Abbandonata a se stessa la palude si era fatta bella come non mai, misteriosamente bella: e mai come oggi sarebbe stato possibile esaltare la bellezza della palude, divenuta, proprio con l'avvento della modernità, qualcosa di ancor più ignoto, di cosmico, di estremamente prossimo all'infinito. Ma appunto: nessuno più era disposto a lasciare il grande rumore del mondo, per rispondere alla chiamata della palude e mettersi in viaggio verso le sue distese così deserte e nebulose: partire in cerca dell'ispirazione risultava oggi un'impresa troppo angosciosa, solitaria e desolata; perciò, all'invito della palude tanto bella non si presentava oggi alcuno, ma la palude diventava sempre più stupenda proprio in quanto era quasi ormai una landa dimenticata, immersa in una quiete non umana. Pareva un paradosso, malinconico e ammaliante, e in questo paradosso la letteratura si spegneva, si dissolveva

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